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Historìa di un’icona del ‘900: Il bambino del ghetto di Varsavia, 1943

di Pino Bertelli

Caro Gesù Bambino, ti ringrazio per aver esaudito i miei desideri dell’anno scorso.

Ti avevo chiesto di eliminare la fame nel mondo e infatti quelli che avevano fame sono quasi tutti morti.

Giobbe Covatta

I. Nel Maelström iconografico dell’Olocausto

L’iconografia delle miserie, servitù e crimini dell’Olocausto vanno restituiti alla dignità, alla verità, alla giustizia… contro l’indimenticanza di una tragedia commessa da gelidi assassini… con la complicità di un intero popolo che non sapeva, né voleva sapere, né vedere il fumo che passava dai camini dove venivano bruciati milioni di uomini, donne e bambini soltanto perché erano ebrei, zingari, omosessuali, disabili, disadattati o pazzi!
La crudeltà del nazismo riunisce l’intollerabile e la faccia da fessi che li obbliga all’imbecillità… gente che ha l’inferno a portata di mitra e i loro comportamenti tradiscono disturbi mentali di notevole rilevanza… non è la divisa che fa l’uomo, è l’uomo che vuole una divisa per aspirare alla fama del boia!… il manganello dei fascisti o il fucile degli stalinisti, del resto, era il linguaggio degli stolti che scendeva il più in basso possibile per celare la sudditanza congenita, piegata all’arroganza appresa sui sorrisi sterminatori degli dèi e divenirne emuli!
 
Kafka, amava la frase (presa dal Talmud, forse): “Noi ebrei, come le olive, non diamo il meglio di noi se non quando ci schiacciano”… i nazisti, come i principi sauditi dei nostri giorni, l’hanno presa alla lettera… c’è da dire che nemmeno gli israeliani si tirano indietro quando si tratta di usare i carri armati contro le fionde dei giovani palestinesi… le sevizie degli indifesi fanno buon gioco quando si parla di mercati di guerra… l’acciaio Krupp, come il petrolio saudita (americano o russo o cinese) nascondono (nemmeno tanto) stragi meravigliose, di notevole portata economica… la dinastia saudita poi si distingue per la cancellazione dei più elementari diritti umani… i dissidenti (come in Russia o in Cina) sono fatti a pezzi e chiusi in valigie diplomatiche… senza il petrolio, questi ometti in pigiama, non sarebbero nemmeno capaci di raccattare la merda dei loro cammelli!… hanno facce da coglioni ricchi (anche se qualcuno di loro ha bivaccato a Oxford, gli resta addosso quell’aria da cretino sulla Ferrari che si può cancellare solo col taglio della testa)… sono salme imbalsamate di denaro sporco, in attesa di giudizio! Quello del popolo che a ogni giro di boa della storia alza la testa e impicca i regnanti ai cancelli delle regge, insieme alle loro puttane e servi… però questi scarafaggi dell’idiozia sono i maggiori mercanti d’armi e tutti i gruppi finanziari ci fanno affari… ammazzano uomini, donne, bambini… sostengono guerre e terrorismi… usano la religione come macellazione della libertà di pensiero (in questo hanno imparato dal cristianesimo e dallo stalinismo… ma non importa niente a nessuno… i mercati lo esigono… convinzioni, credenze e profitti sono all’origine d’ogni affettazione del genere umano… è impossibile pensare alla storia della tirannia in maniera distaccata e farci bella figura!
 

I nazisti sono stati la ciurmaglia dell’umanità, hanno innalzato un imbecille a Führer dei tedeschi e insieme alle classi dirigenti (banchieri, militari, politici, industriali dell’acciaio, imprenditori farmaceutici e pretaglia cattolica…) hanno mostrato il fascino della volgarità e della rovina di un’intera nazione!… le iene uncinate, come i sicari di tutti i colonialismi, totalitarismi e dispotismi, non sono mai usciti dal loro odio contro l’umano, non potevano, ambiziosi, stupidi e ignoranti come erano (e molti lo sono ancora)… accecati dalla sete di sangue disseminata in ogni anfratto sociale… facevano dell’apologia del fanatismo la riabilitazione generale del genocidio… degni continuatori dell’esercizio del disprezzo di san Paolo verso gli infedeli, andavano affogati nelle cloache (anche nobiliari) dalle quali erano usciti. Ci dispiace che l’intero apparato nazista sconfitto non abbia pagato quanto doveva alla giustizia… cioè l’eliminazione pura e semplice di quanti si erano gioiosamente compromessi col regime… ci fa male sapere di quella “sanificazione nazista” post-bellica che (come è accaduto con i fascisti in Italia) ha permesso di riportare nei piani alti della burocrazia, criminali e responsabili di nefandezze imperdonabili!… certo… la carneficina degli ebrei non è stata la sola che l’uomo ha commesso contro l’uomo… a partire dalla sante Crociate, lo sterminio degli Indiani d’America, quello degli Armeni, i gulag stalinisti, i protettorati insanguinati delle guerre moderne… è stato un susseguirsi di atrocità commesse in nome del progresso!… col conseguente arricchimento di pochi, l’impoverimento di molti e l’aumento delle disuguaglianze sulla Terra!… ma tutto ciò non giustifica affatto che un uomo, come un popolo, possa essere trucidato perché ha un’altra fede o è di un’altra razza… il sangue versato è rosso per tutti… il diritto di avere diritti comunque non si concede, ci si prende!

