“I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere il più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione”. Carmelo Bene
I cretini che vedono la fotografia volano
Sul paradosso nell’arte del comunicare in lingua rovescia o motto di spirito in forma di eresia. Ci sono cretini che hanno visto la fotografia e ci sono cretini che non hanno visto la fotografia (ma continuano a farla). Io sono un cretino che la fotografia non l’ha vista mai (e la cerca ancora). Tutto consiste in questo, vedere la fotografia o non vederla… I cretini che vedono la fotografia hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la fotografia non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di riposare ricadono… Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la fotografia, sono loro la fotografia che vedono (dètournement dal film di Carmelo Bene, Nostra signora dei turchi, 1968). Fotografia di religione (la fotografia predominante) significa mancanza di desiderio della realtà ed estinzione, spegnimento, eclissi, tramonto del desiderio di fotografare l’insoddisfatto. Se non c’è desiderio non c’è fotografia, è “essenzialmente il desiderio di avere il proprio desiderio”(Jacques Lacan, diceva) a fare di un uomo un fotografo e nella sua mancanza, uno stupido. La fotografia del desiderio, chiamiamola così, educazione alla civiltà… è qualcosa che rigetta il narcisismo cinico che è al fondo del linguaggio fotografico mercantile che lo sostiene. Fotografia del desiderio significa seguire la rotta segnalata dalle stelle (i desiderantes erano i soldati che aspettavano sotto le stelle i compagni che non erano ancora tornati dal campo di battaglia, ci ricorda Vito Mancuso (49), citando il De Bello Gallico di Giulio Cesare), dalla creatività, dal godimento che dissipa la realtà e scippa alla storia dell’infamia la bellezza del vero. Fotografare il non sempre visto, il non sempre conosciuto, riavviare la ricerca della conoscenza, vuol dire mostrare con la fotografia il desiderio all’opera. “Il desiderio in quanto forza che mi supera non è qualcosa che ‘io’ posso governare, non è a mia disposizione, a disposizione del mio Io, ma è piuttosto l’esperienza di uno scivolamento, di un inciampo, di una perdita di padronanza, di una caduta dell’Io. Il desiderio viene dall’esperienza come qualcosa che turba il mio Io e tutte le convinzioni consolidate” (Vito Mancuso). La fotografia del desiderio è l’immagine di un’alterità che irrompe nella credenza dell’idolatria (non solo) fotografica e mostra le ferite di una esclusione. Tutto qui.
(49) Vito Mancuso, La vita autentica, Cortina Raffaello, 2009
Carla Cerati è un’esponente singolare della fotografia del desiderio o civile.
Nasce a Bergamo nel 1927. Alla fine degli anni ’50 è fotografa di scena, in teatro, a Milano. Si afferma nel reportage e nel ritratto (dicono le note biografiche) e nel 1969 pubblica (con Gianni Berengo Gardin) il libro Morire di classe. Un reportage/documento coraggioso sulla situazione manicomiale in Italia, a cura di Franco Basaglia, con la prefazione di Franca Basaglia Ongaro. Sono immagini dure e tenere al contempo di uomini e donne prigionieri, legati, puniti, umiliati, ridotti a sofferenze estreme. Nel 1973 esordisce nella letteratura con Un amore fraterno, la sua produzione di romanzi sarà vasta e alcuni le faranno vincere premi importanti. Ricordiamo — La condizione sentimentale, 1977; La cattiva figlia, 1990; La perdita di Diego, 1992; L’intruso, 1994; L’emiliana, 2008; Storia vera di Carmela Luculano. La giovane donna che si è ribellata a un clan mafioso, 2009 —. Le sue immagini appaiono in L’Illustrazione Italiana, Vie Nuove, L’Espresso, Du, Leader, New York Times, Life, Die Zeit… una cartella con 25 fotografie di paesaggi curata da Bruno Munari, con la prefazione di Renato Guttuso, esce nel 1965.
