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LA “GUERRA” DELLA FOTOGRAFIA

di Gerardo Regnani

La Fotografia, come la guerra, ci insegnano che la verità è di norma inafferrabile e, nel caso si riuscisse eventualmente ad “afferrarla”, è proprio la prima a dover essere spesso sacrificata.

E proprio la Fotografia, attraverso le immagini che ci arrivano dal conflitto esploso in queste ultime settimane – estremamente dolorose prima di tutto per le popolazioni direttamente interessate – ce lo ricorda nuovamente, nel caso fosse ancora eventualmente necessario. Così come ci confermano la potenza, la forza d’urto e la capacità di divenire della Fotografia oltre che documento, anche un possibile agente di storia. Un’attitudine che la Fotografia sembra in grado di preservare nonostante la consapevolezza che la “verità” che veicola è sempre “piegata” – magari inconsapevolmente – a letture condizionate da interessi di parte. A questa inaffidabilità funzionale, si aggiunge quella intrinseca di un medium in perenne oscillazione tra l’oggettività apparente dei “suoi” contenuti e l’immanenza della soggettività insita in ogni sua espressione. Una doppia “tara” che, tuttavia, non sembra comunque in grado di indebolirne lo status di “specchio del reale”, anche in questa contingenza bellica. Una dimensione comunicativa comunque intermittente, inevitabilmente caratterizzata da un’elevata dose di indeterminatezza e costantemente “inquinata” dal succedersi di notizie e riferimenti contrapposti anche riguardanti le medesime immagini.

Ciò nonostante, sembra comunque confermarsi la nostra masochistica dipendenza dalla Fotografia, ovvero, più nel dettaglio, dalla sua capacità di sintesi. Una dipendenza che contribuisce ad alimentare uno pseudo-scenario clinico assimilabile ad una sorta di Sindrome di Stoccolma. Sindrome a causa della quale, come è noto, la “vittima” (noi) è “costretta” a restare legata e fedele al suo “carnefice” (la Fotografia).

Una situazione, a tratti, assurda e surreale nella quale la Fotografia, per quanto continui a rivelarsi talora persino del tutto inaffidabile, sembra comunque in grado di conservare la sua primazia comunicativa. Una primazia apparentemente inossidabile quanto paradossale considerato, come accennato, il (sempre molto elevato) rischio che possa essere usata anch’essa come un’arma – per quanto “impropria” o “non convenzionale” che dir si voglia, ma pur sempre come un’arma – contro l’una o l’altra parte in contesa. Con tutte le relative, potenziali e/o effettive conseguenze.

Tuttavia, per una serie di fattori, finanche estetici, l’istantanea – che, nell’immaginario collettivo, è ormai considerata la Fotografia tout court – si sta comunque ulteriormente confermando come una delle forme di sintesi visiva per eccellenza della modernità. Un medium capace, anche in queste ore angosciose di fornirci comunque un drammatico riassunto visivo di quanto sta incredibilmente succedendo in questi giorni proprio nel cuore dell’Europa. Una capacità ineguagliata di riassumere in singoli e memorabili fermo immagine, elevati al rango di vero e proprio documento ufficiale ed entrati, già sul nascere, nella Storia. Vere e proprie immagini-simbolo in molti casi, che, plausibilmente rimarranno vive a lungo, se non per sempre, nella memoria comune, nonostante i cennati timori di un uso distorto dei relativi contenuti visivi.

Il volto della Fotografia – sebbene apparentemente “anemico” – sembra quindi riaffermare incessantemente questa strategica capacità del medium, confermandone anche l’altrettanto drammatica forza pervasiva. Una forza che esprime attraverso istantanee strazianti, che, anche al netto di possibili manipolazioni del discorso “incollatogli” dentro, “raccontano” comunque, in qualche modo, le tante, tristissime storie personali e collettive delle ormai migliaia di vittime di questo ennesimo conflitto bellico. Storie che stringono lo stomaco, scuotendo le coscienze e l’animo del Mondo intero.

O “quasi”…!