La fotografia del nostro scontento è una critica radicale che si mette esattamente dal punto di vista degli sfruttati, degli offesi, degli ultimi… il carattere-feticcio della merce è il medesimo delle fosse comuni naziste… per la prima volta nella storia dell’umanità però il genocidio di un popolo è stato documentato, fotografato, filmato ed è divenuto lo spettacolo che si legittima attraverso lo spettacolo (Giorgio Agamben, diceva)[1]! Dopo Auschwitz è impossibile pensare, scrivere, filmare o fotografare come prima! Niente è peggio di un pazzo asceso al potere, che sia un guerriero, un dittatore, un generale o un profeta, è lo stesso… la declamazione è lo spirito dell’autoritarismo che arringa le folle alla schiavitù e il terribile che viene è nell’idolatria che anticipa il massacro, dopo l’eccesso e le grida di plauso all’Invasato che li abbaglia!… i regnanti della politica, gli ecclesiali dell’inquisizione, i terroristi dei dividendi bancari… prima abbracciano i bambini (sull’esempio cartolinesco di Cristo) poi l’infilzano sulla punta delle spade, li fanno saltare in aria su bombe-giocattolo o li cancellano nelle camere a gas perché sono improduttivi… lo stile degli spettri è l’arte delle ricette, il frantoio del linguaggio di una civiltà abominevole, già condannata alla propria decadenza.

Lo spettacolo è il linguaggio del pensiero unificato… lo sradicamento di ogni popolo dalla dimora della sua comunicazione essenziale, dialettale o archetipica… e la fotografia è un mezzo di assuefazione nella quale tutte le identità sono dissolte… dovunque si manifesta l’ordine sacrificale dell’obbedienza e la soppressione della bellezza, della giustizia e del bene comune, vi sarà sempre un assassino che ne detta i soprusi e, prima o poi, compariranno i campi di sterminio! Il sistema di dominio spettacolare istruisce e consolida le proprie forche in bella uniformità… e solo una cultura dell’insorgenza non si adegua all’irreggimentazione dei prosseneti d’ogni politica… la plebe degli spettatori s’accoda ai linguaggi mediali e si sottomette alle sue leggi, alle sue “spiegazioni”!… i fascismi, nazismi, franchismi, comunismi, totalitarismi mascherati di democrazia… si sono annidati nelle direttive mercantili e poggiato i loro magisteri su sentenze sommarie… è ormai possibile fare una fotografia per preparare un assassinio! C’è sempre un Premio Pulitzer che lo autorizza! Bisogna avere orrore dello stile, specie se non è sorvegliato! Lo stile esige la possibilità di un limite da superare! Maneggiare uno stile richiede più talento che padroneggiare il discorso confezionato! Si tratta di non scavare la “realtà”, ma la verità!

Il linguaggio spettacolare s’immola magistralmente all’ignoranza di ciò che appare come affermazione di verità! Mai censura è stata più perfetta! In questo senso “la storia del terrorismo è scritta dallo Stato; quindi è educativa” (Guy Debord), e solo forme di rivolta sociale possono estradare o cambiare strutture e costrizioni, reati e crimini, delinquenze e cosche mafiose che ne dettano i pregi e i dogmi… il vuoto della comunicazione assume sfumature senza tempra né identità… una didattica dello snobismo si alterna alla dissoluzione delle soggettività e gli esteti dell’Apocalisse si occupano unicamente dei loro privilegi… tutto è semplificato e rifluisce nella nullità di fondo delle istituzioni e dei partiti… la ripetizione di concetti, bugie, corruzioni è la dimostrazione che gli uomini credono in ciò che si dice e non in quello che si fa… nemmeno i funerali di Stato di un qualsiasi caduto per l’onore, la gloria o la patria, sono veri… non sono né stupidi, né falsi… sono la rappresentazione effimera di una nazione che piange, prega e vota qualcuno che istruisce gesti, comportamenti e genuflessioni… è sempre utile sopprimere un aggettivo, come un despota!

L’atlante dell’inumanità nazista è disseminata in 42.000 strutture carcerarie, lavori forzati, campi di concentramento e di sterminio, si legge nell’Enciclopedia dell’Olocausto[2]… i campi erano sparsi in tutta Europa (Germania, Austria, Polonia, Paesi Baltici, Paesi Bassi, Paesi dell’Europa Meridionale)… i centri d’annientamento del popolo ebraico più efficaci sono stati Chelmno, Belzec, Sobibor, Treblinka, Majdanek, Buchenwald, Dachau, Mauthausen, Auschwitz-Birkenau… facciamola corta… il maggior numero di ebrei fu trucidato nei territori occupati! Il silenzio e la complicità dei governi (non solo quelli fantoccio o collaborazionisti) ne hanno condiviso la sorte!