Tra il 1960 e il 1980 la Cerati racconta i cambiamenti sociali, politici, culturali di Milano… pubblica fotolibri particolari come Mondo Cocktail (1974) o Forma di donna (1979)… fotografa il Living Theatre e l’arte della danza del ballerino e coreografo spagnolo Antonio Gades. Si interessa della vita politica del suo tempo e si accosta alle contestazioni generazionali del ’68 con grazia e autorialità. Aderisce alla Lettera aperta sul Caso Calabresi (o Manifesto contro il commissario Calabresi) firmata da numerosi politici, giornalisti, artisti e intellettuali italiani contro la farsa del processo sulla strage di Piazza Fontana a Milano (23 dicembre 1969) e criminalizzazione degli anarchici. È attiva e attenta ai mutamenti del costume e al tempo dell’uccisione di Aldo Moro non resta in disparte. Negli anni ’90 decide di lasciare la fotografia perché — dice — è delusa dalla superficialità e dall’arrivismo dell’ambiente, segnato da rapporti di potere, e si riversa nella scrittura. Tutto vero. Passiamo al discorso fotografico di Carla Cerati, del quale più ci interessa approfondire, quello che denuda i sommersi e i salvati (Primo Levi non c’entra) della società dello spettacolo.
Le immagini d’impianto civile (ma anche nei nudi di donna la fotografa non si perde in estetismi comuni alla fotografia prezzolata) sono un panegirico di emozioni visuali che restituiscono agli ultimi comprensione, accoglienza, condivisione o insorgenze, anche, difficilmente rintracciabili in molti autori celebrati (a torto) dalla storiografia fotografica italiana. Come sappiano, è una congrega di intrecci tra il mercimonio editoriale e la politica di regime. Chi, come la Cerati, vede le rive dell’esclusione, vede anche le rive delle nostre pene. La fotografia deve restare rara, autentica, sofferta, poiché bisogna aver bevuto a lungo o sognato in grande prima di trovare l’eccellente. Guy Debord ci ricorda, del resto, che “la demenza ha edificato la sua casa sulle alture della città” o ha fatto il covo nei palazzi della falsa sapienza che alza altari e predicatori, forche e galere per tutti quelli, come la Cerati, che hanno avuto l’ardire di scrivere o fotografare la decadenza generale, che è un “mezzo al servizio della servitù. E solo perché è questo mezzo le è permesso di farsi chiamare progresso” (Guy Debord). Nessuno o pochi fotografi, al di là del loro impegno sociale, è riuscito — come l’immagine del desiderio della Cerati — a rappresentare alla radice la dignità dell’uomo, della donna in difficoltà (e mostrare anche le maschere/volti dell’ipocrisia dei privilegiati). Il pianeta muore, lo sfruttamento delle masse è planetario, il culto del denaro e della predazione sono i nuovi oracoli… i distruttori della democrazia (i governi dei finanzieri) sono tutti conosciuti… occorre istruire processi internazionali, denunciare la violenza per interdirla… mettere sotto accusa i responsabili, restituire ai popoli impoveriti il diritto alla vita.
