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Les Rencontres d’Arles: la forza e il dubbio

di Tiziana Bonomo

Raccontare Arles in tre giorni e descriverne la magica essenza. 
 

Primo giorno

Alcuni festival racchiudono in sé l’equilibrio degli elementi che ne caratterizzano la forza e il fascino di anno in anno come quello di Arles. Dal nome “Les Rencontres”, alla città, agli spazi, alla qualità e al numero delle mostre – più di 40 – il festival internazionale di Arles contribuisce ogni estate dal 1970 a trasmettere il patrimonio fotografico mondiale e a diventare il crogiolo della creazione contemporanea. Le parole della ministra della cultura francese Rima Abdul Malak ne rivendicano tutto il suo significato: Un festival de photographie aussi emblématique que celui d’Arles, c’est enfin un miroir de la société, des questionnements et des mouvements qui la traversent: dans la diversité des voix et des sujets qu’elle relaie, la programmation 2023 s’en fait le reflet.  La France, pays d’invention de la photographie, a de beaux chantiers devant elle. Croyez bien que le ministère de la Culture y sera, aux côtés des photographes et de toutes celles et ceux qui font le monde de la photographie, pleinement engagé ! (Un festival di fotografia emblematico come quello di Arles è finalmente uno specchio della società, delle domande e dei movimenti che la attraversano: nella diversità di voci e soggetti che trasmette, il programma 2023 va oltre i riflessi. La Francia, paese d’invenzione della fotografia, ha davanti a sé bellissimi progetti. Il Ministero della Cultura sarà al fianco dei fotografi e di tutti coloro che compongono il mondo della fotografia, con grande impegno!) “Ecco allora che, come capita ogni anno, mi perdo nella programmazione e non so da che parte incominciare da vera bulimica della fotografia.

Quest’anno arrivando però nella piazza della République il nome di Saul Leiter mi attira con lo stesso effetto di una mosca sul miele: pittore e fotografo, ambidestro non tiene conto di alcun limite: “spesso le fotografie come momenti importanti ma che a loro volta sono piccoli frammenti di un mondo incompiuto di immagini opposte”. Il bel palazzo dell’Archevêché è la migliore cornice per scoprire per la prima volta le sue immagini in b/n altrettanto affascinanti di quelle a colori allestite insieme ad alcuni suoi dipinti. Ecco allora che il ritratto su “gouache et acquerelle” di Inez del 1970 si affianca a quello fotografico in b/n di sei anni dopo per lasciarci avvolgere dalla magia di una differente ma pur sempre attraente seduzione. Nello stesso spazio si è subito rapiti dal nome femminile di Agnes Varda, un’artista che come Leiter ha saputo coniugare due linguaggi artistici diversi partendo in questo caso dalla fotografia per arrivare alla cinematografia. Un vero piacere quello di andare incontro all’allestimento di “LA POINTE COURTE, DES PHOTOGRAPHIES AU FILM” per un film che da poco avevo avuto occasione di vedere su Mubi. Che meraviglia rivedere a parete le fotografie dei pescatori di Sete, dei giovani attori che interpretano una coppia in crisi, il sovrapporsi di tanti dettagli di quel mondo fatto di mare, danze di paese, delle prime manifeste inquietudine di una coppia matrimoniale. Alcuni frammenti video del film mettono in evidenza la complessa dinamica di quella nuova onda cinematografica che ha poi preso il nome di nouvelle vague. La televisione svizzera RTS mi ha chiesto quale fotografia mi aveva colpito di più e per me è stato spontaneo dire quella di Philipe Noiret come l’icona di un giovane cavaliere della corte di re Artù.

