La filosofia della fotografia autentica penetra la realtà essenziale delle cose, dal momento che la natura della fotografia più consumata non ha nulla a che fare con la realtà. L’iconografia di “Terry” Richardson, appunto, è un prontuario di immagini furbe… piuttosto brutte e nemmeno ben confezionate… c’è un’esaltazione generalizzata che investe l’intera produzione del fotografo statunitense, una sorta d’insignificanza che trascende il fotografico dal quale parte, e non è certo una ragazza nuda che lecca la cresta di un gallo nel calendario Pirelli del 2010, a far sobbalzare gli sguardi dei suoi estimatori… è la sua disponibilità a promuovere lo spazio fotografico alla stregua di una soap-opera… è la rassegnazione della fotografia al narcisismo smodato di chi fa della fotografia solo un richiamo per iloti dell’estetismo… la fotografia così fatta è una lebbra dello spirito, una visione rivelatrice della storia come farsa o abbellimento del nulla… i ribelli hanno salvato i popoli, gli opportunisti li hanno rovinati.
“Un grande fotografo”, dichiara Richardson — “coglie il momento, per questo fotografo senza apparati e senza assistenti. La mia tecnica è l’assenza di tecnica: l’obiettivo sono i miei occhi, il mio carisma, la mia capacità di catturare attimi di verità, qualunque essa sia, i tagli delle immagini, l’uso del colore, le luci, le ambientazioni sono sempre stati i punti essenziali della mia arte fotografica” —. La “mia arte fotografica” (?!)… al “suono” di queste parole ci assalgono conati di vomito… le cazzate troppo ripetute sviliscono l’immaginario dal vero e muoiono nel mattatoio delle definizioni… figurano un dilettantismo senza splendore… alla fine delle lusinghe restano le opere e la violenza del sacro che hanno asservito… la superbia supera in grossolanità tutte le truccherie mercatali del proprio tempo. “Chiunque non accetti la propria nullità è un malato di mente” (E.M.Cioran) e nell’insania dell’adorazione e del successo trova il suo giusto lupanare.
Nell’elencario fotografico di “Terry” Richardson, l’approssimazione architetturale, l’ammiccamento sessuale, la megalomania perseguita sino all’insignificanza… evidenziano forme ingannevoli della cosa fotografata… se le idee sono surrogati dei dolori, come diceva Proust… il fotografico di “Terry” Richardson mette in scena un pensiero d’occasione che non ha niente da dire né tantomeno da insegnare… i miti che fanno finta di sparasi alla tempia (o in bocca) con una pistola, ragazzine discinte che succhiano banane insieme al fotografo, dive in mutande o seminude che fanno finta d’essere umane, finte aggressioni giovanili, nudi e autonudi (del fotografo) che figurano l’incensamento di un malessere o di un delirio e basta… restituiscono una clownerie improvvisata… una sorta di caleidoscopio d’immagini slegate da ogni fatto importante dell’esistenza umana… la fotografia di questo sbruffone da quattro soldi reca in sé una cultura da beoti che prospera nella fuga dalla realtà, che non sia quella di ciò che affoga nei fiumi d’imbecillità dell’industria culturale… solo i pesci morti vanno con la corrente!