Sulla fotografia del desiderio
La scrittura fotografica del disincanto di Carla Cerati identifica aggressorie aggrediti… implica la fine dell’indulgenza contro lo strapotere dell’esistente e denuncia senza mezzi termini il monopolio di una minoranza di arricchiti e i loro vassalli al servizio della mediocrità e dell’impostura. A scorrere le immagini della Milano operaia degli anni ’60, è straordinario vedere come la fotografa riesce a cogliere la condizione proletaria di quei giorni… i ferri del boom edilizio sono visti come bare e gli operai all’uscita delle fabbriche conservano ancora quella consapevolezza che li faceva essere la spina dorsale del lavoro produttivo. La fotocamera della Cerati sa essere anche impietosa, vera, abrasiva… specie se si tratta di fotografare la gente imbellettata nel foyer del Teatro alla Scala, il picnic di una famiglia tra le auto di un parcheggio alla fiera campionaria o le “belle statuine” di un cocktail nella Galleria fotografica de Il Diaframma… le immagini sono inequivocabili, avverse alla schiuma modistica che agitano e diventano specchio di un’intera società… respingono il ricatto dell’industria culturale (come coscienza consumistica) e denudano la comunicazione (caricaturale e mercificata della democratizzazione della conoscenza) della società contemporanea. La fotografia del desiderio, vogliamo ribadirlo, ha la capacità di illuminare l’incompatibilità tra le false promesse politiche e il desiderio di rendere autentica la presa della verità (non importa che si tratti di una fotocamera, di una musica o della parola liberata)… la forza del desiderio è l’appagamento, il godimento, la soddisfazione di essere partigiani (scegliere la parte con la quale stare) in lotta contro un mondo governato da demoni, “ossia che si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche… chi non lo capisce in politica non è che un fanciullo” (Max Weber, che certo non era un rivoluzionario). E questo basta per abolire i partiti politici e i loro falsi profeti e gettarli nella pattumiera della storia. Noi siamo fanciulli dell’utopia (disertori della politica istituzionale) e ci appropriamo del diritto del desiderio di non essere complici né servi di una casta di ladri della politica, della finanza, del colonialismo dei mercati neoliberisti…tutta gente che fa affari con la criminalità organizzata, e ci affranchiamo a tutte le forme di disobbedienza civile, di resistenza, di insurrezione che rivendicano il diritto al futuro… vogliamo combattere insieme ai movimenti delle occupazioni che scendono nelle strade, fermano le fabbriche, bloccano i ponti, le autostrade, le stazioni, gli edifici pubblici e chiedono la fine delle disuguaglianze. “È cruciale impedire che il denaro influenzi le decisioni politiche. Lo è da tempo. Oggi lo è ancora di più. È da molto che le elezioni sonosoltanto un farsa in cui, ogni quattro anni, la gente viene mobilitata dagli addetti alla comunicazione per appassionarsi e schiacciare un bottone [o mettere un segno sulla scheda], per poi tornarsene a casa e non pensarci più… Con un po’ di immaginazione, spirito d’iniziativa e impegno, penso che ci siano molte possibilità da esplorare, e ciò può rappresentare un elemento di sicurezza. Più attivo è l’appoggio dell’opinione pubblica [a rivolte comunitarie come Movement Occupy], maggiore è la capacità di difendersi dalla repressione e dalla violenza” (Noam Chomsky) (50).
(50) Noam Chomsky, Siamo il 99%, Nottetempo, 2012
Tutto vero. Forse siamo dei sognatori, certo. Ma sono stati i sognatori che hanno permesso la realizzazione di ogni avanzamento della società… sono stati i sognatori che hanno abbattuto ogni ingiustizia… sono stati i sognatori che quando hanno abbandonato la politica dei tribuni e si sono fatti cittadini del mondo, hanno sconfitto il male… disobbedire per non obbedire mai più è già una meravigliosa vittoria. La scrittura fotografica del desiderio della Cerati è subito grande… le immagini del manicomio di Parma restituiscono dignità a chi non l’ha mai avuta ed elevano il matto, l’offeso, l’escluso al piano dell’umano… il grido di dolore delle persone strette nella camicia di forza è un atto di accusa contro l’intero “apparato” legislativo che ha permesso di