Ad Agnes Varda è stato dedicato un altra esposizione alla Tour del Parc des Ateliers con materiale raccolto all’interno dell’archivio di Hans-Ulrich Obrist con il titolo: “UN JOUR SANS VOIR UN ARBRE EST UN JOUR FOUTU (Un giorno senza vedere un albero è un dannato giorno)”. La mostra mette in luce il ruolo di Varda nel mondo dell’arte, portandoci a vedere ciò che aveva esposto alla sua prima mostra d’arte contemporanea: “les cabanes de cinéma”.Ed è proprio una capanna a forma di serra dove crescono girasoli a dare il benvenuto alla mostra. Questa capanna viene fabbricata con la copia di un film che ha realizzato nel 1964: Le Bonheur (La Felicità). “Per me la nostalgia del cinema a 35 mm si è trasformata in voglia di riciclaggio… Costruisco capanne con le copie abbandonate dei miei film. Abbandonate perché inutilizzabili per la proiezione. Diventate capanne, case favorite del mondo immaginario.” Tutta l’opera di questa grande artista mi procura gioia, sorriso, luce: la sua fervida creatività si trasforma delicatamente in un linguaggio composto di tante parti di quel visivo di cui la fotografia ne fa parte. Come sempre accade nell’arte una parte di noi si proietta in ciò che vede e per me quei girasoli sono i miei figli perché è proprio così che io li chiamo. Ecco che la visione di una mostra si appropria della sensibilità dello spettatore affinché si possa incarnare o rigettare il significato e l’emozione che è in grado di procurare. Non è un caso ciò che lei dichiara: “È la terza capanna che costruisco. Per ognuno dei miei film, immagino una forma particolare. Il film Le Bonheur realizzato nel 1984 raccontava la storia di una coppia felice, interpretata da Jean-Claude Drouot, sua moglie e suoi figli. Amavano i picnic. Avevo girato nella regione dell’Ile-de-France pensando ai pittori impressionisti. Si sentiva un po’ di Mozart. I titoli di coda erano stati girati vicino a un campo di girasoli, questi fiori estivi simboli della felicità.” E poi si viene rapiti da “Patatutopia” che qualcuno con disprezzo ha deriso buttando lì la frase “inguardabile” le patate … ma dai!”. Eppure la prima volta che ho visto le patate di Varda mi sono incuriosita anche per quella sua disinibita capacità di andare in giro travestita da patata. Chi potrebbe mai avvicinarsi ad una verdura così semplice fino ad arrivare al travestimento se non fosse in grado di cogliere l’essenza semplice e naturale di ciò che è vicino a noi? Agnes Varda casualmente durante la sua esplorazione a Beauce si innamorò delle patate a forma di cuore a causa della loro forma atipica fino a diventare un’ossessione. Nel 1953 la prima fotografia e nel 2003 il film “Les Glaneurs (le spigolatrici) et la Glaneuse e Patatutopia”.Quand on film des moments de vie qu’on ne comprend pas on apprend à sentir des émotions que l’on ne comprend pas. L’emotion est intelligence – Quando filmiamo momenti della vita che non capiamo, impariamo a provare emozioni che non capiamo. L’emozione è intelligenza.” Agnes Varda.Nel percorso da uno spazio all’altro scopro il programma di BMW ART MAKERS  che consente alla coppia di artista e curatore Eva Nielsen e Marianne Derrien di produrre un lavoro sperimentale “Insolare” che esplora i fenomeni climatici e geologici legati all’insolazione. Ecco un primo lavoro di ricerca sperimentale non facile da comunicare.

Ciò che colpisce fino a questo punto è la qualità degli allestimenti: preziosa, curata, innovata, composta da immagini, video, installazioni. Un vero piacere per gli occhi!

Ci si imbatte ancora in una mostra di un cineasta come Wim Wenders in una esposizione che volutamente vuole mettere in evidenza come l’arte visiva confluisce in un unico linguaggio che utilizza strumenti diversi: cinepresa, macchina fotografica, cellulare. Ecco allora lui stesso dichiara “Nel 1976 ho girato L’Ami Americain ad Amburgo con Bruno Ganz e Denis Hopper. Le polaroids erano allora l’equivalente delle foto istantanee che si realizzano oggi con gli smartphones.” Forse la qualità di alcune polaroids in esposizione non sempre è eccellente come quelle che hanno reso famoso Wenders ma venire accolti da grandi schermi con il volto di Denis Hopper, ascoltare pezzi di film e venire rapiti dalle foto di attori e pezzi di shooting …. un privilegio essere qui, ad Arles, in questo festival della fotografia!

