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GIUNGLA

di Tiziana Bonomo

Basta!! Basta!! Cosa si vede? Si vede ciò a cui noi ci stiamo abituando da tempo. Guardare fotografie con persone esauste, affaticate, in situazioni di difficoltà.

Eh sì nulla di speciale, di stravagante, di innovativo. Ma vi chiedo di guardare con estrema attenzione i tanti particolari di questa fotografia. Dove è stata scattata? Cosa fanno esattamente quelle persone in quel luogo? L’uomo è ammalato o stanco? Di quale nazionalità sono? La natura è così rigogliosa, verde che forse per un attimo si potrebbe pensare ad un incidente durante un trekking. Non è così? Ma poi guardando con attenzione sullo sfondo si intravedono un uomo e una donna seduti che stanno mangiando qualche cosa. Molti sono uomini, sembrano vestiti abbastanza bene e dai modi gentili. Uno di loro massaggia i piedi all’uomo anziano sdraiato che sembra senza forze e bisognoso di acqua. Si potrebbe pensare che ci sia un legame di parentela. È probabile che ci sia.

 

Ebbene questa immagine di Federico Rios Escobar, fotoreporter colombiano, fa parte di un suo saggio fotografico, “Percorsi di speranza disperata, attraversando il Darién Gap”, scattato tra settembre 2022 e marzo 2023. Questo reportage illustra vividamente com’è la vita per i migranti che tentano di attraversare il Sud-Nord America. Escobar ha vinto all’unanimità il 21 giugno 2023 l’Humanitarian Visa d’Or dell’International Committee of the Red Cross (ICRC). La fotografia mostra alcuni migranti afghani in un momento di pausa che attraversano la regione del Darién Gap. Afghani? Come è possibile? Come sono arrivati fino a Panama nella regione del Darién Gap?

Ebbene il lavoro di Escobar è stato esposto quest’anno al Festival di Fotogiornalismo di Perpignan con il titolo Paths of Desperate Hope/ Le chemin de la dernière chance” dove ho avuto la possibilità di fargli un’intervista. Riporto alcuni salienti passaggi e così riusciamo a scoprire come persone afghane siano riuscite ad arrivare fino lì.

 

Sono un fotografo colombiano, ho iniziato a fotografare più di 20 anni fa. Ho iniziato a documentare l’America Latina circa 8 anni fa, forse quando i venezuelani hanno iniziato a lasciare il loro paese per andare in Colombia e alcuni di loro hanno lasciato il Venezuela per andare nel sud del Brasile. Ho camminato con loro più volte dal loro paese al mio paese e dal loro paese al Brasile. Nel 2021 sono andato ad Haiti quando è stato assassinato il presidente di Haiti, Jovenel Moïse. Mentre ero lì a documentare lo stato di emergenza, improvvisamente, ho iniziato a sentire che migliaia di persone attraversavano il Darién Gap, una regione a sud di Panama. Ciò mi ha sorpreso e allo stesso tempo mi ha dato speranza e forza per iniziare a lavorare su questo argomento. Mi rendo conto che in Europa e in America, anche persone con un’istruzione – che accedono ad Internet per conoscere – sanno così poco della geografia americana.

Capisci che dal sud degli Stati Uniti puoi andare a Panama ma non puoi andare in Colombia perché c’è una grande foresta senza strade. Quindi dagli Stati Uniti, si attraversa Città del Messico e poi si attraversa tutta l’America Centrale su strada e poi a Panama ci si ferma. Non c’è una foresta, c’è una giungla: cento chilometri di giungla. Non è come una linea retta. Se vuoi salire o scendere dalla Colombia, se vuoi attraversare dalla Colombia a Panama, devi comunque attraversare la giungla. Non ci sono strade lì, non c’è niente, c’è una giungla. Dal 2010 al 2020 sono stati alcuni migranti ad attraversare la giungla, 10.000 circa all’anno.

Nel 2021, quando il presidente di Haiti è stato ucciso, il numero passa da 10.000 a 50.000 all’anno. Così sono tornato ad Haiti e ho visto persone rischiare la vita nel Darien Gap. Ho visto famiglie attraversare la giungla, uscire da Panama, proseguire verso l’America Centrale per arrivare fino negli Stati Uniti.

Nel 2021 la maggior parte delle persone che attraversavano il Darien Gap erano haitiani. Haitiani che hanno lasciato Haiti 5 o 10 anni prima e vivevano nel sud del Cile o nel sud del Brasile, in Argentina, Bolivia e per alcuni motivi sentivano che era il momento giusto per andare a nord. Ho attraverso la giungla con loro. Nel 2021 ho impiegato 6 giorni e nel 2022 ci siamo incrociati con la mia compagna Julie (Julie Turkewitz del New York Times) scrittrice, che tengo a ricordare per il lavoro svolto insieme.  In una città puoi anche fare 40 km al giorno ma nella giungla è tanto se riesci a farne 8. È molto pericoloso: il cammino è ripido e molto fangoso e spesso c’è molta pioggia. La natura è molto pericolosa. Se attraversi il fiume mentre l’acqua sale può trascinarti e ucciderti. Molte persone sono morte così. Una traversata pericolosa dove molti non ce la fanno e dove chi può cerca di aiutare il più debole.