 

Un esito comunque di tutto rilievo per un mezzo “anemico” come sembra essere lo specchio dotato di memoria che chiamiamo Fotografia. Uno specchio apparentemente “incolore” che, a suo modo, ci racconta comunque il Mondo. Lo fa, di norma, attraverso l’inconsistenza dei suoi fantasmi visivi ai quali si affida “dandogli forma” e rinviando sempre a qualcos’altro. Tecnicamente, mediante l’uso della sineddoche e/o della metonimia, rimanda a una frazione o a una totalità, entrambe “esterne”, che rinviano a loro volta a qualcos’altro ancora. È un rinvio che, comunque, rimanda ad un (s)oggetto che, magari, un attimo dopo la ripresa originaria potrebbe non esistere più (per lo meno nella materialità e/o nella contingenza d’origine) o che, addirittura, potrebbe non essere mai esistito, come nel caso di utilizzo di immagini virtuali. In ogni caso, si tratta di una sorta di ectoplasmi del “reale” originario. Referenti dei quali, la Fotografia, si propone come sostituto visuale, valido a tutti gli effetti. Un “testo“ visivo comunque ambiguo, non privo di insidie, non apparendo mai  evidente la sua perenne oscillazione tra l’apparente oggettività e la soggettività comunque connaturata a tutta la Fotografia. Un’“anemia” che – come è per ogni rappresentazione visuale – la Fotografia tenta di “compensare” attingendo incessantemente senso e contenuti dall’esterno, al quale poi, comunque, li restituirà, riprendendoli ancora e nuovamente restituendoli senza soluzione di continuità, in una sorta di circolo dialettico “ecologico” infinito, volto a (ri)definire ininterrottamente i contenuti e/o il senso del (s)oggetto poi raffigurato nell’immagine.

Elementi esogeni di senso, dunque, che concorrono dall’esterno a “dare una forma” e una “voce” ad ogni Fotografia. Un’immagine, la Fotografia, che vive, dunque, proprio attraverso l’intermediazione della ventriloquia mutuata da altri media (anch’essi, di norma, esterni). E non c’è alternativa, anche per la Fotografia, per uscire dal suo mutismo congenito, se non ricorrere all’aiuto esterno appena accennato.

Nella “casa di vetro” della Fotografia, “dentro” ogni immagine, in sostanza, non c’è di norma nulla, se non si importa del senso dall’esterno. Tutto o quasi quel senso, la narrazione, i valori, etc., arrivano di solito da un’altra parte, posta, di norma, (tecnicamente) fuori dall’immagine.

Questa dipendenza dall’esterno, rende la Fotografia una sorta di drammatica metafora anche degli scenari geopolitici attuali, in particolare delle Nazioni del Vecchio Continente, tutt’altro che autarchiche anch’esse e, pertanto, stremate e indebolite dalla fame incessante di materie prime e di combustibili (gas e petrolio, fra i primi) che le rende fragili e perennemente dipendenti dai Paesi fornitori, tanto da rivedere drasticamente anche i relativi piani precedentemente stilati per la c.d. “transizione ecologica”.

Nonostante questa apparente limitazione di autonomia, nonostante il mutismo proprio di ogni immagine, nonostante questa costante dipendenza dal senso “incollatole dentro” dall’esterno, la Fotografia sembra riconfermarsi, come accennato, anche in queste ore drammatiche, comunque insuperata, come “il” sommario visuale per eccellenza della modernità. Modernità che, in questa triste contingenza, è segnata dalle tracce della devastazione e degli orrori del conflitto in corso.

Seppure con tutti i limiti e le cautele dei quali si è più volte detto anche altrove riguardo al pericolo di una “lettura” eventualmente distorta dei relativi contenuti e nonostante il fatto che la Fotografia resti, tecnicamente, soltanto un pallido simulacro del “reale” originario, non sembrano esserci dunque dubbi sulla sua immutata capacità di colpire comunque “alla pancia” il Mondo, tentando di scuoterlo dal suo sonno, dalla sua perenne distrazione proprio dalle cose del Mondo stesso. Un Mondo indaffarato nel proprio quotidiano, che potrebbe poi ritrovarsi, magari all’improvviso, da distratto osservatore esterno a protagonista principale di altre analoghe immagini. Protagonista di un’ennesima triste e tragica rappresentazione, a rotazione, della precarietà degli equilibri sociali e politici dell’Umanità contemporanea. Una precarietà che, verosimilmente, potrebbe essere condensata e offerta al Mondo, ancora una volta, proprio dalla Fotografia.

E, per quanto tra il “reale” e il suo “duplicato” raffigurato in ogni istantanea si crei comunque uno scarto, non ultimo, di tipo temporale – inevitabile quanto incolmabile – la Fotografia sembra inoltre conservare anche la sua primazia di “efficace” riassunto del Mondo. Un “è stato”, in particolare in questi giorni cupi, carico di tutto il portato emotivo, il pathos degli eventi “documentati”. Pathos che tende a riemergere ad ogni sguardo, “resuscitando” e restituendo ogni volta all’osservatore tutto il suo carico di strazio e di dolore. Il suo contributo alla rappresentazione della miseria e delle sofferenze causate dalla ferocia del Mondo.