La giornata fugge via rapidamente riuscendo ancora a guardare l’esposizione di “Casa Susanna” una serie, forse un pò esageratamente ripetitiva di 350 fotografie degli anni ’50 e ’60 scoperte nel 2004 da due antiquari in un mercatino delle pulci a New York. La singolarità di questo progetto è dovuta al fatto che gli uomini che compaiono nelle immagini sono travestiti da donne e che la loro identità femminile è quella della casalinga “rispettabile”, della ragazza della porta accanto o della dama borghese. Dietro queste fotografie si nasconde, in realtà, una vasta rete sotterranea di uomini travestiti. Sono sposati, buoni padri della borghesia bianca americana, sono ingegneri, piloti di linea o funzionari delle agenzie federali. Incarnano il sogno americano. E il suo incubo. Perché l’America di quegli anni era anche quella della segregazione, razziale, sessuale o politica. È veramente la forza della fotografia che fa capire nei ritratti il desiderio incontenibile di essere “donna” e di rappresentare la “donna” nella sua versione femminile più quotidiana, il desiderio di vivere una sessualità che viene sentita primaria, naturale senza scadere in pornografia. Stupore per venire a conoscenza di questa comunità, un senso anche di tenerezza avvolto da un velo di tristezza al pensiero di quanto sia stato faticoso vivere due vite distinte per esprimere la mascolinità riconosciuta allora e l’essenza vera della propria femminilità.  

 

Secondo giorno

Si deve arrivare con anticipo per evitare la coda al Parc des Ateliers presso la fondazione Luma/Maja Hoffmann per la mostra “Constellation di Diane Arbus”. Adoro Diane Arbus e la mostra del 2011/2012 al Jeu de Paume di Parigi con circa 250 fotografie è stata una rivelazione.

Le foto sono tutte intrise dell’anima della Arbus: affaticata, inquieta, indomita, soffocata, realista. Una stella nella costellazione della fotografia alcune volte luminosa altre nebulosa. Eppure le anime doloranti con le loro vite tormentate difficili colgono nei loro scatti l’anima di chi hanno di fronte e ci fanno percepire dimensioni inesplorate con la loro poetica e con la loro umiltà. La mostra ad Arles rispetto a quella di Parigi risente di quel peccato figlio del marketing obbligato a trovare soluzioni al limite del possibile. Infatti è impossibile guardare 455 fotografie sparse in strutture simile a grate che punzellano il pavimento di uno spazio di oltre 300 mq senza smarrirsi, senza farsi venire il torcicollo e senza capirne il senso. Anche il nome è un’invenzione marketing “costellazioni” per assemblare nelle griglie foto diverse: nr. 8, nr 350, nr 206, nr 78. E così via a leggere compulsivamente nel prezioso manuale il testo della didascalia.Cara Diane nella mostra a Parigi forse più tradizionale, forse più stereotipata ho avuto il tempo, guardando in sequenza una foto dopo l’altra, di assorbire il tuo sguardo, di sentire le tue vibrazioni e arrivata alla fine leggendo della tua vita e del tuo suicidio sono crollata in un disperato pianto. Oggi che si celebra il centenario della tua nascita a New York ritorna quel groppo in gola pensando alla tua vita faticosa e a quanto ci hai lasciato da guardare, riguardare ancora e ancora. Il mio sentimento profondo per la tua fotografia rimane quello della commozione, forse della mia fragilità.Rimanendo nei grandi nomi proseguo verso Gregory Crewdson. Nonostante avessi già visto le sue foto nella apprezzatissima mostra alle Gallerie d’Italia a Torino ho voluto riprendere alcune immagini che come sempre quando le mostre sono così vaste si faticano un pò a vedere bene in profondità ….almeno con il mio tempo lento!

