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1. La fotografia è viva (ma spesso non lotta insieme a noi)

di Pio Tarantini

Nino Migliori, Checked, one year under control, 2002. © Fondazione Nino Migliori.

            La fotografia è morta?

Come cominciare una serie di interventi attorno alla fotografia se non con qualche riflessione sul cosiddetto statuto della fotografia e sulla sua attuale fenomenologia? Ci provo, confidando nella pazienza dei lettori, seguendo un filo che mi viene spesso suggerito da incontri e conferenze, fino a un anno fa “in presenza” e oggi telematici, in cui mi si rivolgono spesso alcune domande. Forse questa mia nota iniziale potrà apparire molto didascalica ma mi preme ribadire alcuni concetti, anche se per molti lettori sono elementi già acquisiti nella loro cultura, proprio per l’esperienza diretta che mi viene dal rapporto con un pubblico eterogeneo di amatori e operatori del settore.

Partiamo un po’ alla lontana. È noto il refrain che ascolto praticamente da quando ero adolescente: la pittura è morta, il romanzo è morto, il cinema è morto… Insomma una strage sopravvenuta nella seconda metà del Novecento ma puntualmente smentita dai fatti. A tutti questi cadaveri negli ultimi anni si è aggiunta la fotografia, deceduta, secondo alcuni analisti, oltre che per i cambiamenti nella comunicazione visiva, per l’avvento del digitale.

Risulta evidente però, da tanti inconfutabili segnali, che queste visioni apocalittiche relative a questa giovane/vecchia forma di rappresentazione visiva spesso costituiscono più che altro materia per elucubrazioni cervellotiche che si scontrano con la realtà fenomenologica della materia. Sì, è vero che la fotografia non svolge più un ruolo primario e quasi unico nell’informazione visiva con la nascita di nuove forme di documentazione legate soprattutto all’avvento della televisione e della telematica; sì, è vero che la fruizione delle stesse immagini fotografiche non è più, soltanto, quella tradizionale, di stampa bidimensionale su carta fotografica o su supporti editoriali di massa come giornali e riviste. Ma, nonostante questi cambiamenti epocali, la fotografia svolge ancora un ruolo di grande importanza nella comunicazione e nella ricerca artistica. Sono soltanto cambiati i modi di concepire, realizzare, presentare e fruire il materiale fotografico. Ma questo nella storia delle forme di espressione umana è sempre accaduto. Guai anzi se così non fosse, vorrebbe dire che rimaniamo ancorati a un passato che non ci rappresenta più. E allora sì che potremmo parlare di morte della fotografia.

Nino Migliori, Tempio di Philae, 2020, da Trasfigurazioni. © Fondazione Nino Migliori.

            Le nuove strade della fotografia

Puliamo il campo dunque da questi pregiudizi e vediamo di mettere a fuoco, per quanto possibile, lo stato attuale delle cose. Innanzitutto, evidentemente da quanto ho premesso, non è vero che esiste una vera fotografia, una fotografia cioè analogica realizzata secondo i procedimenti originali di ripresa, sviluppo e stampa chimica preferibilmente in bianco e nero. Anche per il cinematografo appena nato dei primi tre decenni del Novecento si parla ancora oggi, per certi aspetti giustamente, di età d’oro del cinema: un cinema muto e in bianco e nero che necessariamente privilegiava il movimento, elemento linguistico di base della nuova arte che si differenziava così dalla madre-fotografia caratterizzata appunto dalla fissità iconografica. Poi però nel cinema è arrivato il sonoro, il colore, il formato panoramico, il surround, il digitale e tante altre innovazioni tecnologiche che hanno trasformato il modo di concepire, realizzare e fruire il cinema; ma a nessuno verrebbe in mente di dire che il cinema è morto.

La fotografia dunque non è morta, anzi, paradossalmente, oggi più che mai vive una nuova primavera che l’ha portata a essere uno strumento espressivo di massa con tutto ciò che questo comporta, nel bene e nel male. Qui forse dovrebbe intervenire uno psicoterapeuta per decrittare e spiegarci le chiusure di alcuni professionisti e fotoamatori che di fronte a questa rivoluzione si sono sentiti spodestati del loro ruolo di iniziati, di appartenenti a una casta di privilegiati nella realizzazione di una bella fotografia( ahi! che brutta definizione, ne ho parlato in un mio precedente intervento in altre pagine di questa rivista, vedi https://www.phocusmagazine.it/fotografia-e-dintorni-pio-tarantini/).

Nino Migliori, Gente dell’Emilia, 1959. © Fondazione Nino Migliori.

            La fotografia come fenomeno di massa e il professionismo

Si tratta invece di saper distinguere, come sempre, la fotografia banale e destinata a morire rapidamente nell’incontenibile crogiolo dei milioni di immagini digitali quotidianamente pubblicate in rete, dalle fotografie che, per motivi diversi, hanno più senso di destinare a durare. Come in qualsiasi altra forma d’espressione. Mi si può obiettare, con un sottile e non peregrino ragionamento socio-filosofico, che tutte le immagini fotografiche, per il solo fatto di essere state realizzate, hanno dignità di esistere perché comunque, almeno per chi le ha fatte, hanno un senso preciso. Va bene. È giusto rispettare anche lo scatto realizzato al volo con il cellulare della torta o della pietanza diversa che si sta consumando e che si desidera far vedere ai parenti e amici. Così come si realizzano e si fanno vedere alla propria cerchia le mitiche fotografie delle vacanze, oggi sui monitor di cellulari e computer mentre le persone che, come me, hanno qualche anno sulle spalle ricordano benissimo le interminabili proiezioni di diapositive, nel religioso buio in cui era immerso il salotto o il tinello, mentre sullo schermo o sulla parete bianca scorrevano paesaggi, cosce e addominali, quando c’erano, e volti sorridenti e abbronzati…. Questo però è un fenomeno importante ma che riveste sostanzialmente una valenza sociologica che già negli anni Sessanta il sociologo Pierre Bourdieu aveva acutamente analizzato e descritto (Un art moyen, Les editions de minuit, Paris 1965; trad. it. Guaraldi, 1970); fenomeno poi ripreso, in modi diversi, da due altri testi sacri della riflessione fotografica, quello di Susan Sontag Sulla fotografia (New York, 1973; trad. it. Einaudi,1978) e quello di Roland Barthes La camera chiara (Paris, 1980; trad. it. Einaudi, 1980).

