Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello:
tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia.
Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito.
Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco…
Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra.
L’ombra della forca lo copriva… I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole.
I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
– Viva la libertà! – gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva.
– Dov’è il Buon Dio? Dov’e? – domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava…
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra.
Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…
Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi.
E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti.
La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare:
– Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca… Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere »1.Elie Wiesel (superstite dei campi di concentramento di Auschwitz, Buchenwald, Buna)
I. Sulla fotografia dei passatori di confine
Darei tutte le fotografie della Magnum, World Press Photo, Pulitzer Prize for Feature Photography o iPhone Photography Awards per salvare davvero una lucciola o un bambino che muore sotto le “bombe intelligenti” della civiltà dello spettacolo… quando il rispetto della verità raggiunge il tragico trova nell’irrealtà i segreti della realtà… ogni fotografia presuppone un giudizio di valore, un’interpretazione della bellezza violata… si dovrebbe farne un uso poetico della fotografia, non una “bellezza” mercatale: è tipico dei fotografi mediocri abusarne. Per noi è incomprensibile che si possa desiderare di avere discepoli in fotografia e dappertutto… in ogni forma di comunicazione, gli euforici, gli ottimisti, i credenti a tutto danno segnali di squilibri mentali, come d’altronde i “maestri” malati di protagonismo… la caratteristica di “colui che insegna” è quella di riscuotere un’approvazione unanime… e questo vale per gli artisti, i politici, i bottegai di successo… la feccia dell’impero mercatale tiene tutti a libro paga… anche gli “arrabbiati del momento”, basta che non facciano sul serio. La storia della fotografia è la negazione della fotografia… non c’è cazzo che tenga!… è un lungo esercizio del disprezzo verso la dignità che non chiede spiegazioni… le grida degli ultimi ci sopravvivono e senza la sofferenza o una visione di confine, tutta la fotografia non è altro che una buffonata. Un solo bambino che non muore affogato nel Mediterraneo, vale più di tutti saperi prezzolati dei governi! Un fotografo compreso è un fotografo sopravvalutato.
Ci sono tuttavia dei passatori di confine, più o meno ricordati a margine del fattualità fotografica, che hanno lavorato a una geografia dell’umano e lasciato nelle loro opere l’impossibilità di dimenticare… i fotografi che non arrossiscono dei codici, linguaggi, fascinazioni dell’industria culturale sono irrevocabilmente condannati alla bassezza (che è il gusto predominante della volgarità omologata). La fotografia del dispendio esprime un linguaggio/immagine che fracassa i luoghi comuni e porta ai “ferri corti” con l’esistente: “Le tigri della collera sono più sagge dei cavalli dell’intelligenza” (William Blake, diceva). La fotografia consiste nel fare apologie del mercato o generare eresie nell’uniformità… si tratta di conciliare il risentimento con la grazia, screditare tutte le imposture dell’ordine istituito, costruire fasi di passaggio tra la resurrezione dei corpi e la fondata lucidità di abbandonare ogni modello… studiare altre possibilità di fare a pezzi l’intolleranza verniciata di “buoni sentimenti”: le persone più interessanti e le più vere che abbiamo mai incontrato, riuscivano malapena a leggere o scrivere, ma sapevano che il profumo del gelsomino può influire sul mutamento delle costellazioni.
Ci sono autori che hanno fatto della fotografia di confine il portolano dell’umiliazione incatenata e non hanno mai recitato il ruolo di “geni incompresi”, né mai dato nessun credito a elogi o denari elargiti con la frusta del padrone… hanno piantato le loro immagini nel cuore dell’esistenza e mostrato che la fierezza, la dignità, l’orgoglio non hanno mai marciato dietro una bandiera o un dio o un governo… alcuni (come Wilhelm Brasse) hanno mostrato l’inferno della Shoah (dall’interno) e portato alla conoscenza di tutti, compreso gli ingenui dei corsi di fotografia, l’infamia dei tiranni! Fucilare le idee, fino allo sterminio con le camere a gas, è sempre stato un esercizio caro ad ogni potere… nemmeno le chiese monoteiste hanno raggiunto la barbarie del nazismo o del “comunismo”… i fanatici del terrore hanno fatto dell’obbedienza l’apice della vigliaccheria… soltanto chi puzza di una qualsiasi fede ha la tara dell’imbecille e mentre uccide si accompagna a un Dio da qualche parte! Ancora: il colonialista s’è accorto dello schiavo quando lo schiavo gli ha tagliato la gola e ha detto: fine della secolarizzazione delle lacrime.
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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