La Shoah, ovvero lo sterminio degli ebrei d’Europa perpetrato dal regime nazista e dai suoi fiancheggiatori, non è stato solo uno degli eventi più emblematici del ‘900, ma uno dei più efferati e violenti nella storia dell’umanità, e basta consultare la Storia della Shoah[3], per restare inorriditi delle tappe e processi decisionali che portano a quella che i nazisti chiamano, la “Soluzione finale”[4]. I carnefici furono non solo tedeschi e non solo assassini ideologizzati dalla svastica… ma uomini comuni (militari, poliziotti, impiegati, avvocati, giornalisti, professori, filosofi, scrittori, artisti, portieri, lavandaie, contadini) sostenuti dalla complicità dell’alta borghesia germanica… la macchina burocratica dello sterminio ha avuto bisogno di collaboratori, collaborazionisti, imprenditori, criminali comuni e il sostegno dai Paesi di tutta l’Europa (Italia inclusa, naturalmente)… nonché dall’atteggiamento dell’imprenditoria internazionale che faceva “affari” con la Germania nazista… i perseguitati servivano a conciliare il privilegio con il profitto… è difficile dopo Auschwitz proclamarsi innocenti per governi e governanti dei Paesi belligeranti… gli inni, i vessilli, le medaglie al merito sono coniati dai loro cortigiani a futuro ricordo delle loro vittorie!

Qualche tempo dopo, vincitori e vinti si troveranno al medesimo tavolo di spartizione delle ricchezze/ricostruzioni delle macerie… le loro anime da criminali li proiettano nella fucilazione delle idee che li contraddicono o, alla meglio, si dividono i mercati nel furore di divorare e divorarsi… i nemici si assomigliano… odorano tutti di carogna e chiunque si contrappone alle loro trame, viene sprofondato nel cafàrnaio di nuovi stalag. Niente diventa sorpassato più in fretta di una guerra… i politici, gli oratori, i conversatori, i generali, i docenti universitari legati al carro dei venditori di illusioni, generalmente scrivono male… tuttavia sono bravi a coniugare Dio con il Mercato… gli ammazzati non c’entrano… sono solo statuine della Provvidenza decapitata… gli artisti poi ricollegano i morituri ai fasti della storia del più armato… in tutti i periodi di lunghe persecuzioni c’è un momento in cui vittime e carnefici si ritrovano… ma questa volta banchettano su altre mattanze… e i pidocchi continuano a prendere lezioni di smarrimento!

Un aneddoto della mia infanzia. Non avevo ancora dieci anni e siccome nella taverna di porto dove andava mio padre, sentivo parlare di fascismo, lotta partigiana, repubblica, comunismo o anarchia… chiesi a mia nonna cos’era il fascismo?… mi guardò negli occhi e accarezzò i capelli… e sorridendo (lei che era atea ma conosceva la Bibbia valdese a menadito), il libro dei Salmi, 72:4, dice: “Egli farà ragione ai miseri del popolo, salverà i figliuoli del bisognoso, e fiaccherà l’oppressore! Ti temeranno fin che duri il sole, finché duri la luna, per ogni età!… e questo, ragazzo mio, ti dice tutto quello che ti serve sapere”… poi aggiunse: “Egli… era un giovane partigiano torturato e ucciso dai nazi-fascisti che raccolsi nel mio grembiule alla macchia, Dio non c’entra”… e prese a cantare “Bella ciao”.

La fotografia a partire dalla Shoah è nel vento… si è fatta irresponsabile per eccellenza… guarda con pietà chiunque s’accorda col disappunto o l’approvazione che suscita sui cadaveri (per niente eccellenti) delle guerre, invece di suscitarne lo sdegno contro chi le ha provocate… qualche volta alcuni fotografi-Argot (non la lingua dell’alta società di Proust, ma l’Argot insolente di François Villon, François Rabelais o Louis-Ferdinand Céline), liberano le loro indignazioni e nella dismisura dell’immaginario sovversivo, avvelenano i pozzi della sapienza tecnocratica della fotografia… impugnano la fotocamera come un fucile o viceversa… ciò che conta è che inventano la fotografia, facendola o distruggendola, come i Situazionisti (faremo i nomi più avanti, se ci piace)! Non dimenticano mai ciò che diceva François Villon (1494-1553): « Io penso che vi siano oggidì parecchi imperatori, re, duchi, principi e papi su questa terra, i quali sono discesi da miserabili accattoni e da facchini »! Come i nuovi barbari della civiltà spettacolare, fautori d’ingiustizie millenarie… dei quali è impossibile descriverne il sorriso! La vanagloria è appannaggio della barbarie e non servono lamentazioni per spodestarli dai loro troni di sangue… ma vanno presi a calci in culo e alla maniera dei grandi assassini ridurli al silenzio e restare superiori a qualsiasi rimorso.

