- Sulla fotografia della vita quotidiana
Tenera è la fotografa… quando incita gli uomini della terra a ribellarsi contro un sistema che ogni giorno offende la dignità… lo sguardo autentico della fotografia sorge ancora dove la vita quotidiana è trattata con amore, compassione e il coraggio necessario per congedarsi dal feudalesimo culturale e le forze finanziare che lo sostengono… spesso storici, critici, galleristi si avvedono trent’anni dopo della grandezza poetica di un fotografo e cercano di imbalsamarlo nel catramaio mercantile… i poeti di ogni arte, tuttavia, sanno che il pane si spezza, non si taglia!… ed è per questo che la loro creatività s’ispira al vissuto, al sogno e alla disinvoltura… come l’immensa opera di Vivian Maier. Il fatto è che, in fondo, le sue immagini (come per i grandi corsari della fotografia) rimangono sempre da qualche parte nell’infanzia dove hanno giocato con spade di legno e lì ritornano e contengono il sale del vero e d’eternità.
Un’annotazione necessaria per i saccenti e i prosseneti dei dizionari: Vivian Maier nasce nel 1926 a New York, cresce in Francia e dopo il ritorno negli Stati Uniti lavora come bambinaia per quasi quaranta anni a Chicago. Si sa poco di lei… nulla del suo percorso di studi… impara la lingua a teatro… fino al 2007 il suo lavoro fotografico resta sconosciuto… ciò che sappiamo è che nel 2007, all’età di 81 anni, non potendo sopravvivere fu costretta a cedere la maggior parte delle sue proprietà a un fondo d’asta. Questa “dilettante” della fotografia di strada, lascia a un “rigattiere” circa centomila fotografie (mai pubblicate né viste)… nel 2009 un ragazzo ventiseienne, agente immobiliare, John Maloof, incuriosito da quelle scatole piene di migliaia e migliaia di fotografie ne compra circa trentamila e si accorge presto di essere di fronte a un talento innato, così contatta altri compratori delle immagini e mette insieme l’intera l’opera della fotografa (negativi, stampe, filmati, cassette d’interviste audio, macchine fotografiche, documenti appartenuti alla Maier)…. sborsa meno di 400 dollari per il patrimonio fotografico della Maier… cerca informazioni su questa misteriosa fotografa… tutto ciò che riesce a trovare è un trafiletto su un giornale che annunciava la sua scomparsa… avvenuta a Chicago (per una caduta sul ghiaccio) nel 2009, all’età di 83 anni[1]. Il ragazzo è sveglio… fiuta l’imbalsamazione mitologica e fa la sua fortuna. Seguiranno pubblicazioni, mostre, documentari… tutti all’insegna della “scoperta sensazionale” o in odore di santità… vero niente… la fotografia della Maier, quella in bianco e nero, specialmente… contiene l’abisso e la salvezza del “luogo comune”, e mai avrebbe ricevuto tante incoronazioni se non fosse stata abilmente spremuta fino all’estremo da abili mercanti di sogni
[1] Questa annotazione si avvale di diverse fonti… non è poi importante precisare troppo sulla vita di un autore che ha evitato accuratamente la fogna del successo sociale, le sue immagini dicono tutto ciò che si doveva dire nella propria epoca… per i curiosi senza curiosità rimandiamo invece al sito ufficiale di Viviam Maier: www.vivianmaier.com/
Ciò che resta di questa persona singolare, malinconica, solitaria sono le fotografie di una vita (per la maggior parte scattate con una Rolleiflex) e in gran parte non ancora sviluppate… di lì a poco anche i ciechi e sordomuti della critica sentenziano che ci troviamo di fronte a un genio della street photography (che non ha nulla da invidiare ai certi blasonati maestri della fotografia del letame profumato d’incenso, come Alfred Stieglitz). Va detto. Abbiamo talmente ascoltato, visto, letto che siamo nauseati del genio in fotografia e dappertutto dove si fa professione di pensare… troppi esteti o esegeti della street photography hanno dissertato su ciò che non conoscevano… è tempo di ristabilire la grandezza della fotografia diretta e lo straordinario nell’ordinario della vita quotidiana.
Vivian Maier… la tata, la colf, la serva delle famiglie della media borghesia americana, nei ritagli di tempo, tra un culetto di bambini da pulire, rassettare la stanza, comprare i giornali del mattino ai suoi datori di lavoro… si aggirava con una Rolleiflex nelle strade delle città (soprattutto a New York e Chicago) e con l’amorevolezza e quel tanto di cinica ironia (che avrebbe fatto bene perfino all’ultimo finanziere che si è impiccato per il crollo delle azioni in Borsa) riusciva a cogliere valori e disvalori della dolente umanità che fermava nella sua fotocamera… le sue immagini del quotidiano non aderiscono che alla pelle di coloro ai quali la lebbra del successo non s’attacca. I veri poeti di ogni espressione artistica sono sempre misconosciuti[1]. Quando vengono idolatrati, sono morti.