Un eterno, ipotetico presente, quello comunque offerto dalla Fotografia, immutabile e senza apparenti prospettive future, che ci mostra il referente originario – che diviene una “spoglia” immediatamente dopo l’atto stesso della ripresa – come se fosse uno spettro. Salvo poi “rianimarsi” e rinascere ad ogni sguardo successivo. Una dimensione straniante, dove il “reale” è (tecnicamente) assente, ormai scomparso, dissolto e sostituito, per quanto possibile, dal relativo simulacro visivo. Una sorta di follia percettiva, una vera e propria allucinazione visiva che – attraverso lo sguardo “schizofrenico” della Fotografia – offre alla visione (sempre postuma) dello spettatore un referente, di fatto, ormai inesistente, che nell’immagine viene comunque virtualmente reificato e reso presente, sebbene “al passato”. Roland Barthes, al riguardo, ha definito la Fotografia falsa sul piano percettivo, mostrando un (s)oggetto ormai irrimediabilmente perduto nel passato, pur restando vera sul piano temporale.

La Fotografia diventa allora per me un medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo.

 

Una dimensione surreale, oscillante tra una sorta di pseudo-allucinazione e l’accennata schizofrenia, che sembra amplificarsi ulteriormente nel caso l’immagine raffiguri una persona scomparsa. In tal caso, la Fotografia – pur non potendo restituire, per quanto ovvio, la vita biologica persa dalla persona ormai defunta – sembra comunque potergli offrire un’illusoria alternativa, una momentanea (per quanto succedanea) rinascita ogni qualvolta l’immagine verrà poi nuovamente mostrata/osservata. Anche in questa prospettiva, la Fotografia sembrerebbe quindi confermarsi come “lo” spaccato, l’interruzione nel continuum del “reale” per antonomasia. Una frattura che ci mostra degli elementi indiziari di un passato comunque immodificabile, assoluto e ormai compiuto, ma, insieme, una potenziale, quanto solo ipotetica, occasione di ritorno del dissolto, una specie di momentanea “resurrezione”, per quanto effimera e relegata solo a una dimensione puramente immaginaria.

Una dimensione folle e allucinante che si nutre anche della capacità di “ritrarsi” propria della Fotografia a tutto vantaggio del referente di volta in volta raffigurato in essa. La Fotografia, “arretrando” e ritraendosi, diviene (tecnicamente) invisibile, mettendo in primo piano – per mostrarlo e farlo così “rivivere” ancora una volta si è accennato – il referente originario ritratto in essa. Un referente del quale, la Fotografia “arretrando” e divenendo invisibile, ci mostra, in termini tecnici, una sorta di surrogato del (s)oggetto ormai “scomparso”.

Altrimenti detto: un fantasma, uno spettro.

La Fotografia sembra anche connotarsi come una specie di lastra trasparente, attraverso la quale tentare di osservare i “residui” del referente originario. Una fenomenologia che si alimenta anche dell’automatismo stesso della riproduzione meccanica. Una proprietà tipica della Fotografia che le ha consentito di continuare ad apparire immune alle (comunque inevitabili) “contaminazioni” della soggettività. Soggettività, che, secondo un diffuso credo comune, è più specifica del mondo dell’Arte, piuttosto che di un mezzo meccanico, automatico e apparentemente “neutro” come la Fotografia. Una caratteristica che le permetterebbe di ambire a un livello di oggettività tale da non temere più di tanto, per lo meno nel suo campo, possibili antagonisti. Una caratteristica che il già citato semiologo francese Roland Barthes ha riassunto così:

“Da un punto di vista fenomenologico, nella Fotografia il potere di autentificazione, supera il potere di raffigurazione.”

Qualità che, in una prospettiva meccanicistica, assocerebbero universalmente l’immagine fotografica sostanzialmente solo ad un automatismo, concorrendo a determinare – sempre ad opera di Roland Barthes – quello che è stato definito una sorta di “messaggio senza codice”. La Fotografia diviene così ulteriormente subdola, perché sembra sempre in grado di riproporci il referente originario senza mediazioni, senza filtri, apparentemente “incontaminato”, divenendo un mezzo e, insieme, anche un possibile documento atto ad indagare, se del caso, anche a ritroso nel tempo.

Quello della Fotografia, purtroppo, non è però mai uno sguardo terzo.

Tutt’altro!