La filosofia della fotografia di strada/situazionista è la costruzione di un percorso che segue l’istinto del gatto, l’intuizione dell’aquila, la passione ereticale dei cuori in amore… si tratta di costruire una situazione in rapporto con quello che si percepisce. La macchina fotografica (per noi) è uno strumento di conoscenza e non un grazioso giocattolo meccanico: “Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che fugge: in quell’istante, la cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale. Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore” (Henri Cartier-Bresson)[5]. Tutto vero. La bellezza della fotografia non addomesticata ai linguaggi dominanti, non è quella che proviene dallo studio delle “belle arti” ma quella che contravviene o si oppone all’esposizione della banalità del male… il diario-lettera di Hannah Arendt sulle sedute del processo ad Adolf Eichmann a Gerusalemme(1961), il gerarca nazista, uno dei maggiori corresponsabili dell’Olocausto, non è solo una disamina sull’antisemitismo, ma il ritratto (filmato e fotografato) di un criminale[6]… ogni ritratto è un autoritratto… è la scoperta di se stessi per mezzo della fotocamera e discorso sul mondo.

Non importa essere fotografi né situazionisti per fare la fotografia di strada/situazionista, basta appartenere a un paese qualunque, non riconoscere nessuna patria e nessuna bandiera come propri… rifiutare le menzogne della plebaglia politica, religiosa, culturale e la feccia nefasta della finanza, con quel pizzico di lucida follia che non dispensa di passare dal sarcasmo all’agire a fianco dei popoli oppressi contro i saprofiti del crocifisso, dell’assassinio e della Borsa… nei suoi momenti migliori, la nostra epoca è stata sanguinaria, come si addice ad ogni società (fascista, nazista, comunista, consumerista) veramente ispirata… inquisizione, conquista, violenza sono stati eccelsi nell’eccidio e nell’assoluzione… e hanno mostrato che gli stupidi ragionano sempre al contrario.

Basta un solo esempio sulla fotografia di strada/situazionista — addirittura presa da un soldato nazista a un bambino ebreo, mentre razziavano il ghetto di Varsavia  —, per far vedere che la polizia del pensiero non può nulla contro l’impudenza di una realtà da beccai e, malgrado l’origine dell’immagine e l’aguzzino che l’ha scattata, il dispregio verso ogni forma di oppressione ne esce ugualmente e con forte presa della verità. Si tratta di un’icona che ancora oggi non lascia scampo ai delinquenti del nazismo e nemmeno a tutti quelli che sono venuti dopo ed hanno continuato a seminare i campi di grano col sangue… gli occhi dell’innocenza negata ne contano le meraviglie.

Il bambino del ghetto di Varsavia (1943) è l’immagine-simbolo della Shoah… la fotografia è stata fatta da un soldato col mitra in mano… come si vede, anche i nazisti, come molti fotografi, tengono poco conto dell’inquadratura, ma l’insieme è efficace! Dice chi sono i carnefici, chi le vittime! Non starebbe male nemmeno nel Calendario Lavazza o Pirelli! Basta dire che l’immagine è stata colta in un momento di grazia e di bellezza! Per i curiosi, il bambino si è salvato dall’assassinio e, sembra, abbia trovato accoglienza in Israele, dove qualcuno dice che fa il medico… somiglia stranamente a molte immagini di bambini palestinesi sfuggiti a squartamenti e linciaggi pianificati… è vero, la storia si ripete e finisce in farsa, ma il sangue degli innocenti è sempre lo stesso!

Il Maelström iconografico dell’Olocausto è il gorgo dove milioni di ebrei sono stati cancellati dalla ferocia nazista, ma inutilmente… poiché il loro dolore resta a memoria di quanti hanno lottato e lottano per il raggiungimento di una diversa umanità… le fotoscritture che hanno lasciato alle giovani generazioni li vedono prede dell’insignificanza universale ma, al contempo, testimoni di verità strazianti che chiedono la fine della desolazione… quei corpi trucidati, quei volti spenti, quelle speranze spezzate… sono lì, negli occhi di tutti quelli che rifiutano l’ebetismo istituzionale e l’infatuazione dell’omicidio sistematico, e chiedono di non dimenticare! Dicono: Non abbiamo dimenticato!… Mai più! Non bisogna prefiggersi di fare fotografie per ricercare la santificazione di sé, ma dire le cose essenziali, taciute o tradite, di cui non ci si debba vergognare fino alla fine della vita!

II. Historìa di un’icona del ‘900: Il bambino del ghetto di Varsavia, 1943

L’immagine del bambino del ghetto di Varsavia (1943)… divenuta persino troppo celebre o consumata, quando si tratta di parlare di Olocausto… è solo un tassello d’una topografia ossessionata dalla malattia incurabile del potere… il bambino impaurito con le mani alzate e sotto la minaccia del mitra di un soldato nazista, è apparsa in libri, riviste, film, reportage televisivi, poster, magliette, tatuaggi… tra poco sarà stampata su scatole di sigari, santini elettorali e bottigliette di profumo… lo stile dei teppisti è sempre quello che persegue il profitto e il banchetto del crimine veicola miti e illusioni a buon mercato… le urla in favore della giustizia storica si schiantano contro la totalità dello spettacolo-integrato e disvelano la sua falsificazione: meglio lavorare come talpe dagli occhi grandi e attrezzi utili alla fine dell’orrore, che sopravvivere a un orrore senza fine.

