Ieri sera io e la mia compagna, accucciati nel letto a riscaldarci coi nostri corpi abbiamo deciso di vedere del buon cinema, quello vero e devastante dei grandissimi cineasti, quello maleducato, sincero.
Spulciando fra le moltissime possibilità le ho proposto di vedere la scena iniziale di Werckmeister Hármoniák,un film di Bèla Tarr, un film del 2000, un film senza tempo, sapevo che non avrebbe più potuto staccare gli occhi, il cuore e l’anima da quell’opera immensa, coccolata poi dalle musiche divine di Mihàli Vig.
“Werckmeister è ricordato soprattutto come teorico della musica, da lui definita scientia mathematica; nelle sue opere conia il termine buon temperamento che designa qualsiasi sistema di accordatura che permettesse di suonare in tutte le tonalità, in contrasto con il temperamento mesotonico di uso corrente nei secoli XVI e XVII. Descrisse inoltre un sistema di tali temperamenti, i temperamenti Werckmeister.”
György, musicista e intelletuale, amico del protagonista János Valuska, un postino, discute di questo, mentre registra i suoi pensieri, la telecamera lo circonda girandogli lentamente intorno, parla di quando, nell’antichità, gli strumenti non accordati permettevano ai musicisti la massima libertà.
È stata una mossa subdola proporle di vedere la prima scena, volevo proprio vedere quel film, quel regista, avevo bisogno di questa intensità assoluta, sapevo che sarei rimasto “sotto la botta” per giorni, infatti stamattina mi sono svegliato ascoltando in loop questi brani, mentre lavoro e scrivo.
La scena iniziale è l’intero film, anche se poi si destruttura la narrazione e ricomincia a tessere la trama di una umanità che contiene il tutto, il bene e il male. János, all’orario di chiusura del bar dell’anonimo paese, mette in scena una eclissi di sole servendosi di alcuni avventori per impersonificare i corpi celesti, descrive il terrore degli animali al buio inaspettato, lo smarrimento, il buio, scopriremo poi della ragione, il freddo. Poi ecco, ormai inaspettata, la rinascita della luce, il ritorno alla vita. La scena, di una bellezza disarmante, è rafforzata dalla musica di Mihàli Vig, Öreg, incredibilmente bella tanto quanto Valuska, il tema principale.
Quello che pochissimi cineasti sanno fare è tenere l’inquadratura, tenerla a lungo senza scadere di intensità, perché le inquadrature di Bèla Tarr sono eccezionali, la sua fotografia mostruosamente attinente allo scopo, arrivano dritte al cuore, pochi secondi le farebbero scadere, invece senti montare la potenza dentro perché non finiscono mai, cresce il calore, o l’orrore come le scene agghiaccianti della devastazione, scene preparate a lungo e concluse con l’inerme umanità che fa risorgere il sole.
Uomini dediti alla bestialità e uomini dediti al misticismo attraverso l’arte, contornati da uomini che vivono una vita pacifica e da feroci opportunisti, archetipi che si trovano a condividere questo armonico quadro divino.
Nel mio libro ho definito l’artista come colui che riesce a rendere, al cuore più che alla ragione, l’incomprensibile, colui che, grazie alle sue immense doti e sensibilità, sa farci diventare capaci di digerire emotivamente quello che non saremmo mai capaci di fare nostro, nutre e fa elevare la nostra più profonda essenza.
Bèla Tarr è un artista vero, racconta alle anime più che alle persone, travolge le inezie facendo emergere la bellezza degli esseri umani dalle macerie del buio della ragione, emancipa l’uomo dai suoi tanti difetti restituendoci una virtuosa quanto anarchica armonia.
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