La trilogia di Crewdson si compone dell’ultimo lavoro Eveningside realizzato durante la pandemia nel 2021/2022 esposto insieme a Cathedral of the Pines e a An Eclipse of Months. I luoghi sono i tanti “non luoghi” in Massachusetts, a Pittsfield, a Becket. I titoli racchiudono parte di quello che si vede nelle grandi fotografie a ricordare quasi gli schermi dei grandi televisori con immagini serali, di falene, di pini. Crewdson ci accompagna nelle sue immagini da film in luoghi desolati, in spazi senza vita con personaggi manichini senza anima, con strade colori al limite del reale. Gioca con la luce che qui ad Arles emerge in tutta la sua potenza: un mago sapiente, colto che sembra avere in mano la bacchetta della luce che distribuisce con grande meticolosità sulla sua scenografia. Ecco allora che nella foto di Mother and Daughter della serie Cathedral of the Pines del 2014 ogni elemento dentro all’immagine: la pelle, la neve, i vetri delle finestre, il colore del sole all’alba, la moquette della stanza, la lampada sul comodino, il divano…ogni elemento ha la perfetta dose di luce che rappresenta, per me, l’essenza della visione dell’autore. È con quella indefinibile luce di Redemption Center che Crewdson “inaugura una serie fotografica che contemporaneamente potrebbe riproporsi in un loop eterno” come i nostri incubi o i nostri sogni. Ed è a fianco alla mostra di Crewdson che scopro quella di Rosangela Renno “Sur les ruines de la photographie” vincitrice del premio dedicato a “Women in motion” del 2023.Ci accoglie una frase di Roland Barthes: “la fotografia come un organismo vivente nasce proprio come i chicchi d’argento che germinano, si diffonde per un po’, poi invecchia. Attaccata dalla luce, dall’umidità impallidisce, svanisce, scompare…”.ll lavoro di questa artista brasiliana consiste essenzialmente in immagini fotografiche provenienti da archivi pubblici e privati che mettono in discussione la natura di un’immagine e il suo valore simbolico. Le fotografie tornano dal passato, rovinate, indebolite, perché la loro vita non è mai completamente ripristinata; testimoni emaciati, attendono un futuro inesistente e segnalano un passato interminabile. Nel lavoro della fotografa brasiliana individui, popoli, religioni, riti, parole, libri, memorie, monumenti, tutto è sparito…Ecco allora che il significato di Barthes prende corpo seppur la memoria con o senza immagini trattiene il passato ed è ciò che rende valore alla Storia.La sete di immagini e la sete di acqua mi porta verso la famosa libreria Actes Sud: un polo di attrazione irresistibile per il ventaglio editoriale che propone e per le interessanti mostre e per avere a fianco un ottimo ristoro dal sapore marocchino. Ebbene camminando lungo il Rodano mi imbatto in una grande insegna della Fondazione VII che attraverso la sua ala educativa la VII Academy promuove, insegna e incoraggia il giornalismo di alta qualità. Insegnano online e di persona nei due campus ad Arles e a Sarajevo. Il titolo VEDERE ATTRAVERSO IL RUMORE mi sembra appropriato per l’intenzione di mostrare il duro lavoro dei loro fotoreporter.

Merita un breve cenno riportato nel loro pannello di ingresso:” La nascita di VII avviene all’alba dell’era digitale l’8 settembre 2001. Tre giorni dopo, Al Qaeda attacca gli Stati Uniti. Nei mesi successivi, mentre la polvere infuocata delle Torri gemelle ancora soffocava New York, tutti e sette i membri di VII documentarono le violenze che seguirono. Negli anni successivi, mentre si scriveva la narrazione del nuovo secolo, hanno fotografato l’invasione e l’occupazione dell’Iraq, le guerre in Medio Oriente e il caos che ha soffocato un mondo ingiusto. Il nome VII è diventato sinonimo di un fotogiornalismo coraggioso e di grande impatto. VIl è stato creato per dare indipendenza ai suoi membri e migliorare la loro capacità di lavorare su storie importanti in collaborazione con la stampa leader a livello mondiale….”. Tanti i lavori esposti e con foto di elevato impatto ma due ci tengo a ricordare: Alexandra Boulat (1962/2007) che con i suoi amici John Stanmeyer e Gary Knight, è stata una delle prime forze trainanti dietro la creazione dell’agenzia. Nata in una illustre famiglia di fotografi, era un’artista prima di scegliere di lavorare come fotoreporter e fotografa di guerra. È stata una delle fotografe più influenti a documentare le guerre nei Balcani affermando: “puoi mostrare una guerra senza far vedere una pistola”. Alla sua prematura morte nel 2007 è stata insignita come Cavaliere nell’ordine delle Arti e delle Lettere di Francia. Tanti i racconti e le immagini incisive ed efficaci che si susseguono lungo i muri seppur quello di Lesbos di Maciek Nabrdal mi procura uno strano turbamento. Maciek un fotoreporter polacco del 1980 ha iniziato molto giovane a collaborare con l’agenzia VII, grazie alla sua base a Varsavia, a documentare i cambiamenti sociologici, politici a culturali dell’Est Europa. È la foto grande in bianco e nero che mi trattiene lo sguardo: quella dei rifugiati siriani sulla costa dell’isola greca di Lesbo. È semplicemente bella. I soggetti sono giovani, belli, vestiti come studenti europei con giacche in pelle e jeans che segnano i loro asciutti fisici. La ragazza con un biberon in mano ha una sciarpa intorno alla testa vicino al ragazzo che fuma nervosamente e al giovane con il capo inclinato mi fanno pensare che loro, che i giovani del mondo, sono il nostro futuro. Sono le nuvole basse che sembrano voler fermare l’incedere del loro futuro così come il sole che nella foto fatica a dare con la sua luce la fiducia nell’avvenire.