Il bambino del ghetto di Varsavia è apparso per la prima volta nell’album allegato al rapporto stilato dal generale delle SS Jürgen Stroop, per informare i suoi superiori (Walter Krüger e Heinrich Himmler), sulle operazioni di liquidazione degli ebrei (e della resistenza armata) nel ghetto, tra l’aprile e il maggio 1943[7]. L’album (rilegato finemente e con la copertina di cuoio nero) si compone di 53 immagini e quella del bambino è la V-14. La didascalia dice: “Estratti a forza dal bunker”[8]. La documentazione della distruzione del ghetto, delle deportazioni, della repressione degli insorti era stata richiesta da Walter Krüger, comandante della divisione SS Das Reich, composta di uomini scelti, che si è distinta (su diversi fronti) per crimini di guerra. Le vie della crudeltà sono varie… tutte vanno incontro alle implorazioni e alle euforie dei popoli assoggettati… l’unico ordine di grandezza al quale possono giungere i governi autoritari è il fallimento. L’epoca propizia ai despoti coincide sempre con la fine di un ciclo di civiltà.

Il generale Stroop attribuisce a Krüger queste parole: “Si tratta di un materiale prezioso per la storia, per il Fuhrer, per Heinrich Himmler e per i futuri studiosi del Terzo Reich, come pure per i poeti e gli scrittori nazionalisti, per la formazione delle SS e, soprattutto, per documentare gli sforzi e i pesanti e sanguinosi sacrifici sopportati dalla razza nordica e dalla Germania per disebreizzare l’Europa e l’intero globo terrestre[9]. Il 22 maggio 1945, quattordici giorni dopo la resa della Germania nazista, il comandante Krüger si toglie la vita (nemmeno il suo pappagallino ha pianto… a noi spiace che qualche sopravvissuto al lager non gli abbia messo una corda al collo e lo abbia appeso al filo spinato del campo, dove sono soliti cagare i piccioni)… alla scuola dei tiranni vanno soltanto pagliacci, istrioni e assassini in formato grande, ma quando si dà loro la sorte che meritano, si pisciano addosso dalla paura, come tutti! Il potere genera il marcio!

Imperi, nazioni, regimi si costituiscono grazie ai loro flagelli, spesso rimasti impuniti, e commessi in piena gloria di Dio e dello Stato… trovano ispirazione nei macellai, nei santi, nei tagliagole dell’opportunità politica, senza sapere, forse, che l’ambizione di assurgere ad armigeri del potere è una sorta di oblìo che fa di coloro che vi si dedicano dei dementi in potenza. Il generale Stroop fu arrestato dalle truppe americane nel maggio 1945 e processato dal tribunale americano stabilito a Dachau… venne ragionevolmente impiccato il 6 marzo 1952 sulle macerie del ghetto. Ancora oggi, i figli degli sterminati portano i cani a pisciare in quel luogo… per non cancellare il ricordo di un farabutto da operetta che nella sua infinita stupidità ha inflitto una ferità profonda all’intera umanità.

Non c’interessa qui sapere come si chiamava né quale è stata la vita del bambino del ghetto di Varsavia… come si è salvato dal linciaggio nazista, né dove è espatriato… ciò che c’importa è entrare nel ventre di questa fotografia e vedere come il documento di una violenza possa rovesciarsi in un’immagine di resistenza. È l’innocenza negata al bambino di Varsavia che preserva da un lato il fallimento di un’ossessione (l’antisemitismo), dall’altro l’idea sfigurata dello spettacolo nazista (che se la prende anche con i bambini)… il disastro si adatta a meraviglia ad ogni potere e in ogni epoca — come possiamo vedere in questo inizio di secolo nei telegiornali tra una pubblicità di macchine fotografiche e un talk show —, lo scannamento dei popoli continua… per tutto questo e altri linguaggi del degrado intellettuale di squisita scemenza… ci affranchiamo a corsari dell’utopia libertaria e dinanzi alla sfilata dei mallevadori irreprensibili dell’omicidio organizzato, non ci resta che cercare un sentiero luminoso che s’insinua tra il disprezzo, l’indignazione e la rivolta sociale.

Dalla lettura di un’immagine si può uscire o più stupidi o più intelligenti. Il sistema politico/economico/culturale è in grado di omologare qualunque tipo di fotografia in un eterno presente di domesticazione collettiva… in questo senso la macchina fotografica registra allo scopo di dimenticare o di contraffare. “La macchina fotografica che isola un momento di agonia lo fa con la stessa violenza con cui l’esperienza di quel momento isola se stessa. La parola ‘scatto’, usata per armi e macchine fotografiche, rispecchia una corrispondenza che non si limita al semplice aspetto meccanico. L’immagine fissata dalla macchina è doppiamente violenza e questa duplice violenza rende meno netto il contrasto: il contrasto tra il momento fotografato e tutti gli altri momenti” (John Berger)[10]. Tutto vero. Il tempo catturato dalla fotocamera diventa tempo storico quando è assunto dall’utopia in cammino e dall’azione che ne consegue… una fotografia è un corollario di segni che si aprono su vie diverse e costruiscono una poetica radiale che può raggelare il vero nel falso o diventare un portolano di conoscenze… si tratta di trascolorare i soggetti fotografati in narratori della propria storia.

