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Stupiscimi

di Domenico Giampa

Mi trovavo anni addietro, ai tempi della gloriosa pellicola, in uno dei tanti circoli fotografici torinesi, felice ritrovo settimanale di appassionati e amici. Mano a mano che la gente arrivava prendeva posto a sedere e con il suo piccolo forziere di immagini aspettava trepidante il momento di farle vedere agli altri, l’atmosfera era quella di una prima serata a teatro, ci si studiava, ci si chiedeva dell’operato di Tizio o del valore di Caio prima di gettarsi nella mischia con le proprie foto, ma tra beffe e goliardate eravamo tutti amici.

Molti lavoravano a progetto, altri vivevano di brevi emozioni colte per strada ma tutti, proprio tutti, avevano in animo l’intenzione di stupire la platea ma soprattutto di non sfigurare dopo una settimana di assiduo lavoro.

Ricordo che, in tutto questo fermento, riuscivo a distinguere tra tutti un signore di mezza età, piccolo di statura, stempiato ma non troppo, di poche parole, con una valigetta al seguito che portava come una reliquia, lui non faceva vedere mai le sue foto o meglio, non ricordo di aver mai visto una sua foto, si limitava alla fine della serata, dopo che l’acceso dibattito aveva lasciato sul campo morti e feriti, ad aprire gelosamente la sua valigetta e con fare guardingo, ma compiaciuto, mostrarne ai curiosi presenti il preziosissimo contenuto, una Leica a telemetro con la più classica della triade, 35, 50, e 90 mm.

Ogni giovedì sera il rito si ripeteva, una volta fu talmente generoso che me lo fece tenere in mano quel miracolo di meccanica, la mia piccola Yashica era distante anni luce da cotanta perfezione e nella mia ingenuità di ragazzo mi convincevo, sempre più, che costui fosse un mostro sacro in fatto di fotografia e che nulla avrei potuto per reggerne il confronto.

Passarono i mesi, un giorno finalmente lo vedemmo tutti, con una cartella spessa sotto il braccio, che si aggirava con fare saccente e minaccioso tra le prime file di sedie, in posizione avanzata di scatto verso il pubblico scarno, tutti ebbero la sensazione che quella sera avremmo visto qualcosa di colui che ci aveva da sempre fatto sognare con la sua attrezzatura, oggetto di notti insonni e orgasmi indesiderati, doveva essere per forza una serata speciale, il vino buono ci mette anni a diventare tale e così ci accingemmo tutti a vedere il suo operato.

Volle essere il primo a prendere la parola e, aprendo la cartellona, ne estrasse il contenuto tenendolo in mano come Mosè con le tavole della Legge, appena adagiò sul tavolo quelle ottime stampe, baritate di un bel bianco nero puro, rimasi senza parole, non grandiosi paesaggi, non invidiabili macro né tantomeno dei glamour di razza o reportage d’autore ma solo, inesplicabilmente, gelidamente, incomprensibilmente muri e mire ottiche a cui seguirono dei degni e misuratissimi commenti ai confini del delirio sulla risoluzione, le linee per millimetro, del suo parco ottiche e sulla teutonica convinzione di essere seduto sul tetto del mondo.

Come era stato possibile tutto ciò, come era successo che tutta la mia ammirazione nei confronti di costui, della sua titanica gelosia del suo operato si fosse tramutata in un senso di tradimento bruciante? Come può un fotografo vivere aridamente del ferro e del vetro che acquista, come può rinunciare alla linfa vitale delle proprie immagini, alla fresca rugiada di una sensazione, alla sorgente della vita che riesce a racchiudere in un attimo?

Non ebbi parole quella sera, erano gli anni dell’ingenuità, ma non ho parole neanche oggi che mi avvio verso l’imbrunire, la fotografia è cambiata nel mezzo ma non nei “fondamentali”, di questo ne sono certo e credo che oggi come allora il più grande patrimonio di un fotografo restano inconfutabilmente e appassionatamente le sue foto e il suo stupore.

Domenico Giampà

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