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Quando mi tuffai nella Retina.

di Mario Biglietto

La prima volta che ho usato davvero una macchina, in autonomia, ero in V elementare. Quella macchina la possiedo ancora, di tanto in tanto la maneggio, mi piace sentirne l’odore.

Non era la “mia” ovviamente, era quella di mio nonno materno, un simpatico nonno aviatore ― l’aveva portata anche a bordo di un “Gobbo Maledetto” (Savoia-Marchetti S.M.79 Sparviero), quando andò a recuperare Umberto Nobile, fino al Polo Nord.

Era una macchina compatta, una Kodak Retina per pellicola perforata 35mm, ne esisteva anche una versione per pellicola 120, aveva un mirino galileano, una ottica Xenon 50mm f1/2.0 prodotta dalla Schneider-Kreuznach, la lente aveva tutto nella parte anteriore, la ghiera del fuoco, i tempi ― quelli di una volta (1/50”, 1/100”) ― perché fuoriusciva dal corpo in cui era incassato mettendo in mostra un bel soffietto nero.

Era protetta da una custodia di pelle, con la cinghia di tracolla agganciata ad essa e non alla macchina, che si chiudeva con un bottone a pressione, era una macchina fotografica bellissima, anche se a quel bambino pareva “vecchia” esercitava già un fascino su di me.

Papà mi approntò anche l’“esposimetro” per la gita di classe, non potendo contare sul suo abituale supporto, in realtà non fece altro che “azzeccare”, poco elegantemente, dietro la custodia, le informazioni che si trovavano nelle confezioni dei rullini, questo era da 100 ISO quindi: sole f16/125, parzialmente coperto f11/125 ecc.

Era un rullino in bianco e nero, non dovevo quindi preoccuparmi delle dominanti in ombra scoperta ma, al netto dei calcoli sulla profondità di campo e dell’adeguamento della coppia tempi/diaframma, dovevo anche fare una valutazione in sovra o sottoesposizione in base ai tempi, obsoleti, del piccolo otturatore centrale, cosa che mi inquietava un poco, non sapendo ancora che la latitudine di posa mi sarebbe venuta in soccorso.

Una volta fatto tutto non dovevo far altro che stabilire a quanti metri focheggiare, inquadrare e premere il pulsante di scatto.

La sera le stampammo in formato 9×13  nello sgabuzzino, col Durst, il miracolo che si compiva davanti ai miei occhi mi apparteneva dalla sua genesi per la prima volta.

La cosa che mi colpì maggiormente fu che, mentre facevo quelle operazioni prima di scattare, ero rapito, vedevo in un modo nuovo e con maggiore presenza le cose più banali, i compagni che giocavano e correvano verso l’obiettivo, i gruppi ambientati, il paesaggio.

Sempre quando fotografo vedo meglio le cose, immagino che capiti a tutti, se siamo nella giusta predisposizione. Quando usavo la pellicola sapevo esattamente quello che catturavo nel momento in cui premevo col dito il pulsante che apriva l’otturatore, è una sensazione di cui il digitale e gli automatismi mi hanno privato

Oggi ancora scatto, non molto frequentemente purtroppo. L’ultima reflex che ho comprato è una Canon Eos 5D markII, per fotografare coi flash è ancora perfetta, invece in esterni ho preso ad uscire quasi sempre con un Nikkor S-Auto 50mm f1/1.4 con adattatore, scatto spesso in monocromatico jpg ―  la foto deve uscire subito o la devo buttare ―  devo scattare non devo giocare al computer, anche solo focheggiare è un’impresa, ma è un lusso che mi posso permettere solo perché oggi non ho committenti. Questa modalità mi restituisce in parte lo stato d’animo di quel giorno con la Kodak Retina, mi assorbe, mi pulisce dal superfluo, mi fa tornare fotografo, le limitazioni operative mi servono come serve un rituale.

Mi sono interrogato a lungo, già da ragazzino, sul perché questa cosa mi desse queste sensazioni profonde, del perché vedevo le cose in maniera così diversa, perché quelle immagini banali e consuete quando si spalmavano fra gli alogenuri d’argento si sublimavano, per quale motivo assumevano una rilevanza altrimenti insospettabile e perché lo capivo già solo scegliendo l’inquadratura mentre scattavo.

Le risposte a interrogativi complessi sono spesso semplici, aveva ragione da vendere Guglielmo di OccamA parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire”.

La semplicità della fotografia rappresenta anche la sua immensa bellezza e pure la sua complessità, la sua essenza più autentica, perché ogni volta che chiunque di noi rivede le proprie foto, sicuramente più che quelle degli altri, risparmia i soldi di una seduta di analisi.

Ho praticato la pesca in apnea intensamente e per lunghissimo tempo, e ancora lo faccio, sporadicamente.

Il fotografo è come un apneista, l’apneista non è un subacqueo che scende per guardarsi attorno, l’apneista scende giù, nel blu, per guardarsi dentro e sentirsi parte di quello che lo circonda.

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