Esco con un ronzio di immagini nella testa, di pensieri, con il cuore che batte forte per quanto questa meravigliosa arte riesce ad insegnarmi. Proseguo nella strada che mi porta  alla chiesa Des Fréres Prècheurs  per vedere le immagini dei vincitori del premio offerto dalla Fondazione Louis Roederer. Mi sorprende quel fil rouge, di alcuni lavori esposti, di attingere alla memoria e restituire con l’immagine una sorta di fisicità a conferma della propria esistenza, educazione e cultura.  Non a caso il titolo è DÉFINITIONS EN MOUVEMENT INVITATION A VOIR DE NOUVEAU.

In un’altra chiesa Èglise des Trinitaires ritrovo un omaggio ad un’artista polacca Zofia Kulik che svolge un lavoro complesso, creativo, ricco di significati e simbologie. LA SPLENDEUR DE L’ARTISANE non potrebbe esprimere meglio quanto afferma l’artista: “penso che uno dei più grandi valori del mio lavoro risiede nella mia capacità di organizzare strutture visive composite. Tutto il mio approccio si basa su un’attività permanente di raccolta e archiviazione di immagini del mondo che mi circonda”.

Nascono così composizioni fotografiche complesse, multidimensionali ed estremamente dettagliate che portano a mondi lontani e alla ricerca di un’arte fatta di pazienza, cura e beltà.

Per ritornare al concetto di memoria un’altra polacca, casualmente, mi ha conquisto: Maciejka Art vincitrice del Luma Rencontres Dummy Book 2022 che vive e lavora in Messico con il suo progetto FOGLIA SACRA. Lei ha scoperto una comunità di donne che vive in una regione difficile e isolata del Messico, e ha scoperto nuove tradizioni incontrando guaritrici e ostetriche che le hanno ricordato l’importanza del ciclo della vita, ma anche amanti, donne abbandonate e vedove. “Come nel libro La linea d’ombra di Joseph Conrad, è stato per me un viaggio, avanti e indietro, verso l’origine: l’utero. L’ho collegato alla mia vita, alle relazioni tra le donne e la sofferenza, così come le caratteristiche del femminismo e dell’orgoglio. Ogni donna incontrata ha fatto parte di questo viaggio. Questa esplorazione mi ha ricordato la mia infanzia in Polonia, con mia madre, e il complesso rapporto madre-figlia. Ho usato diversi tipi di collage e fotografie dipinte per descrivere quell’energia che sentivo ma che era difficile fare solo con la fotografia.”

Il risultato è catalizzante per quello sguardo sensuale intriso di ricordo ma anche di fascinazione verso i luoghi, i colori e soprattutto verso le donne. Verso quella complessità e conflittualità sentita sulla pelle, nella mente e nello stomaco prima come figlia e poi come madre.

Terzo giorno

Parto sempre con piacere per l’Abbazia di Montmajour un luogo che mi piace sa di sud di storia e poi è bellissima. Ogni anno una mostra notevole come quella di quest’anno 50 ANS, DANS L’OEIL DE LIBE co-prodotta insieme a Libération.