Quello della Fotografia, infatti, è sempre uno sguardo incessantemente affetto da possibili, quanto talora anche inconsapevoli e/o inevitabili, “conflitti d’interesse”, sia dell’autore con qualcuno/qualcos’altro sia di un eventuale (ri)utilizzatore che estrapolasse o riusasse comunque l’immagine. Così facendo, l’uno o l’altro “piegherebbero” in ogni caso la Fotografia alle relative intenzioni, ai relativi indirizzi di senso. Una sorta di riconfigurazione semantica a partire anche dai relativi elementi formali, quali, ad esempio, la cornice reale o virtuale dell’immagine stessa.

Non propriamente un messaggio automatico e senza codice, verrebbe da dire. Quanto, piuttosto, sempre (anche inconsapevolmente) una vera e propria scelta politica, condensata nell’azione dell’autore e/o di chi poi (ri)usa l’immagine fotografica. Uno stato di cose nel quale la Fotografia, “ritraendosi”, fa quindi emergere l’idea posta a monte della sua creazione, dissolvendo definitivamente, in tal modo, anche un eventuale idea residua di Fotografia intesa come un contenitore innocente e trasparente.

Per guardare in modo adeguato una Fotografia occorre quindi tener conto di tutto questo.

Ma non solo.

La Fotografia sembra in effetti continuare a ricordarci anche che, oltre a non essere un semplice e (apparentemente) neutro e trasparente “messaggio senza codice“ è anche una specie di agente morale giudicante dei “suoi” stessi contenuti, così come, più a valle, delle reazioni di fronte a questi contenuti – e al relativo pathos che li connota – da parte del destinatario finale. Pathos che rappresenta, si è accennato, uno dei punti di forza e, al tempo stesso, uno dei suoi possibili elementi critici per gli esiti, talvolta persino imprevedibili, derivanti dalla visione di un’immagine eventualmente “inquinata” nei suoi contenuti. Esiti, che, per quanto ovvio, non sono privi di conseguenze, inducendo sempre una reazione nel destinatario. Reazione che ne influenzerà, condizionandone l’orientamento – per quanto in misura ogni volta variabile – la relativa sfera d’azione successiva. Riflessi che potrebbero oscillare da una sostanziale indifferenza sino alle reazioni più ampie e disparate, sia in termini qualiquantitativi sia in termini temporali. Reazioni che potrebbero fondarsi su un costrutto visuale, si è pure detto, talora anche distorto – sebbene non sempre e non necessariamente in modo volontario – ma, non per questo, non meno insidiosi e/o pericolosi. Una propensione all’azione, si accennava, che, per quanto possa essere contaminata da una lettura ideologica e, quindi, “orientata” già a monte, produrrebbe comunque degli effetti a valle, con le relative conseguenze. Come risulta essere, purtroppo, già nuovamente successo, anche in queste settimane. Si fa riferimento, in particolare, ad un caso che ha avuto una ampia eco in tutto il Mondo. Un caso paradigmatico, che, per quanto ovvio, ci ricorda nuovamente che in queste circostanze, per sostenere un ragionamento tendenzioso e/o falso, il “vero” discorso che è alla base del messaggio che la parte interessata intende veicolare, nell’immagine interessata sembra prendere il posto del relativo preambolo. L’alto gradiente di insidiosità di questo tipo di rappresentazioni visive può, tuttavia, non emergere palese e immediato in tutto il suo portato. Andando così progressivamente a minare, ad esempio attraverso la calunnia, la credibilità di uno o più degli interlocutori interessati. Una subdola modalità di screditamento degli antagonisti, infida quanto letale, che ci ha ben sintetizzato il celebre adagio del Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini:

La calunnia è un venticello,/ Un’auretta assai gentile/Che insensibile, sottile,/Leggermente,/dolcemente/Incomincia a sussurrar/Piano piano, terra terra,/Sottovoce, sibilando,/Va scorrendo, va ronzando;/Nelle orecchie della gente/S’introduce destramente/E le teste ed i cervelli/Fa stordire e fa gonfiar./Dalla bocca fuori uscendo/Lo schiamazzo va crescendo/Prende forza a poco a poco,/Vola già di loco in loco;/Sembra il tuono, la tempesta/Che nel sen della foresta/Va fischiando, brontolando/E ti fa d’orror gelar./Alla fin trabocca e scoppia,/Si propaga, si raddoppia/E produce un’esplosione/Come un colpo di cannone,/Un tremuoto, un temporale,/Un tumulto generale,/Che fa l’aria rimbombar./E il meschino calunniato,/Avvilito, calpestato,/Sotto il pubblico flagello/Per gran sorte ha crepar.