A leggere con attenzione la fotovita della Maier restiamo abbagliati di tanta completezza formale, della sapienza tecnica, della forza estetica/etica che le sue immagini contengono (anche quelle sgrammaticate)… bambini che giocano sui marciapiedi, giovani innamorati, neri di “buona famiglia”, bianchi ricchi, poveri ubriachi, star del cinema, gente delle periferie urbane… vanno a costruire un rizomario del vissuto quotidiano al di là del bene e del male… figurano un’atlante di persone amate (i bambini, gli indifesi) o respinte (gli arricchiti, i potenti), inconsapevoli della propria bellezza o derisione, e del loro debutto sul palcoscenico della strada.
[1] Nell’effluvio del riconoscimento artistico di Vivian Maier, si succedono mostre, articoli, rivisitazioni (non sempre pertinenti) della scrittura fotografica della bambinaia… sono usciti i libri — Vivian Maier. Street Photographer (2011) a cura di John Maloof); Vivian Maier: Out of the Shadows (2012) di Richard Cahan e Michael Williams; Vivien Maier. SelfPortraits (2013) a cura di John Maloof; e i documentari Vivian Maier: Who Took Nanny’s Pictures (2013) di Jill Nicholls, Finding Vivian Maier (2013) di John Maloof e Charlie Siske, The Vivian Maier Mystery (2013) di Jill Nicholls — … è l’inizio di qualcosa che ha a che vedere con la poetica straordinaria di questa fotografa di strada e con gli affari… i miti hanno bisogno di incensatori come i martiri di supplizi… tuttavia la fotografia randagia della Maier travalica ogni macchinazione farisaica e disselcia i viatici degli annali ufficiali della fotografia per dare più verità alla vita quotidiana.
La messa a fuoco dell’iconografia della Maier taglia via le costellazioni della sociologia insegnata… le implicazioni culturali/politiche di Dorothea Lange, Lisette Model o Diane Arbus sono disseminate ovunque e la forza dello sguardo è il medesimo di queste maestre della fotografia insequestrabile… nelle scaturigini del fare-fotografia della Maier l’autentico parla per l’uomo, la donna, attraverso la ragione, l’intima fratellanza, l’amore e la fotografia costituisce un modo di pensare che, in quanto concezione dell’esistente, diviene l’essenza stessa di chi la pratica senza velature o censure mercantili. Compito del fotografo, infatti, è infrangere gli ostacoli del perbenismo e della benevolenza e ricondurre l’uomo, la donna a se stessi. È lo stupore del vero che sconfigge l’indifferenza e sono fotografie come quelle della Maier che danno schegge di verità e prospettive sterminate, e nell’intreccio di situazioni rovesciate si dischiudono ad epoche sconosciute.
Gli autoritratti (anche quelli a colori) della Maier ci appaiono ironici, anche troppo ricercati… simbolici… non proprio riusciti (come altre immagini che si perdono nel formalismo di oggetti, specchi, tende, linee, ombre, luci)… è altro che fa di questa fotografa di strada e della sua grandezza autoriale, un’eretica della fotografia d’impegno civile… pensiamo alla ritrattistica più diretta… una cartografia di volti, corpi, pezzi di vita quotidiana nei quali vediamo destini spezzati o difficoltà esistenziali dove la verità esige che si riconosca quel che è stato e ciò che sarà… la fotografia, quando procede libera e sovrana — sosteneva Walter Benjamin — ha un effetto distruttore e purificatore[1] e si rende indipendente dalle convenzioni e dagli stili imposti… la fotografia così fatta contiene l’epifania del tempo e della storia e si configura in una fenomenologia dell’esistente come coscienza delle molteplicità, raccoglie la vivenza collettiva e libera dalla prigionia di questo mondo.
L’apparenza della totalità che la Maier rivela nelle sue fotografie è un profluvio di asserzioni immaginali ricche di similitudini, allusioni, autoinganni, sviamenti… che vanno al di là dell’imperio delle leggi, codici, classificazioni… e una tale nobiltà d’animo porta fuori da noi stessi e si affranca al rispetto di ogni singola persona fotografata… la fotografia acquista consapevolezza di sé quando incontra il coraggio della speranza e ingenera la fine del dolore nella ricerca della felicità possibile. Quando si considera apolitica, la fotografia ha sempre un significato politico… la fotografia del vero è una costruzione della comunità nella libertà e respinge l’insolenza ripugnante della politica che si fonda sulla violenza. La politica domina su anime di schiavi e la fotografia può essere un utensile che denuncia o incrina i pretesi valori dei corruttori e degli affossatori della libertà.
[Continua…]
[1] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e altri saggi sui media, a cura di Giulio Schiavoni, Bur, 2013
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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