Eh sì quest’anno Libération compie 50 anni. Da cinquant’anni il giornale accompagna e cambia il suo tempo. Il Larzac, l’elezione di Mitterrand, la Marca, la guerra in Cecenia, Metaleurop, i gilet gialli, l’Ucraina… A Libé, il mondo si racconta anche in immagini. Le fotografie esposte sono state commissionate o pubblicate da Libération, dalla nascita del giornale nel 1973. Sono state scelte in archivi ricchi di immagini sia analogiche sia digitali. Ci fanno vivere, o rivivere, mezzo secolo di storia immediata, di passioni esagonali, di conflitti, di conquiste politiche… Una passeggiata nella storia, suddivisa in cinque decenni dal 1973 al 2023, raccontata attraverso l’occhio di Libé. Lo stile del giornale si è modellato grazie a Christian Caujolle che dagli anni ’80, aveva una sola parola d’ordine: rompere i codici. Usare i fotografi contro-lavoro, mostrare un altro sguardo, una scrittura singolare. Il giornale è fin dai suoi inizi un vero e proprio terreno di sperimentazione, «Un territorio immenso, in perpetua estensione» scrive Serge July. In tutto, Centinaia e centinaia di fotografi hanno collaborato con Libé. I più grandi nomi della fotografia come Henri Cartier-Bresson, Raymond Depardon, Françoise Huguier o William Klein, ai collettivi più recenti, passando per i compagni di viaggio del giornale; essi hanno plasmato una certa idea della fotografia di stampa. E mi prende un groppo in gola vedere la foto di James Nachtwey scattata in Somalia di una donna che porta il suo bambino morto e avvolto nel lenzuolo secondo la tradizione musulmana a causa della carestia, della fame. La foto vincerà il World Press Photo nel 1993.

La giornata è per me dedicata a scoprire la fotografia che fa informazione e dopo una estenuante ricerca mi appare improvvisamente davanti la scritta MYOP Manifeste Amnesty International x Myop in un hotel dal sapore vintage.

Questo luogo è stato pensato per il festival come luogo di dialogo con dei fotoreporter che condividono la stessa visione etica, politica e poetica del mondo. Si affacciano allo sguardo i ritratti di persone “anonime” che si sono battute per i diritti della società e in un modo o nell’altro ne hanno pagato le conseguenze e poi i racconti di Cinq Visage de la Jeunesse: sono giovani tra i 18 e 28 anni di età della Russia, Turchia, Germania, Israele, Ruanda che si battono per un mondo migliore. E lì dentro ritrovo la mia convinzione che “questi giovani sono il nostro futuro e la loro voce merita di essere compresa”.

Concludo in bellezza con la mostra “PORTRAITS” della collezione Damien Bachelot al Musee Réattu. Con quasi mille opere, la collezione Florence e Damien Bachelot, profondamente legata alla qualità e al valore storico delle stampe, è radicata nella fotografia umanistica, documentaristica e sociale dell’inizio del XX secolo ai nostri giorni.

Una collezione di pregio, ricercata e curata con passione. In questa splendida galleria di ritratti spicca la foto di Ivo Saglietti che come giusto che sia è stato inserito inserito a fianco ai grandi noti reporter del mondo – come Boubat, Lartigue, Leiter – con uno scatto realizzato a Cuba nel 1993 nel progetto intitolato Alla ricerca di Mr. Evans. Ha scelto bene il collezionista Damien Bachelot acquisendo una tiratura vintage di Saglietti che su quel progetto scrisse: “Queste fotografie, rimaste nascoste o dimenticate nel mio archivio fino ad oggi, sono il risultato di quel pellegrinaggio. Nel 1993 ebbi un incarico a Cuba per le celebrazioni del 26 di luglio, data dell’assalto al Moncada. …Sarà l’ultima commemorazione…mormoravano gli ambienti ben informati, avrei potuto fotografarne altre 14. Portai con me due libri: Siglos de las Luces di Alejo Carpentier e Havana 1933 di Walker Evans. Terminato il lavoro sulla manifestazione, decisi di visitare, La Havana, 60 anni dopo, alla ricerca dei luoghi e delle immagini di Walker Evans.”  Una pennellata di delicatezza, di umanità – che in questa età dove il dubbio è diventato un perenne malessere – conferma la sua esistenza.

Una bella conclusione di festival! Il suggerimento è quello di andare sul sito del festival e scaricare il programma perché sono di più le mostre che ho visitato, gli incontri che ho fatto, le serate ascoltando musica e guardando fotografia e le sieste che mi sono concessa in questa esclusiva atmosfera arleiana. E poi il mio bravissimo amico Eros Mauroner che mi ha immortalato con il suo banco ottico …. in posa da modella! Inimmaginabile quanto Arles mi strugge e mi mette di buon umore!!  Il rammarico di non aver comunque visto tanto altro che avrei voluto di questo linguaggio che vedo con gli occhi ma che sento con la mente, lo stomaco e soprattutto il cuore.

 

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