“Kodachrome” il film e la storia vera.
Qualche giorno fa ho rivisto un film che mi aveva colpito molto, mi ha fatto pensare alla velocità con cui viviamo oggi e l’ho paragonata a quel tempo in cui si sviluppavano i rullini portandoli nei laboratori e bisognava attendere, a volte qualche ora, a volte qualche giorno ma anche qualche settimana se si era in possesso di pellicole Kodachrome. Quella dovuta attesa era tremenda e allo stesso tempo affascinante. La pellicola Kodachrome aveva una qualità altissima e aveva un suo tempo particolare, bisognava infatti spedirla per poter avere le diapositive, solo alcuni laboratori erano adibiti al suo sviluppo, ci voleva una apparecchiatura chiamata K-14.

Dal 1935 la Kodachrome ha fatto la storia della fotografia: utilizzata dai più grandi fotografi, specie quelli naturalisti, per l’altissima qualità dei dettagli e dei colori che nessun processo digitale fotografico è finora riuscito a uguagliare. E’ stata anche la prima pellicola a colori destinata al grande pubblico, quella che ha chiuso l’epoca delle stampe in bianco e nero per le foto personali e di famiglia.
“Kodachrome non è stata solo una pellicola, ma una vera icona di un’epoca: la prima pellicola a colori accessibile a tutti», ha detto Todd Gustavson, del museo della fotografia George Eastman House di Rocherster, la cui sede si trova nell’ex abitazione del fondatore della Kodak. Quando hanno deciso di chiudere hanno dichiarato che l’ultimo rullino a essere processato doveva essere quello di Dwayne Steinle, il proprietario e fondatore del laboratorio fotografico di Parsons: l’ultima foto Kodachrome sarà una immagine di gruppo di tutto lo staff davanti all’ingresso del suo negozio.

Dopo quell’annuncio è successo di tutto, decine di fotografi e migliaia di rullini sono arrivati in questo sperduto angolo della prateria americana non lontano dal confine con l’Oklahoma. Uno di questi era Jim DeNike, 53 anni, un ferroviere che ha pagato 15.798 dollari per far sviluppare 1.580 rullini per un totale di quasi 50 mila diapositive, tutte di treni che aveva scattato ma mai sviluppato. Pochi minuti dopo si è presentato un’artista londinese, Aliceson Carter, 42 anni, che ha preso un volo dall’Inghilterra e poi un’auto a nolo dall’aeroporto di Wichita per far sviluppare tre rullini e poi per comprarne altri 5 per fotografare i dintorni prima di assistere allo spegnimento della K-14.
Eastman Kodak concesse a Steve McCurry l’onore di utilizzare l’ultimo caricatore di pellicola Kodachrome prodotto anch’esso sviluppato nell’ultimo laboratorio a Dwayne’s Photo. McCurry dichiarò: “E’ stata una pellicola meravigliosa!”.
(Anche la sua fotografia più nota, quella della Ragazza afgana, venne prodotta su Kodachrome)

Vi stavo raccontando del film, se non l’avete visto cercatelo e guardatelo.
Nel 2017 esce nella sale cinematografiche un film che ha destato interesse ai moltissimi fotografi un po’ âgé.
La pellicola è diretta dal regista canadese Mark Raso, ed interpretato da un cast d’eccezione formato da Ed Harris, Jason Sudeikis e Elizabeh Olsen.
Il film Kodachrome prende liberamente spunto da un articolo del New York Times dove si racconta quello che ho descritto poc’anzi, il clamoroso pellegrinaggio di numerosi appassionati della gloriosa pellicola Kodachrome verso l’ultimo centro Kodak ancora in grado di svilupparla e che chiuderà definitivamente.
Ben (Ed Harris), un fotografo di fama mondiale, è malato terminale. Prima di morire, vuole guidare da New York a Parsons, Kansas, per sviluppare vecchi rullini di pellicole Kodachrome che conserva da anni. Ad accompagnarlo ci sono la sua infermiera Zoe (Elizabeth Olsen) e suo figlio Matt (Jason Sudeikis), che con riluttanza accetta di unirsi e lo fa solo perché vuole incontrare una band a Chicago e convincerli a firmare con la sua etichetta.
Ognuno dei tre ha i suoi demoni. Ben è un uomo rude che si rende egoisticamente saccente e insopportabile, Matt è divorziato e vagamente disfunzionale, anche Zoe è divorziata e spersa nelle scelte di vita. Ma sono tutti insieme per scelta, quindi forse ci stanno ancora provando a trovare una qualche sorta di equilibrio.
I dialoghi che si intercalano sono spessi, a volte sarcastici, altre volte crudi, gli autori hanno fatto davvero un bel lavoro e il merito infatti va sia agli attori che agli sceneggiatori, hanno reso reali e vissuti i personaggi e le loro relazioni. La tensione e l’astio, che arriva dal passato, tra padre e figlio, si manifestano quasi immediatamente. Il loro dialogo è tagliente e la crudeltà delle frecciate che si scambiano mantiene l’attenzione fino alla fine.
Zoe interpreta il ruolo della coscienza, facendo del suo meglio per aiutare questi due personaggi testardi a risolvere le loro divergenze prima che sia troppo tardi. L’ostilità tra Matt e Ben è sincera, così come il desiderio di connettersi, di trovare un aggancio che riporti il rispetto per le reciproche vite nonostante ciò che è accaduto in passato.
Il film offre alcuni messaggi contrastanti sul lasciar andare il passato, con passato rancoroso che perseguita in qualche modo ciascuno dei personaggi principali. Un monologo cruciale li spinge ad andare avanti, eppure stanno guidando attraverso il paese per sviluppare vecchie pellicole e conservare vecchie foto.
Qualcosa bisogna lasciare andare e qualcosa occorre trattenere, ma con delicatezza e rispetto, senza ossessione.
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Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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