imprigionare l’indifeso e non ha denunciato l’aguzzino… la Cerati qui ha compreso che l’umiltà del male è straordinariamente ricca di risposte ma non è certo il sistema manicomiale e politico che lo sorregge il rimedio a tanta sofferenza. Le sue inquadrature sono scevre di ogni pietismo, ciò che risulta dal fotografato è il baratro che c’è tra i reclusi, gli offesi e il pregiudizio dei privilegiati. “È più facile spaccare un atomo che rompere un pregiudizio” (Albert Einstein). Di più. Le fotografie della Cerati riescono a figurare la vergogna del sopravvissuto (qui Primo Levi c’entra) che abbiamo già visto (e deprecato) nell’iconografia atroce dei campi di sterminio nazisti (il medesimo vomito vale anche per i lager comunisti o i campi di concentramento della Cina moderna, i Laogai). Cecità e supponenza(burocrazia e violenza) sono i pilastri del conservatorismo (laico e religioso) e vanno abbattuti. La vita è altrove. I ritratti di artisti, politici, intellettuali, modelle, signore dell’alta borghesia milanese presi sulla Terrazza Martini, party, studi di scultori, parrucchieri, premi letterari, negozi di arredamento, gallerie fotografiche, librerie… dicono che molto del quale si schiamazza sui giornali o alla televisione poggia sull’inganno e l’apparenza. Protezioni, genuflessioni, sottomissioni… emergono da quei volti stagliati contro il grigiore dello spettacolare integrato e riproducono sentimenti di assoluta impotenza. È una fotografia che interroga e s’interroga sulle convenienze dell’ossequio e fa di una corte di adulatori una cartografia di vittime e complici deposti nel sudario dei loro misfatti. Nessuno può conoscere il bene se non si è trovato a duellare con la sufficienza o banalità del male. I gruppi, le famiglie, i balli nelle balere, i funerali, i processi (Calabresi, ad esempio)… sono presi in uno sforzo costante di verità, contengono quella passionalità umana che si pone al di sopra del contingente… ritagliano una concezione della vita che è interiorità, speranza e amore… non rispondono ai crismi della “cattiva bellezza” rappresentata dallo sguardo superficiale o cronachistico, ma affondano lo sguardo là dove malevolenza o fratellanza sono parte delle rappresentazione. Ancora. Tutti i difetti dell’immediato scompaiono difronte ai suoi meriti affabulativi. Il puro dispendio (dépense, Georges Bataille, diceva) estetico si rovescia nell’inquietudine del desiderio di realtà che sta al fondo della vita quotidiana, sapendo che il senso dell’umano è sempre andato a rimorchio del profitto. Non c’è innocenza nella fotografia del desiderio e la libertà che si prende (senza chiedere permesso) disvela i cortigiani infatuati della loro incompetenza. I corpi di donna fotografati dalla Cerati (che a noi interessano meno) sono avvolti in un bianco e nero pudico… quasi ieratico… la fotografa lavora sulle forme, i segni, posture che vanno oltre la nudità e riportano alla vivenza di bellezze antiche, sovente dimenticate o trascurate per far posto all’oggetto di consumo. Detto meglio, forse… i corpi di donna della fotografa esaltano il mistero del bello, del magico, del sensuale (dell’erotico mai volgare)… hanno l’audacia di sconfinare nell’emancipazione femminile della fine del divieto e il loro non è solo un “corpo” amato, ma soprattutto anima in volo verso l’avventura dell’indentità e della condivisione col diverso da sé. Non vogliono né vendetta né perdono, né pane né rose, chiedono il diritto all’intimità e di donarla a chi pare loro. Niente è più morale di un corpo in amore, anche estremo, di amorale c’è solo la stupidità. Le immagini del desiderio della Cerati, nel loro insieme, si spingono fuori dall’oggetto-feticcio, dall’oggetto-marca, dall’oggetto-idolo… che è la spoliazione mentale e sociale dell’esistenza… la fotografia del desiderio non rinvia solo allo scandalo, alla denuncia, allo smascheramento di ciò che rapisce nel quotidiano ma, come ogni altra forma del comunicare senza steccati, anche “alla fertilità della generazione, alla soddisfazione del riconoscimento, all’esistenza di un orizzonte che è speranza, avvenire, frutto, realizzazione, visione, sogno, comunione senza promessa di liberazione, singolarità, dono, possibilità” (Vito Mancuso) (51).