 

Nel 2022 circa 250.000 persone di cui più o meno 33.000 bambini hanno attraversato la giungla del Darién. La maggior parte per raggiungere gli Stati Uniti. In Italia non abbiamo una visione chiara della situazione perchè?

“Io sono molto sorpreso che molte persone non conoscano il Darién. Le persone tendono a pensare che il Nord e il Sud America siano connesse tra loro ma ….non lo sono! Se si vuole arrivare dall’altra parte bisogna passare dalla giungla. Nel 2022 circa 8 milioni di venezuelani sono andati via dal loro paese per la situazione che si è verificata dopo la morte di Chavez: niente scuole, niente cibo, niente energia, niente gas, niente macchina, niente lavoro”. Così come molti in Europa non sanno che oltre ai migranti del centro sud America una larga parte arriva dall’Africa e dall’Asia: dall’Afghanistan, dal Nepal, dalla Cina, dalla Mauritania…

 

Ma come arrivano?

“Molti di loro prendono l’aereo fino a dove è consentito. Ad esempio dalla Cina arrivano in Ecuador, sei hai un passaporto cinese tu puoi volare fino in Ecuador, in Colombia, in Brasile. Le persone cinesi possono viaggiare ovunque. Viaggiano in autobus dall’Ecuador alla Colombia e attraversano il Darien a piedi. È pazzesco. Gli afghani vanno “via strada” verso l’Iran e la Turchia, poi volano fino in Katar e poi volano in Brasile. Dal Brasile attraversano tutto il continente fino alla Colombia in autobus. Quando arrivano in Colombia devono attraversare per 6-7 giorni la giungla. È devastante e difficile anche per un uomo giovane che ha svolto lavori fisici”.

 

Quando hai iniziato a diventare fotografo?

“Ho iniziato quando ero molto giovane perché ho pensato che era il mio strumento per comunicare con la gente. Avevo 6 anni. Ora io vivo in Medellin ma sono nato in un piccolo villaggio in Colombia. Mio padre era molto povero quando era giovane, estremamente povero. In qualche modo riuscì ad andare all’università, era super intelligente e ha lavorato molto duramente. Ha ottenuto una borsa di studio ed è andato in Egitto a studiare e quando è tornato in Colombia sono nato io. Il primo ricordo di mio padre quando io avevo 3 anni fu nel soggiorno della nostra casa con i suoi amici di infanzia e una sua fotografia in Egitto seduto su un cammello di fronte alle piramidi. Quante volte ripeté la sua storia in Egitto e a sei anni mio padre mi diede una macchina fotografica, una Kodak molto, molto economica. Io iniziai a fotografare tutti i posti dove andavo con mio padre: nei campi e in tanti altri luoghi. Fu così che mio padre portò a stampare alcune fotografie che io portai in classe. Divenni il ragazzo più popolare della mia classe. Mi resi conto che la classe era interessata a me e alla mia vita grazie alle fotografie. Allora avevo sei anni adesso ne ho 43.

Ci fu un momento in cui dovetti scegliere se andare con un genitore in un magnifico luogo caraibico oppure nella giungla. Mia madre fu sorpresa che alla spiaggia caraibica avessi preferito la giungla dove non ero mai stato! Questo sono io oggi così come a sei anni!

Sono cresciuto vicino alla montagna, camminando in montagna attraversando il fiume dove io amo nuotare, sin da quando ero molto giovane. La relazione con la natura risale sin da quando ero piccolo.”

 

Quando hai deciso di diventare un fotografo professionista?

“È un pò complicato perché i miei genitori desideravano che io “fossi qualcuno”. In America Latina c’è sempre questa idea. Da noi il rischio della povertà, di ritornare poveri non ci lascia mai. Il sogno è quello di avere un figlio: architetto, medico, ingegnere….Così quando dissi a mio padre che volevo diventare un fotografo lui è andato fuori di testa.

Alla fine ho studiato giornalismo e comunicazione. La scuola di giornalismo era molto focalizzata alla fotografia e avevo un’insegnante fantastica Adriana Villegas dove vivevo nella piccola città di Manizalis in montagna. Ho iniziato a lavorare come fotografo per i giornali locali e ci fu un momento in cui avevo così tanto lavoro fotografico che non riuscivo a frequentare la scuola e così decisi di fare il fotografo!

Il mio primo importante lavoro fotografico fu sulle “urban gangs” in Medellin in Colombia. Ho iniziato il progetto sulle gangs verso il 2009 mentre prima ero stato fotografo per alcuni giornali nazionali.

