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Road to Nordkapp – Ventottesima tappa: Oskarshamn

di Emanuele Mei

56.720050, 16.372331

La mattina indugio nel sacco a pelo pigramente. Complici i primi freddi autunnali del nord che non mi invogliano certo ad uscire dalla della mia tenda. Infreddolito e rattrappito, con le gambe intorpidite dall’umidità, comincio a pensare a soluzioni che sono uno strascico dei miei sogni mattutini.
Preparo la colazione, pane ravvolto in fazzoletti di carta, marmellata d’arance, un paio di mele e l’immancabile caffè portato da casa che mi schiarisce il cervello. Il mio universo è li fuori, immenso, buio e freddo, senza quei colori che mi sforzo continuamente di cercare. Mi sento un viandante senza meta, con la barba spettinata dal vento, un valicatore di monti che non avrei mai pensato di poter scalare. La tenda ormai è diventata la mia casa. La sera le borse da viaggio si trasformano in mobili e il loro contenuto arreda lo spazio in maniera disordinata. Ricompongo le mie cose lentamente e riparto. Un sole pallido scalda il mattino, le ruote sono deformate dal peso delle valige, la bicicletta balla e i rumori di assestamento del telaio diventano un nenia che mi entra nel cervello e non mi permette più di ragionare.

Cambia lentamente il paesaggio, cambia l’odore della terra, i villaggi sono meno frequenti e la temperatura diventa leggermente più rigida giorno dopo giorno. I paesaggi che attraverso, nascondono umanità e sono pregni di una cultura che va interpretata e immaginata, prendendo le distanze dall’idea che avevo di questi luoghi in precedenza. La natura è una veduta che devo immaginare di nuovo, in maniera originale, autentica, legata alle sensazioni e alle esperienze che mi hanno portato in questo determinato luogo. Dovrei dimenticare i quadri, gli scritti, i film e le interpretazioni, per crearne una del tutto personale e autentica.
Nietzsche diceva che esistono diversi gradi di viaggiatori.

“Quelli del primo grado sono quelli che vengono visti viaggiare, o vengono “viaggiati” e sono per così dire ciechi; i secondi sono quelli che vedono realmente il mondo; i terzi fanno esperienze in conseguenza del vedere; i quarti rivivono dentro di sé le esperienze fatte, interiorizzandole; infine ci sono quelli che devono necessariamente rivivere fuori di sé, con azioni o opere, tutto ciò che hanno visto, dopo averlo sperimentato e interamente vissuto.”

Viaggiare ci rende più consapevoli e ci permette di scappare dall’automatizzazione dei tempi moderni. Alla fine siamo tutti ingranaggi di una gigantesca macchina alienante, che lo si voglia oppure no. Viaggiare è una ricerca dello stupore che ha senso solo perché è continua. Questa ricerca spasmodica è una metafora della vita. Le uniche certezze che abbiamo sono la nascita e la morte, in mezzo c’è questa esibizione, di cui siamo protagonisti assoluti, che ci entusiasma e ci terrorizza, che ci fa gioire e ci schiaccia.
Ma la meraviglia che ci cattura è dovuta al terrore e all’angoscia di scoprire che in realtà il mondo non ha colori. Sta a noi scoprirli durante il nostro viaggio. Il giallo cadmio, la terra Sierra Bruciata, il blu di Prussia e quello Oltremare, o ancora il #7e4f3d dei mattoni delle case o il #baa880 bruciato della Pianura Padana. Siamo noi a dover dipingere il nostro universo, come fa un bambino con un album da colorare. Questa ricerca non ha mai fine, il raggiungimento della meta, in realtà, produce una separazione dalla propria coscienza, che a sua volta porta alla ricerca di altri significati in altri luoghi. Il vero viaggio comincia quando ci si dimentica della nascita e si accetta il cammino verso la morte come unico futuro certo anche se, nell’atto di meravigliarci, cerchiamo di mantenerla il più lontano possibile. Solo così si può vivere un esistenza senza paure e rimpianti e si può cercare di capirne il “senso”.

Spesso quando credi di essere solo in mezzo al nulla, nella foresta spuntano, isolati dal mondo, gli hotel di lusso con centri fitness all’avanguardia e dalle grandi vetrate, che danno su ricoveri per animali da cortile. Una valorizzazione del territorio ambigua, realizzata in eco edilizia di ultima generazione, che in Italia vede continui fallimenti a causa della speculazione malavitosa sul cemento. Ma qui, in mezzo alla natura, il “senso” del luogo resta più forte di qualsiasi altra cosa. Al tramonto comincia il richiamo dell’airone cenerino e capisco che è il caso fermarmi. Trovo uno luogo per accamparmi poco fuori Oskarshamn, nei pressi di una spiaggia che toglierebbe il fiato a Maria Callas. Sono solo, in un luogo a metà tra il paradiso terrestre e un film di Dario Argento.
Non sono mai stato in questi luoghi prima d’ora e non ne conosco la memoria. In riva al mare, la luce cala lentamente rendendo i contorni sfumati. Da quando dormo in tenda il mio bioritmo si è legato indissolubilmente al ciclo solare. Mi alzo con l’alba e mi addormento subito dopo il tramonto. Poco dopo il crepuscolo, mentre sono già avvolto nelle coperte all’interno della mia tenda, sento rombare due moto. La cadenza dei giri del motore e il rumore, sono per me inconfondibili. Una è di sicuro una Harley Davidson 1200 R con il motore Evolution II, l’ultimo modello a carburatori, ma con accensione elettronica, prodotto a Milwaukee. Esattamente come la mia “Lady” che mi attende in garage. Esco fuori e con soddisfazione mi accorgo di avere ragione. L’altro mezzo è ancora più datato e monta uno Shovelhead con accensione a pedale, arrangiato con nastri para calore sugli scarichi e decorato dagli schizzi di olio fuoriusciti dalla testa dei cilindri.
Joe e la compagna si accampano affianco a me. Sono tedeschi, dei veri bikers molto amichevoli. Avendo spiegato loro che anche io guido un mezzo simile da ormai quasi 20 anni, mi accolgono nella loro ristrettissima cerchia e come vecchi amici ci raccontiamo storie dimenticate, bevendo una birra intorno alla luce di una lampada elettrica.

Ci salutiamo, la mattina ognuno andrà per la propria strada. Prima di tornare nella tenda mi sdraio sull’erba e guardo verso l’alto.
Di giorno la terra cattura sempre la mia attenzione, ma alcune volte, di notte, alzo gli occhi al cielo e penso ad obiettivi che avrei dovuto raggiungere e ai progetti che potrei ancora realizzare. Osservo una stella, la mia, senza la quale non avrei potuto fare nulla nella mia vita. Alzare gli occhi al cielo nel buio, mi offre uno spettacolo incredibile. La mia mente scioglie la tensione e percepisce forme famigliari di disegni surreali. Guardare le stelle mi ha sempre fatto sognare. Negli ultimi anni le ho guardate sempre meno, ma questa sera posso di nuovo fantasticare. Andrò sempre più a Nord, senza un motivo logico, verso il freddo eterno e tra distese di ghiacci imperturbabili.

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