(51) Vito Mancuso, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana, Fazi, 2012
La fotografia del desiderio si occupa del divenire umano dell’uomo che supera la propria umanità e crea il proprio destino (o lo distrugge). Basta la fotografia dei giovani nella galleria Vittorio Emanuele a Milano, che avanzano abbracciati verso la società che viene, per conoscere e comprendere a pieno il ’68. In quelle facce in amore c’è tutto l’evento di un Maggio, di una festa libertaria che cambiò la storia del mondo e quegli anni formidabili restano impressi a lettere di fuoco sugli scheletri di ogni potere… nessuno più è stato bello così, né è più riuscito a tornare indietro per rivivere i migliori anni della nostra vita. La sedia elettrica è nata nei macelli di Chicago, la fotografia sui corpi martoriati dei comunardi messi in posa per la stampa. Si tratta di rovesciare questi stereotipi della disumanità… imparare a vivere significa spezzare l’abitudine a chinare il capo e farsi servi della tolleranza dell’orrore… liberare i canili dell’ordine economico e politico vuol dire mettere i colpevoli di tanta malvagità sociale in condizione di non nuocere più… la fotografia è un mezzo, tra gli altri, con il quale è possibile risvegliare la coscienza di molti e disseminare ovunque le tracce del vero interrogativo: “Come impedire ogni forma di recidività del crimine? Come curare le piaghe di una società ferita a morte?… L’oppressione non è stata mai tanto disarmata, mai la servitù delle masse è stata tanto arrendevole” (Raoul Vaneigem) (52). L’onore dei capi di Stato, papi, generali, finanzieri, politici è il disonore di una nazione che non ha ancora preso coscienza della loro inutilità. L’aureola dei parlamentari inquisiti, condannati, impuniti somiglia a un cappello da buffoni, tuttavia alla corte del re di denari (un professore a capo della cricca senza scrupoli del parlamento italiano) (53) l’usurpazione della legittimità e del diritto sono praticate a colpi di decreti legislativi e l’aspirazione alla felicità del popolo è circoncisa nell’implosione delle bolle finanziarie e tagli alla spesa pubblica. Gli inquisitori delle chiese monoteiste sono parte dell’affarismo criminale dei potenti, hanno sostituito le false promesse della fede con i bisogni di consumo e sottratto alle persone la gioia di vivere.
(52) Raoul Vaneigem, Né vendetta né perdono. Giustizia moderna e crimini contro l’umanità, Elèuthera, 2010
(53) Il grigiore ingessato di Mario Monti è passato ora al buffalmacco di Firenze Matteo Renzi, un ragazzo con la faccia da scemo che sa come difendere gli affari sporchi delle banche e affossare i diritti della classe operaia, addomesticata dai sindacati alla servitù! (quelli che verranno dopo apparterranno sempre alla medesima specie di saprofiti dell’ordine costituito)
È la creatività, la bellezza, la dignità degli esclusi che può ridestare la coscienza in letargo di grandi pezzi di popolo e sconfiggere l’impotenza e la disperazione fabbricate dalla macchina dello Stato… le mafie degli affari vanno colpite al cuore e gli untori della politica e della Chiesa scacciati dai luoghi di potere ed esposti al pubblico ludibrio. La fine dell’incantesimo o della barbarie che ci abita è nel desiderio di amare il diverso da sé, fare della giustizia sociale il primo passo verso una comunità dove ciò che è mio è anche tuo e la ricchezza (dei produttori e non dei padroni) di ciascuno. L’utopia è di quelle forti, ma non impossibili. Poggia sul desiderio dell’altrove ed eleva la vita quotidiana al conseguimento della pace, della bellezza e della fraternità tra le genti. La volontà di vivere insorge dappertutto contro la disumanità predominante e non sono bagatelle per un massacro ciò che le giovani generazioni in rivolta chiedono… né vendetta né perdono… ma il diritto all’esistenza e la fine dei crimini contro l’umanità
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