Mi resi conto che il fotogiornalismo sempre concentrato sulle “daily news”, “daily news” e non mi emozionava. Così quando ho iniziato a documentare le “gangs” ho iniziato ad avere una prospettiva diversa più attenta all’aspetto umano. Fu così che convinsi le persone delle “gangs” a farsi fotografare nella loro vita quotidiana e a non uccidermi. È stato molto impegnativo e ho trascorso anni a documentarli”.

 

È stato quindi difficile ma ciò che emerge dai tuoi lavori è il fatto che non giudichi, non sei un giudice. Tu riprendi una certa realtà.

“Cerco di vedere il lato umanitario delle persone. Un membro di una gang è un essere umano: un ragazzo, un amico, un marito, un figlio, un fratello…. Sai?  Non è solo un sicario. Quindi è un sicario ma anche molte altre cose. Cercare di affrontare la complessità umana è stato molto importante per me fin dall’inizio cercando di trascorrere del tempo con loro, senza giudicarli. “

 

Penso che per fotografare l’umanità bisogna sentirla dentro l’umanità bisogna aver conosciuto la non umanità e allora lo sguardo si posa senza indugio su ciò che si conosce e non su ciò che è bello, brutto, perfetto o non perfetto. La scena davanti agli occhi di chi sente l’umanità è una porzione di verità quella verità che si fa fatica spesso ad accettare fatta di quei gesti che inducono alla compassione, al rispetto all’intenzione di documentare nel “miglio modo possibile” le difficoltà di alcune vite al limite della sopravvivenza. Al limite non all’apice della vita. Le porzioni di vita spesso sono poi piccoli gesti: uno sguardo, la piega di un corpo, la luce negli occhi di un ragazzo. Così come in questa immagine: il ragazzo massaggia un piede con garbo, con cura. Voi direte: ma come, ma cosa dici: banalità! Ebbene chi sa vedere queste banalità chi sa fotografe questi impercettibili attimi lasciandoci nell’immagine la sensazione di un destino, di una infinitesimale porzione di umanità come Escobar è uno straordinario fotografo!

E pensare che il Darien scatenò la fantasia di Salgari con “Gli ultimi filibustieri” attingendo alle imprese dei veri pirati che dal Perù trasportavano oro e argento. Forse già allora erano le storie d’amore a prevalere sull’umanità già devastata da sete di potere e ricchezza.

 

Didascalia: @ Federico Rios Escobar dalla mostra Paths of Desperate Hope in Perpignan. Migranti afghani che attraversano la giungla. Darién Gap, 2023.

Biografia Federico Rios Escobar

Federico è un fotografo documentarista colombiano che si occupa di questioni sociali in America Latina.

È un fotoreporter ampiamente pubblicato il cui lavoro ha coperto il conflitto armato in Colombia, l’ambiente e il suo rapporto con la società. Le sue prime mostre includono The Signature of Los Rios al Video Guerrilha di San Paolo, Brasile (2013), e Transputamierda al Valongo International Photography Festival di Santos, Brasile (2016). Nel 2017, Federico ha presentato il suo lavoro sulle FARC, il gruppo armato colombiano, al LaGuardia Community College, New York; al festival fotografico di Kaunas, Lituania; e al festival Unseen Amsterdam. Nell’ottobre 2017 ha presentato Transputamierda al Gabo Festival di Medellín e nel 2018 ha tenuto una mostra personale, Venus 41, trochas e incertidumbres, al Museo de Antioquia di Medellín.

La mostra più recente di Federico, Los días póstumos de una guerra sin final, è stata inaugurata alla Bandy Bandy Gallery di Bogotá nel febbraio 2020.

Federico ha vinto premi tra cui il Premio della Giuria al Days Japan (2017), il primo premio nella categoria News Series al POY Latam (2017) e l’Hansel-Mieth-Preiss (2019). Nel 2014 è stato invitato a partecipare all’Eddie Adams Workshop XXVII a Jeffersonville, New York (2014). Photography Violence and Society in Latin America. El Salvador (2012). Ha vinto nel 2022 il Prix Pictet e nel 2023 l’Humanitarian Visa d’Or dell’International Committee of the Red Cross (ICRC).

Nel 2012, il libro fotografico di Federico La ruta del cóndor (La via del condor) è stato pubblicato congiuntamente dall’Universidad Jorge Tadeo Lozano di Bogotá e dall’Universidad de Caldas. L’anno successivo pubblica Fiestas de San Pacho, Quibdó, insieme al collettivo fotografico Mas Uno. Il suo libro fotografico più recente, VERDE, è stato pubblicato da Raya con il photo editor Santiago Escobar-Jaramillo nel 2021. Il suo lavoro è apparso frequentemente sul New York Times e su altri media tra cui Stern, GEO, Time, Paris Match e LFI Magazine. È membro del comitato curatoriale del progetto Instagram @everydaymacondo.

https://www.federicorios.net/.

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