Lo specchio della memoria della Shoah si può decifrare dalla messe d’immagini tragiche apparse nel mondo (in via ufficiale) dopo il 28 aprile il 1945… quando sulla copertina di The Illustrated London News, si vede il generale Eisenhower (visibilmente indignato), con le braccia sui fianchi, in mezzo ai suoi soldati e ai corpi straziati nel campo di sterminio di Ohrdruf… ora tutti sanno (se vogliono sapere)… i fotoamatori della Shoah… soldati fulminati sulla via della fotografia e delle camere a gas, ebrei della Judenrat (la polizia arruolata fra gli ebrei preminenti dei ghetti)… hanno fatto di questo hobby dei crimini hitleriani un linguaggio dell’intolleranza, della brutalità e del dilettantismo provinciale… non è la sofferenza che rende liberi, ma il desiderio di essere sciolti da ogni catena.

Ando Gilardi, geniale storico senza guinzagli, chiama fotografia spontanea (che noi, con l’insolenza che c’è propria détourniamo in fotografia situazionista o di strada) l’iconografia dell’annientamento ebraico, scrive: “La fotografia spontanea l’affidiamo a un ossimoro: il fotografo incontra un soggetto che gli procura una grande emozione, che ‘prende’ lui più di quanto lui non prenda la foto. In parole diverse, la fotografia spontanea non è come quella di cronaca o dei momenti familiari: è un fatto mentale e morale privato che può avvenire in moltissimi modi: in viaggio come visitando un museo o come magari sfogliando un giornale illustrato o oggi meglio ancora navigando in Internet[11]. Tutto vero. La fotografia spontanea della Shoah fu una palude iconica dove naufragarono i criminali e gli spettatori del crimine.

Le foto-ricordo della Shoah andavano a ruba tra i volenterosi fucilatori di Hitler… intere famiglie naziste passavano le sere a guardare i mostri-giudei che venivano impiccati, bruciati o gettati nelle fosse comuni… furono fatte anche delle cartoline di queste malvagità e spedite per posta… centinaia di migliaia di immagini (alcuni dicono un milione) andarono a sollazzare l’esaltazione antisemita di un popolo, senza che nessuno mai o pochi, si fosse chiesto d’essere di fronte a un’efferatezza inaudita… solo gli antisemiti più imbecilli che adorano i Protocolli dei savi anziani di Sion[12] e alle conseguenti richieste di Pogrom (devastazione) degli ebrei… possono credere nella derelizione/distruzione di un popolo… la paccottiglia teocratica che incensano è solo il terreno di un pensiero agonizzante e una lesione all’intelligenza che porta al disonore tutti quelli che fanno dell’antisemitismo una dottrina da scellerati… a giudicare dalle fotografie della Shoah che ha prodotto, il nazismo sarà stato tutto, tranne che intelligente.

Gli eccessi dell’iconografia della Shoah — come uccidere un bambino con un colpo di pistola alla testa, sollevandolo da terra per i capelli o sventrare una donna incinta dopo averla denudata e picchiata — sono revisionati con la benevolenza degli aguzzini.. nella sentenza di un tribunale delle SS, emessa nel 1943 contro un ufficiale appartenente al corpo, l’SS-Ustuf, Max Tauber, si legge: “L’imputato scattò una serie di fotografie delle fucilazioni e ne fece fare altre dall’SS Fritsch benché sapesse che riprendere simili avvenimenti fosse proibito. Si tratta per lo più di foto che testimoniano i peggiori eccessi, molte sono indecenti… Foto simili possono essere causa di enormi pericoli per la sicurezza del Reich, se capitano in mani sbagliate… La disubbidienza dev’essere quindi considerata come particolarmente grave. Invece il tribunale non ritiene che il suo comportamento potesse portare a una disgregazione del potenziale militare del popolo tedesco, perciò non ha preso nemmeno in considerazione una possibilità del genere… Al popolo tedesco furiosamente antisemita le fotografie dello sterminio degli ebrei non avrebbero fatto impressione negativa, semmai il contrario”[13]. Che bello! Di tutte le maledizioni, la peggiore è quella del linguaggio fotografico! Rende ogni cosa mondana o esalta la contemplazione che la uccide! Basta sfogliare il libro Bei tempi. Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha eseguito e da chi stava a guardare[14], per continuare a vomitare sulla peste nazista e la pratica disumana dello sterminio di massa registrata da un apparecchio fotografico (degli eccidi stalinisti parleremo la prossima primavera di bellezza, in stato di ubriachezza, anche!). Quando la verità è più forte dell’immagine spontanea, salva la dignità dei ritrattati, ne assicura la giustizia e reinventa la storia.

