<<La visione fotografica è pura espressione di un esatto momento, un esatto istante di una percezione assolutamente intima che riapre nel nostro io i più sommersi cassetti della memoria, dove le migliaia di informazioni genetiche di quei ricordi atavici sono tramandati dalle voci, dai suoni e dagli odori che l’uomo ha registrato dentro sé in millenni di evoluzione>>.
<<Appartengo alla terra come infinitesimale parte di sé; in me vi è questa esigenza naturale di ritrovare il legame arcaico con essa, con gli elementi che ne hanno fatto un’eccezione nell’universo conosciuto>>.
Questa citazione, che avete appena letto, non arriva da nessun romanzo ma semplicemente dalla mia personale esperienza di vita che si è legata in modo indivisibile alla mia fotografia o meglio al mio genere fotografico: “la fotografia in natura”. Non parlo da naturalista, non lo sono; pian piano ho fatto un discernimento di genere eliminando dalla mia ricerca espressiva e personale le immagini di valore documentativo, se non strettamente legate ad incarichi professionali. Più semplicemente, ho deciso di investire sulla particolare ricerca degli elementi più cari a noi fotografi, cioè “il giusto soggetto, sotto la giusta luce” che, per quanto banale possa sembrare, in ambienti naturali non sempre è così ovvio o scontato.
La definizione di fotografia naturalistica è una cosa molto generica, mentre fotografare in natura, per quanto simile e i confini spesso si aggrovigliano tra loro, non ha assolutamente lo stesso valore. Dopo un paio di decenni di esperienza sono arrivato a questo genere di concetto ben chiaro di fotografia.

“Resilienza”, la fotografia di apertura della mia mostra “Respiro”, è una raccolta fotografica nata dagli scatti ottenuti in momenti ambientali molto particolari, al limite del rischio.
Cerco il momento unico e irripetibile. Per fare questa fotografia ho rischiato che le saette di Zeus mi facessero saltare in piedi dalla postazione, che avevo sistemato, in prossimità degli argini della zona paludosa dell’oasi, per fotografare degli aironi.
Cercavo “la non luce, il colore e il monocromatismo e poi uno spot, insomma un bel caos, ma nella mia testa c’era, dovevo solo scovarla”. L’ho inseguita per anni in questo luogo, non riuscivamo ad incontraci, arrivavo o un attimo dopo o nel momento non perfetto.
Ho iniziato a sperimentare orari impossibili e lontani per questo genere. Alzatacce alla 02:00 di notte per essere appostato in quello che credevo fosse il posto giusto per fotografare i miei soggetti praticamente nella totale oscurità; spesso al freddo umido che impregnava ogni parte di me e metteva a dura prova anche le attrezzature più tropicalizzate.

Credo che io non possa svelarvi nessun segreto perché semplicemente non ce ne sono.
Ma posso dire che in ogni fotografo che ha voglia di crescere ci sarà prima o poi il momento magico, che non sarà nella singola fotografia con cui inizierà a raccontare se stesso e il mondo che lo circonda, ma nella nuova consapevolezza di un modo di diverso di percepire spazio luci e ombre, un connubio che sarà la fusione totale di quello che siamo nel nostro vissuto con la tecnica acquisita, lo studio e la tenacia nello sperimentare e spingersi oltre.

C’è stato un momento in cui ho pensato: una “Macchina del tempo”; questa mi servirebbe forse per rivivere le emozioni di quei momenti, che sono andati in uno di quei cassetti della memoria e lasciati lì fin quando non è capitato quell’istante, quel preciso momento in cui tutto ritorna in modo misterioso.
Ed ecco qua la mia storia impressa, scritta tramite la luce, a raccontare quella sensazione per donarla a chi la guarda, a chi cerca forse di cogliere il motivo e il perché è stato quel paesaggio o quel soggetto ad attrarmi.

Vi lascio con questa danza di una garzetta; è stata la mia prima fotografia in natura, non sarà tecnicamente perfetta, non composta come dovrebbe esserlo ma leggo in questo scatto immaturo il mio passato, nello spazio dietro il battito d’ali nella sua danza il centro di una visione inconsapevole e nel poco spazio anteriore il futuro che cercavo in “Resilienza…”
Buona luce ad ognuno di voi.
Michelangelo

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Michelangelo Serra

Parlare di sé può a volte far scoprire cose che non si conoscevano prima.
Parlare di sé è molto difficile, soprattutto se tra le tante scelte di vita, si preferisce quella del mondo visionario della fotografia.
Questo mio mondo visivo è come un torrente, che a seconda delle stagioni, segue ora il suo corso naturale, ora straripa con forza, segnato da eventi improvvisi.
Questa visione è spesso latente come in una vecchia camera oscura.
Dopo un po’ di tempo però, ecco che la fievole luce di sicurezza abitua l’occhio all’oscurità e alla penombra; è il momento magico in cui, nel più privato e recondito degli angoli della propria anima il respiro riemerge e assieme ad esso, prendono forme e colori quelle visioni che restano indelebili al di sopra d’ogni cosa.
La visione fotografica è pura espressione di un esatto momento, un esatto istante di una percezione assolutamente intima che riapre nel nostro io i più sommersi cassetti della memoria, dove le migliaia di informazioni genetiche di quei ricordi atavici sono tramandati dalle voci, dai suoni e dagli odori che l’uomo ha registrato dentro sé in millenni di evoluzione.
Appartengo alla terra come infinitesimale parte di sé; in me vi è questa esigenza naturale di ritrovare il legame arcaico con essa, con gli elementi che ne hanno fatto un’eccezione nell’universo conosciuto.
È quindi assai difficile per me scindere quel che sono da quella che è la visione di un “Fotografo in prestito alla Natura”.
Ecco la mia visione, le mie sensazioni, la ricerca, quel raccontare che è penetrante nella mia anima.
Il “respiro” dei miei soggetti e luoghi è stato il primo elemento in natura a suggestionare la mia mente e ad impregnarla, forse ciò dovuto al fatto di aver camminato da piccolo tra le sue particelle, cercando una qualche sensazione di imprevedibilità, identificandola con la bruma su cui i Popoli antichi hanno raccontato mille leggende di improbabili creature, o di luoghi aurei in essa nascosti. Nulla di tutto ciò cerco se non la sua magia e la sua capacità di dematerializzare soggetti e paesaggio e renderli evanescenti.
La natura è onnisciente poiché sa raccontarsi in modo etereo ai miei occhi e al mio pensiero.
C’è stato un momento in cui ho pensato: una “Macchina del tempo”; questa mi servirebbe forse per rivivere le emozioni di quei momenti, che sono andati in uno di quei cassetti della memoria e lasciati lì fin quando non è capitato quell’istante quel preciso momento in cui tutto ritorna in modo misterioso. Ed ecco qua la mia storia impressa, scritta tramite la luce a raccontare quella sensazione, per donarla a te che la guardi, che cerchi forse di coglierne il motivo e il perché è stato quel paesaggio o quel soggetto ad attrarmi.
Spesso neanche io so perché la mia macchina del tempo mi porta là; ma è così, vivo con essa da troppo tempo per non ascoltarla, in quanto ogni volta il suo salto temporale è emozionante e vivo e sento scorrere una energia unica in essa.
Ti lascio libero alle tue sensazioni; non devo dirti nulla di più per spiegarti e guidarti dove vorrei se non che ogni fotografia è parte di quello che sono.
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