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The Line Houses – faces behind the Ceylon tea farms

di Martina Banchetti

Arriva l’inverno, le giornate si fanno più fredde ed ecco che arriva un buon caldo a darci conforto.
Ma vi siete mai chiesti da dove viene cosa si cela dietro la sua coltivazione affinché questa bevanda sia nelle nostre case?
Lo Sri Lanka si distingue come uno dei principali produttori ed esportatori di tè a livello globale, essendo il terzo paese in termini di volume. Questa loro peculiarità è anche uno dei loro punti di forza nel settore del Turismo.

La storia del tè in Sri Lanka risale alla seconda metà del XIX secolo, durante il periodo coloniale britannico, quando la crisi delle coltivazioni di caffè, a causa di un batterio che ne devastò tutte le piantagioni, spinse il paese a concentrarsi sulla produzione di tè.
In quel periodo vennero messe a disposizione delle “case popolari” per le famiglie dei lavoratori proprio a ridosso delle coltivazioni di Tè, in gran parte provenienti dall’India Tamil, a causa del rifiuto dei Cingalesi nativi di lavorare per gli Inglesi colonizzatori.
Di generazione in generazione fino ad oggi, questi coltivatori hanno continuato ad abitare quelle “case” costruite quasi 200 anni fa del periodo coloniale, formando piccoli villaggi di “case-popolari”, disposte in linea, denominate : “Line Houses”.

Chi nasce nelle piantagioni, è molto probabile che ci viva il resto della sua vita.
Non vi sono letti e materassi, giusto delle panche in muratura dove riposare, non sono presenti cucine o bagni, ma qualche pentola messa sul fuoco ed una piccola fossa collegata alle “fogne” sottostanti.
Nessun tipo di confort come noi lo conosciamo è presente in queste abitazioni.
Le famiglie occupano spazi ristretti, comuni e condivisi. Talvolta senza finestre pertanto bui e soffocanti.
Queste situazioni sovente creano molti problemi “sociali” all’interno della comunità.
Questo reportage fotografico si propone di evidenziare non solo la storia, ma anche gli aspetti meno visibili – soprattutto dal turismo di massa – della vita quotidiana, del lavoro – dai campi alle fabbriche – e delle condizioni, precarie, dei lavoratori, che hanno contribuito a rendere lo Sri Lanka uno dei principali esportatori di tè al mondo.
Sopratutto mettere in luce i loro volti.

Il tè viene raccolto a mano tagliando/spezzando le cime più giovani, alle prime luce del mattino ed al tramonto, poiché sono le ore del giorno in cui e foglie hanno diverse caratteristiche che ne delineeranno poi la tipologia di tè e l’aroma.
Man mano che le cime vengono estratte dalla pianta, vengono riposte in delle ceste tenute alle spalle, che scendono con delle cime/cordine dalla fronte.
Talvolta invece sono delle sacche e vengono portate come “zaini”.
Un Lavoratore dei campi viene pagato circa 3 Euro al giorno se garantisce ALMENO 20 /22 kg di raccolto a fine giornata. Altrimenti non vi sarà contribuzione. Questo avviene anche se uno di loro dovesse ammalarsi, se non raccolgono il tè, non vi è alcuno stipendio. In un business di miliardi su scala mondiale.

Non è una coincidenza che vi siano prevalentemente le donne nei campi a raccogliere le foglie di tè: può sembrare un lavoro meccanico, in realtà si tratta di un’operazione delicata dove le dita agili e sottili di una donna sono considerate più efficienti e meticolose di quella degli uomini. Pertanto, sono le donne a svolgere la maggior parte della raccolta nella tenuta, mentre gli uomini si occupano di “lavori vari” come potature o concimazioni.

FOTOGRAFIA – Behind the scenes

“Il Contenuto prima di tutto”

La mia curiosità e desiderio di raccontare questa storia mi ha spinta fino ai villaggi più poveri delle “Line Houses”, a pochi chilometri da Nuwara Eliya. Ricordo ancora l’odore ed i volti delle persone che vi vivevano guardarmi con occhi sospetti.

I turisti non passano di lì. Ancora una volta una fotografia poco studiata, “estemporanea”, quasi improvvisata. Concentrata nei dettagli e, laddove possibile, alla composizione.

Non è stata un’esperienza facile, soprattutto emotivamente: ero di passaggio, il cielo era grigio, avevo pochissimo tempo e pretendevo di immortalare la vita e le case di persone che volevano solo “riposare” dopo una lunga, estenuante, giornata. L’acqua sporca, fangosa e di scarto creava dei rigoli maleodoranti fra i piedi. Chiedo sempre il permesso, prima di iniziare a fotografare, ma nonostante mi fosse stato concesso, vi era moltissimo imbarazzo. Ero un’intrusa. Nessun cavalletto e nessun flash. Solo la mia Nikon z6ii ed il mio 24-70mm.

<<Ma la “storia” di questo reportage sono loro, i loro volti e la loro situazione, così com’è>>. E riuscire a raccontarla è tutto ciò che potevo fare.

Scatto velocemente curandomi solo della messa a fuoco e di concentrarmi esclusivamente sulle espressioni o dettagli narrativi che potessero, solo con le immagini, raccontare più di molte parole.

La post-produzione ancora una volta mi è servita a sottolineare alcuni aspetti che in fase di scatto non è stato immediatamente possibile, come i “toni contrastanti” della storia stessa: colori accesi e vibranti in una vita piena di sacrificio. Alcune foto forse possono sembrare “dispersive” o esteticamente poco accattivanti, bisogna soffermarsi qualche secondo in più, ma è il contesto che racconta. Abiti appesi, pentole e ciotole, forti contrasti, attimi rubati, emozioni ed espressioni non immediate alla lettura, momenti ordinari catturati in un giorno qualunque, dalle abitazioni alla fabbrica. Credo e spero, sia anche questo il significato intrinseco di un “reportage”.

@emmebi7

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