Con tutto il rispetto per questo tipo di fotografie, che, ribadisco, svolgono una importante funzione sociale e di costume, passiamo invece a cercare di analizzare l’altro aspetto, quello legato alla documentazione e alla cosiddetta ricerca visiva, sia essa prettamente professionale ‒ nel senso di svolta propriamente da operatori che di fotografia vivono ‒ che amatoriale, senza caricare questo termine di alcuna valenza riduttiva. Al proposito basti ricordare che uno dei più grandi fotografi italiani del dopoguerra, Mario Giacomelli, viveva praticando altri mestieri, così come molti altri importanti fotografi. Il discrimine, con buona pace di molti professionisti, categoria alla quale io stesso appartengo da sempre, non passa attraverso il ruolo e la definizione sociale di professionista ma attraverso la qualità del prodotto culturale, o artistico che dir si voglia, che un fotografo riesce a realizzare.

La professionalità in fotografia consiste dunque nella capacità di un operatore di utilizzare questo procedimento ottico-chimico o ottico-digitale per realizzare immagini bidimensionali che possono essere fruite, con pari dignità anche se con approcci diversi, sia su un più tradizionale supporto cartaceo che su un monitor o uno schermo. La vera domanda da porsi a questo punto è quella solita che si pone davanti a qualsiasi forma d’espressione; nello specifico: con questa fotografia che hai prodotto cosa hai voluto dire? Perché l’hai realizzata?  E, soprattutto se aspiri a rivendicare se non un tuo stile almeno una caratterizzazione stilistica, come l’hai realizzata?

Si giunge così, come sempre, a un altro punto dolente perché fortemente problematico: la questione dello stile. E qui si apre un altro capitolo che mi accingo brevemente ad accennare per poi approfondirlo in successivi interventi.

Nino Migliori, Ossidazione- Autoritratto, 1949. © Fondazione Nino Migliori.

            La questione dello stile

Mi è capitato spesso di scrivere e ribadire a voce in interventi didattici o pubblici che in fotografia, come in tutte le altre forme d’espressione, è difficile inventare qualcosa, dal punto di vista stilistico, di veramente originale. Siamo nani sulle spalle dei giganti, scrivevo tempo fa in uno dei testi della mia rubrica domenica BuonaDomenica# su Facebook e qui riporto alcuni stralci di quell’intervento: « È nota la frase di Bernardo di Chartres, riportata dal filosofo tardo medievale inglese Giovanni di Salisbury [1120-1180] e in anni più recenti diffusa, se ben ricordo, da Umberto Eco: “Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti.” Questa considerazione, che io amo spesso ricordare nelle occasioni pubbliche che mi vedono coinvolto, andrebbe ripetuta come un mantra sia nel piccolo e marginale mondo della fotografia che in quello più vasto della comunicazione e dell’arte […].

«[…] … come si può parlare continuamente di Maestri, di capolavori, di nuove visioni e via dicendo a ogni vagito di qualunque fotografo, professionista o dilettante, affermato o sconosciuto, che attraverso il procedimento fotografico ottiene una riproduzione più o meno fedele di una piccola porzione di mondo? Ma forse non bisognerebbe studiare un po’ la storia della fotografia e soprattutto dell’arte come interpretazione bidimensionale del mondo per sapere che questa forma di linguaggio visivo ha profondissime radici, come per tutte le arti, nell’intera storia della rappresentazione visiva occidentale?».

Una presa di posizione così drastica parrebbe dover indurre qualsiasi persona di buon senso ad abbandonare qualsiasi velleità, riporre la macchina fotografica nella sua custodia e rinchiuderla in qualche armadio a fare sonni e sogni profondi. Ma sarebbe un’opzione totalmente sbagliata perché in questo modo si sbaglia l’approccio alla questione: basta invece partire dal presupposto che dovremmo realizzare fotografie innanzitutto perché è un nostro bisogno interiore, poi perché in ogni caso, indipendentemente dall’eventuale stile personale, le fotografie possono svolgere una importante funzione di documentazione e ricerca. Se poi non si distinguono eccessivamente per originalità dello stile, come accade nel 99 per cento dei casi, beh non bisogna farsene un cruccio; l’importante è esserne consapevoli e non impettirsi come trionfi pavoni quando non si è neanche tacchini. E io già non sopporto coloro che si pavoneggiano troppo pur magari potendolo fare.
Cosa, perché, come: tre domande alle quali tenteremo di dare qualche risposta.

Le fotografie che accompagnano questo testo sono di Nino Migliori, uno dei più importanti fotografi italiani, la cui ricerca è stata sempre caratterizzata a partire dalla fine degli anni Quaranta da una trasversalità, oltre i cosiddetti generi fotografici, che oggi risulta sempre più apprezzata.

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