Cosa significa la fotografia del bambino del ghetto di Varsavia e cosa resta dell’immaginale tragico che si porta addosso? Non pensiamo affatto che l’inquadratura del bambino di Varsavia sia stata “chiaramente studiata” come è stato scritto[15]… il fotografo nazista ha creduto di fare uno scatto emblematico, esemplare, forse, che figurava il terrore di donne, uomini e bambini e, più ancora, documentava l’umiliazione di un intero popolo… non è andata così. L’immagine del bambino di Varsavia contiene le stigmate del provvisorio e mostra che nulla è di più sospetto nella fede in una razza, un dio o uno stato. È facile fotografare il male, ci riescono tutti, assumerlo esplicitamente, riconoscerne la realtà inesorabile, è in compenso un’impresa da massacratori di grande vaglio. Tutto va in malora nella fotografia, tranne lo sguardo e il dolore che corrisponde alla richiesta di giustizia.

Il fotografo anonimo non costruisce la situazione, la subisce… racconta un intermezzo senza sapere che l’innocenza negata del bambino non è che l’autobiografia trasfigurata di un’epopea affogata nella spregevolezza… il significato delle immagini della Shoah si trova sulla superficie, nella sintesi di due intenzioni: quella che si manifesta nell’immagine e quella del fotografo che pensa di aver preso il momento o l’epifania di una disfatta. Non è il fotografo che spiega l’immagine, è la drammaticità della fotografia che spiega il fotografo. Qualsiasi immagine della crudeltà ispira il terrore insormontabile di un ordine o del solo piacere di uccidere!

L’universo fotografico della Shoah non ha niente del magico della grande fotografia sociale… la filosofia della fotografia (situazionista o di strada) è necessaria per portare alla coscienza il linguaggio fotografico della disillusione. “Il compito della filosofia della fotografia è interrogare i fotografi sulla libertà, esaminare la pratica alla ricerca della libertà… Una tale filosofia è necessaria, poiché è l’unica forma di rivoluzione che ci sia ancora concessa” (Vilém Flusser)[16]. Il linguaggio fotografico dei forni crematori è la decostruzione della memoria, piuttosto che l’inverso. È una retorica di elementi truccati, una metafisica del peggio, un’antologia della violenza che rispecchia la dignità calpestata dei sommersi e le impunità prezzolate dei salvati. Primo Levi ci avverte: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire[17]. Il linguaggio al rovescio delle fotografie della Shoah prese dagli stessi carnefici, rendono la vergogna del genocidio ancora più vergognosa.

Il soldato-fotografo del bambino di Varsavia fa un’istantanea, coglie un gruppo di persone minacciate dai mitra dei nazisti… sulla destra il bambino con le mani in alto s’imprime nell’immagine e si prende il proscenio… la forza della fotografia è dovuta al movimento delle due donne (con le braccia alzate) alla sinistra dell’immagine… una guarda a destra, l’altra invece si volta indietro e, un po’ tagliata, una bambina getta lo sguardo nella fotocamera e mette in relazione il bambino col mondo. L’atmosfera scenica rimanda al film neorealista di Rossellini (Germania Anno Zero, 1948) o Furore(1940) di John Ford… più ancora alle fotografie di Hine, Vishianc o Arbus… il punto focale dell’immagine è spostato (malamente) sul bambino del ghetto che viene incastonato all’interno dell’inquadratura e si trascolora in simbolo di resistenza.

Il bambino alza le mani, intimorito dalla presenza dei soldati… ha il cappello un po’ di traverso, il cappottino lungo fino alle ginocchia, i calzini alti, si vedono appena i pantaloni corti e lo zainetto sulle spalle… il fotografo taglia i piedi del bambino… si lascia trasportare dall’improvvisazione, e ciò che rimane nella fotocamera è una mappa della paura che corrisponde a un’incoscienza, una registrazione confusa di ciò che accade di fronte a lui… immagazzina quello che è un eccesso di zelo e ne fuoriesce una metafora che lo condanna come fotografo e come aguzzino. Non c’è nulla di peggio di un profluvio di tracce, di un’abbondanza di segni che decretano un istante vivo da un istante morto… sotto ogni aspetto, la lettura di questa fotografia supera l’avvenimento estetico e la bellezza eversiva del bambino atterrito, indifeso, immiserito… elabora una scrittura poetica dell’Altro, denota la stupidità che si ha del mondo, non la sua realtà. La fotografia trionfa al cospetto dell’eternità e la storia dell’orrore si riduce a schiuma di anime in volo che lo denunciano!