 

Una Fotografia in grado di esprimere una così subdola capacità d’offesa è, potenzialmente, persino più temibile di un’arma convenzionale. Non ultimo, perché, potrebbe a prima vista non apparire magari del tutto evidente la sua possibile onda d’urto.  

Un’insidia che è propria di quella Fotografia che, sin dagli esordi ottocenteschi, ci appariva, invece, così inoffensiva, con tutto il suo carico apparente di automatica e fredda neutralità. Con la sua apparente veridicità la Fotografia ci inganna dunque da quasi due secoli. E, come ci conferma anche l’uso “mirato” delle immagini fisse e/o in movimento che risulta essere stato fatto anche durante questo conflitto, la Fotografia rischia di trasformarsi anche in una sorta di moderno quanto altrettanto temibile Cavallo di Troia. Uno strumento e, insieme, un canale fraudolento per traghettare, poco o per nulla percepiti, senso e significati da un fronte all’altro. Contenuti talora anche molto distanti dal “reale” che la Fotografia sembrerebbe invece riflettere “in chiaro”, che, in modo infido, possono alimentarsi anche e proprio della carica di pathos generata ad hoc dalla “verità” originaria poi manipolata.

Una riconversione della relativa “destinazione d’uso” della Fotografia che, tra l’altro, contribuisce anche a svilire gli sforzi di tutti quegli operatori (professionali e non) che intenderebbero invece realizzare, per quanto possibile, documenti complessivamente veritieri riguardo ad un evento, magari pagando, come è successo in questi giorni, un prezzo molto alto anche in termini di perdite di vite umane.

Ciò nonostante, cresce comunque, nel frattempo, anche una diffusa diffidenza nei confronti di qualunque messaggio veicolato dai media. Una méfiance, come probabilmente la definirebbe anche Ferdinando Scianna, che è stata uno dei motori che diedero a suo tempo un’ulteriore, decisiva spinta alla nascita di voci meno dipendenti dal sistema mainstream dei media, a maggiore difesa e sostegno dell’affermazione della verità.

Uno iato, in ogni caso, insanabile, quello tra la frazione di “realtà” rappresentata e quella concreta, sempre più articolata e complessa. Tra quella di primo grado e quella della relativa frazione temporale della ripresa che “agirà” poi sul destinatario finale che, di volta in volta, in seguito si può osservare nell’immagine.   

Ma non è tutto.

A quelli già accennati sinora, vanno aggiunti anche i possibili rischi correlati all’esposizione incessante, abnorme e tendenzialmente saturante di immagini veicolate dai media contemporanei, in particolare, in simili circostanze. Un sovradosaggio visuale che, dopo un primo, fisiologico picco di interesse, potrebbe, magari molto repentinamente come è già successo in precedenti situazioni analoghe, scemare sensibilmente.

Non fa eccezione la Fotografia, benché ritragga le immagini di una tragedia immane come quella in corso. Rischia anch’essa di mescolarsi fatalmente e pian piano dissolversi nel flusso più ampio e indistinto di news e di attualità dell’informe, eterno presente narrato dai media contemporanei.

Non sarà così, probabilmente, almeno in questo caso. Per lo meno non così repentinamente e/o nell’immediato, considerata anche la contiguità geografica e culturale con l’area ora maggiormente interessata dal conflitto, così come le relative alleanze militari interessate, l’interdipendenza economica e, non ultima, la minaccia anche di un possibile innalzamento “qualitativo” del livello del conflitto, con l’eventuale ricorso anche alle armi atomiche.

La Fotografia, quindi, continuando “registrare” ulteriormente l’evoluzione di questo conflitto, sinora già oltremodo drammatico, continuerà verosimilmente ad alimentare anche una sorta di teleintimità con i (s)oggetti che saranno via via protagonisti degli “sguardi” che ci veicolerà. Una condivisione che, facendo percepire sempre meno distante il conflitto, alimenterà progressivamente, si spera, un’empatia crescente con le aree al momento maggiormente colpite dal conflitto in corso. La Fotografia, nella sua veste di strategico medium trasversale, dovrebbe quindi continuare a concorre alla definizione dell’agenda dei media e, per riflesso, della relativa audience.

Un contributo che la Fotografia, seppure con i limiti ripetutamente accennati, continuerà verosimilmente ad offrire attraverso i suoi preziosi focus visivi isolando e “congelando”, magari per sempre (a futura memoria), questi terribili scenari di devastazione e di Morte che, speriamo presto, possano finalmente cessare mettendo anche fine a questa drammatica e angosciosa sequenza di immagini del dolore degli altri.

 

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