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Victoria – L’audacia di un one-shot di 138 minuti

di Rita Filippone

Ci sono film che impressionano per la loro storia, altri per la loro estetica, altri per gli effetti speciali, per le luci, per il dinamismo digitale che sempre più prende piede insieme all’intelligenza artificiale… e poi ci sono film che lasciano il segno per il modo in cui sono stati realizzati. Victoria (2015), diretto da Sebastian Schipper, non rappresenta di certo uno dei miei film preferiti per tematica ma rientra sicuramente nella categoria dei film che lasciano il segno per la realizzazione, a livello tecnico: non è solo un film, ma un’esperienza cinematografica totale, vissuta in tempo reale attraverso un unico, ipnotico piano sequenza di 138 minuti. L’assenza di tagli e il flusso ininterrotto delle immagini creano un coinvolgimento raro, immergendoci in un crescendo di tensione che sfocia in un vortice di emozioni e caos.

Victoria - L'audacia di un one-shot di 138 minuti

Una scelta di regia che sfida il linguaggio del cinema

Girare un film in un’unica ripresa è una delle imprese più ambiziose e rischiose del cinema. La tecnica del long take (piano sequenza prolungato) è stata ampiamente utilizzata nella storia della settima arte – da Alfred Hitchcock con Nodo alla gola (1948), che simulava un unico piano sequenza grazie a tagli nascosti, fino a 1917 (2019) di Sam Mendes, che ha sfruttato il montaggio digitale per dare l’illusione della continuità temporale.

Victoria, però, non è un’illusione. Non ci sono trucchi. È stato realmente girato in un’unica ripresa, dalle 4:30 alle 7:00 del mattino, attraversando 22 location di Berlino, senza tagli né montaggio. Tre tentativi in tre notti diverse, il terzo è stato quello definitivo.

Un realismo totale: lo spettatore diventa un testimone diretto della storia, senza distacco, senza filtri. Ogni attore è costretto a mantenere l’energia e la concentrazione per tutta la durata del film, il che porta a interpretazioni incredibilmente autentiche e spontanee, percependo addosso il brio della continuità, l’adrenalina del “live” e al contempo la consapevolezza e l’ansia del “buona la prima”, per così dire.

Un coinvolgimento immersivo: l’assenza di tagli fa sì che il pubblico segua Victoria (interpretata da Laia Costa) con un senso di presenza totale, senza possibilità di stacco o respiro.

Una tensione organica: il film inizia con leggerezza, quasi con il racconto di una giornata/serata tipica nella ripetitività dei giorni e del tempo, Victoria incontra un gruppo di ragazzi berlinesi, per poi scivolare lentamente verso il crimine e la tragedia. Il passaggio è graduale, naturale, senza bruschi salti narrativi. E questa escalation naturale rende ancora più paradossale il comprendere come questa tecnica possa intrecciarsi bene senza il caos iniziale che quasi ci aspettiamo “per definizione”, per la natura intrinseca di questa tecnica.

“Sgambetti” tecnici

Immaginate il temperamento di chi tiene, sorregge la telecamera, il livello della sua responsabilità a causa dell’assenza di correzioni in post-produzione: qualsiasi errore, imperfezione o problema tecnico doveva essere accettato o aggirato all’istante. Non c’era modo di tagliare, rifare una scena o perfezionare il ritmo.

Alcuni momenti potrebbero risultare meno carichi di tensione e meno incisivi rispetto a un montaggio tradizionale. In alcuni punti, la narrazione potrebbe sembrare troppo lunga o dispersiva, ma una sfida senza pari per gli attori: dover rimanere dentro il personaggio per oltre due ore, senza possibilità di correzione o pausa, è un’impresa che richiede una preparazione estrema.

Il direttore della fotografia Sturla Brandth Grøvlen (che tra l’altro è accreditato per il film con il primo titolo nei credits, prima ancora del regista) ha utilizzato una ARRI Alexa Mini con un obiettivo leggero Angénieux Optimo 15-40mm, il tutto manovrato a mano senza stabilizzatori, per mantenere una fluidità che fosse dinamica ma mai disorientante.

Sturla Brandth Grøvlen

Il caos estetico di Berlino

Victoria è un esempio perfetto di cinema urbano notturno, con un’illuminazione che sfrutta il mix di luci artificiali della città. Il neon dei locali berlinesi, le luci intermittenti dei semafori, i fari delle auto e il bagliore arancione dei lampioni si mescolano in un’atmosfera da cinema verità, sporca e pulsante di vita. In alcuni momenti, sembra quasi di essere dentro un quadro di Edward Hopper, dove la solitudine dei personaggi emerge nel contrasto tra ombra e luce. In altri, il movimento incessante e l’uso delle luci al sodio ricordano le fotografie urbane di Gregory Crewdson, seppur in una versione più spontanea e meno costruita.

Un aspetto interessante è che il film si muove tra due estetiche diametralmente opposte: da un lato il sogno della notte in quanto i primi 40 minuti sono un ritratto leggero, quasi romantico, di una notte berlinese. Luci soffuse, tonalità calde, movimenti di macchina fluidi, dall’altro lato una sorta di risveglio nella realtà con l’entrata nella criminalità e il senso di pericolo, il film si sporca, diventa più instabile, le luci si fanno più dure e crude.

La fotografia non è solo estetica: è un linguaggio. Il cambio cromatico accompagna il mutare delle emozioni e la discesa nella tragedia.

Il senso di appartenenza e la solitudine urbana

Victoria è molto più di un film su un colpo andato storto. È un film sul bisogno di connessione, sulla ricerca di identità in una metropoli che può farti sentire invisibile. Victoria è una ragazza spagnola, sola a Berlino, senza amici né famiglia. Quando incontra Sonne e il suo gruppo di ragazzi, vede in loro un’opportunità per sentirsi parte di qualcosa. La loro energia spensierata, il loro modo di accoglierla sembrano offrirle un rifugio dall’isolamento. L’uomo ha bisogno di appartenenza. Il gruppo diventa una micro-società con proprie regole, un’identità che permette a Victoria di sentirsi finalmente viva.

Questa necessità di connessione può portarci a scelte autodistruttive. La pressione del gruppo, l’adrenalina della notte, la voglia di trasgressione: sono tutti elementi che spingono Victoria a superare il punto di non ritorno. Si riflette sul lato oscuro della gioventù urbana, l’illusione del controllo: Victoria crede di poter gestire la situazione, ma si ritrova intrappolata in un meccanismo più grande di lei. La criminalità non viene mostrata come una scelta deliberata, ma come un vortice in cui si entra senza accorgersene. La città come giungla moderna in cui nessuno interviene, nessuno salva nessuno: Berlino è viva, ma è anche indifferente.

Victoria non è un film perfetto. È ruvido, imperfetto, a tratti caotico. Ma è anche un’esperienza unica nel suo genere. Il one-shot non è solo un espediente tecnico: è il cuore stesso della narrazione. La fotografia supporta questa scelta con un’estetica che evolve.

In un’epoca in cui il cinema è sempre più costruito, sempre più ritoccato digitalmente, Victoria è un inno alla spontaneità. Un film vivo, pulsante, in cui ogni errore è parte dell’opera.

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