Un’annotazione fuori margine. Per comprendere le radici della violenza occorre studiare Walter Benjamin, bene: “Ma non è altrettanto possibile e neppure altrettanto urgente per gli uomini decidere se e quando in determinati casi fosse all’opera la violenza pura, poiché solo la violenza mitica, non quella divina, si lascia riconoscere con certezza come tale, salvo forse in effetti incomparabili, perché la forza purificante della violenza non è alla luce del giorno per gli uomini. Di nuovo sono a disposizione della pura violenza divina tutte le forme eterne che il mito ha imbastardito con il diritto. La violenza divina può apparire nella vera guerra come nel giudizio di Dio della folla sul delinquente. Ma riprovevole è ogni violenza mitica che istituisce il diritto e si potrebbe pertanto chiamare amministrante (schaltende). Ma riprovevole è pure la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrata, che serve l’amministrante. La violenza divina, che è insegna e sigillo, non è mai strumento di sacra esecuzione. Si potrebbe di che è la violenza che governa[18]. La critica della violenza di Benjamin è, appunto, un’interrogazione sulla violenza dello Stato (e del Sacro) usata attraverso l’istituzione e il mantenimento della forza che esercita sui sottoposti… l’accezione sull’impiego di mezzi violenti a fini giusti è nella concezione libertaria dell’uomo in rivolta di Camus: “Mi rivolto dunque siamo[19]!… una sorta di risposta etica, morale, epica ad agire in modo da trattare l’umanità che è in te e in ogni altra persona, come Via maestra per il ricongiungimento di ogni uomo/donna con il proprio destino.

Il bambino del ghetto di Varsavia non è solo l’icona dell’Olocausto ma anche di tutte le innocenze massacrate nelle guerre di tutti i governi… è un’immagine del riconoscimento e la sua figurazione è un atto di accusa di tutti i conflitti. L’espressione simbolica della violenza si contrappone all’alterità della giustizia, della bellezza, della gaiezza che determinano la mediocrità, l’arroganza e il fanatismo di tutti i poteri. I grandi dolori sono indimenticabili e non suscitano nessuna riconciliazione… a mio disdoro e a riguardo della mia cattiva reputazione, confesserò che il disgusto, lo sgomento, l’indignazione che mi assalgono alla lettura della cartografia maledetta della Shoah (che è lo spettacolo della ricostruzione materiale dell’illusione religiosa e del carattere immutabile del dominio dell’uomo sull’uomo come pretesa d’eternità), m’impedisce di perdonare… la vigliaccheria di ogni potere va combattuta sempre e comunque… vivere tra liberi e uguali vuol dire smettere di venerare, di pregare, di obbedire… significa sollevarsi contro il dispotismo e proclamarne la fine. Ciò che ci è dato da imparare nasce solo nello stupore e nella meraviglia d’infanzie intramontabili… nella rinascita di un mondo dove i sorrisi dei bambini si specchiano nella luce delle stelle e riscoprono la gioia a vivere.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 23 volte settembre 2015 – 16 volte febbraio 2020


[1] Guy Debord, Commentari sulla Società dello spettacolo, SugarCo,  1990

[2] United States Holocaust Memorial Museum, encyclopedia.ushmm.org

[3] Storia della Shoah. Lo sterminio degli ebrei, voll.2 e due DVD: Il processo di Norimberga (1945-46) e Il processo Eichmann (1961), di AA.VV, UTET, 2008

[4] Storia della Shoah. Lo sterminio degli ebrei, voll.3, di AA.VV, UTET, 2008

[5] Henri Cartier-Bresson, L’immaginario dal vero, Abscondita, 2005

[6] Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 1964

[7] Dopo aver soffocato nel sangue la ribellione del ghetto di Varsavia, ecco il messaggio che Stroop invia al suo superiore Walter Krüger: « Sono stati eliminati 180 ebrei, banditi e subumani. Quello che era il quartiere ebraico di Varsavia non esiste più. La Grosse Aktion (grande azione, termine utilizzato dai tedeschi per descrivere le operazioni nel ghetto) è terminata alle ore 20:15 facendo esplodere la sinagoga di Varsavia. Il numero totale di ebrei dei quali ci si è occupati assomma a 56.065, includendo coloro che sono stati catturati e coloro dei quali può essere dimostrato lo sterminio ». The Stroop Report,  http://www.jewishvirtuallibrary.org

[8] Per una disamina approfondita sulle vicende della fotografia del bambino del ghetto di Varsavia e altre curiosità, contraffazioni, manipolazioni di un’icona del ‘900… rimandiamo al libro di Frédéric Rousseau, Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Laterza, 2014

[9] Frédéric Rousseau, Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Laterza, 2014

[10] John Berger, Sul guardare, Bruno Mondadori, 2003

[11] Ando Gilardi, Lo specchio della memoria. Fotografia spontanea, Bruno Mondadori, 2008

[12] Protocolli dei savi anziani di Sion, di AA.VV., Edizioni Segno, 2016

[13] Ando Gilardi, Lo specchio della memoria. Fotografia spontanea, Bruno Mondadori, 2008

[14] E. Klee, W. Dressen, V. Riess, Bei tempi. Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha eseguito e da chi stava a guardare, La Giuntina, 1990

[15] Frédéric Rousseau, Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Laterza, 2014

[16] Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, 2006

[17] Primo Levi, I sommersi e i salvati. I delitti, i castighi, le pene, le impunità, Einaudi, 1986

[18] Walter Benjamin, Per una critica della violenza, Asterios, 2020

[19] Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 1986

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