La campagne pubblicitarie di “Terry” Richardson appaiono ai più “singolari”… si fa finta di assumere un po’ di droga insieme all’abito firmato, una ragazza in rosso apre le gambe davanti a un toro, effusioni, ammiccamenti, baci in bocca tra uomini, tra donne e anche gli animali fanno il loro gioco d’effusioni… il tutto condito sotto l’egida di “griffe” internazionali, e tutto all’insegna della folgorazione mercantile… c’è perfino Obama — il presidente nero che ha fatto sganciare bombe sui civili siriani con i droni, respinto i profughi oltre il confine del Messico o assicurato a banche e mercanti d’armi profitti mai raggiunti nella storia degli Stati
Uniti — che fa lo scemo col fotografo… c’è anche Lady Gaga che si fa succhiare il dito da un’amica (imitata dal fotografo), c’è il culo di Madonna, che non dispiace, sventolato con particolare complicità, c’è il ragazzo che mostra i muscoli ai compratori di mutande marchiate, ci sono le icone del pop (non poteva mancare il cantore della musica alla crema dei Beatles, Sir Paul McCartney) e tutto un bestiario similare… a santificare la promozione del desiderio o una gloria da stronzi, concepiti in questa mascherata da servi del superfluo… una ritualità della barbarie spettacolare che dà la sensazione di trovarci di fronte al cattivo gusto di un fotografo intraprendente o un demente realizzato. Nella fotografia del nostro disdoro tutto invecchia all’istante, perfino la felicità del mercato… e sulle vetrine delle qualificazioni l’oggetto del desiderio è già moribondo al momento della fatturazione… e lo si vede bene nella fotografia del sensazionale di “Terry” Richardson… l’inquadratura, l’empatia, il senso della luce non sembrano riguardare le iconologie del fotografo dell’entusiasmo (e, come sappiamo, non c’è forma di banalità, di proselitismo o d’intransigenza ideologica che non vesta gli abiti dell’imbecille truccato da entusiasta)… gli sguardi, le posture, i tagli espressivi delle immagini di “Terry” Richardson illustrano e accompagnano l’illusione della vita, elevano la bulimia dell’apparire nelle facezie dello spettacolare e, più ancora, contribuiscono alla costruzione di un’apparato di distruzione del fotografico, una stasi o una formula della percezione che si sottomette alla farsa eterna dell’utilitarismo.
La fotografia è il romanzo della materia, come sostenevano Cervantes, Welles, Carroll e perfino la Banda Bonnot… all’inganno di un qualsiasi fotografo da estrema unzione come “Terry” Richardson, preferiamo un hidalgo che combatte contro i mulini a vento del potere… ciò che non ci uccidere ci rende più forti, diceva il poeta senza pari che abbracciò un cavallo e pianse per le vie di Torino, smise di parlare e lo ficcarono in un manicomio con altri della sua stessa bellezza incompresa… lì se la rideva forte di tutte le epoche dissolute e corrotte in mano a piccoli uomini (politici, preti, finanzieri, artisti) destinati ad essere adorati come dèi… tutti lebbrosi del pregiudizio che andrebbero destinati alla pulitura dei cessi pubblici o passati inevitabilmente sotto il torchio della verità insorta.

Tra la fotografia e la giustizia l’incompatibilità è totale… la raffigurazione della violenza o l’apologia dei potenti (che è la medesima cosa) funzionano bene… riviste, giornali, tv, il circo dei festival, delle mostre, dei giochi a premi… fanno dell’immagine fotografica una prerogativa eroica o una tentazione monumentale della velenosità mercatale… il fatto è che la fotografia autentica non è collegata ad alcun pregio dell’esistenza che non sia il franamento delle teocrazie… il disinganno lucido è dei fotografi che fecero l’impresa, quella cioè che si sbarazza dei dogmi e delle confessioni disseminati lungo i cenacoli delle qualificazioni e al posto della santità preferiscono il dissidio o la rivolta.
Sì, in verità vi dico… è difficile parlare con i fotografi come con gli angeli… gli uni e gli altri sono sempre stati dei grandi ingannatori… la loro infatuazioni si portano dietro l’aureola della prostrazione, mai quella dell’indignazione… in qualsiasi trattato sulle malattie mentali non sono menzionati, eppure proprio tra i fotografi e gli angeli si ritrovano i piaceri più alti dell’imbecillità. Non potendo vivere se non al di qua o al di là della realtà, i fotografi e gli angeli sono esposti a molte tentazioni, sempre sospese tra la santità e l’idiozia… quello che ci spaventa è che questa perdita di coscienza implica un avvicinamento alle cosche di ogni potere che li imbriglia nella promessa di diventare santi, del mercimonio, certo. I martiri non fanno cassetta.
La fotografia è il sangue di un’alchimia visuale in cui si ricerca la verità o la falsificazione del bello, del giusto, del buono… perché solo la verità regna, il resto è trucco! La fotografia è anzitutto l’autobiografia di un corpo… l’utensile che permette di fissare l’intuizione, per non dimenticarla… disvela cecità secolari o genera dissidenze che tendono a dire, ridire, precisare, affinare, correggere, aggiungere o rompere la macchina di domesticazione sociale che pervade ogni anfratto dell’umano… i calunniatori del reale si ritrovano sul sagrato della seduzione dell’effimero o nella denigrazione del vero mondo… di contro, la fotografia autentica vive ai bordi dell’eccellenza etica, dove la poetica del disinganno si rovescia in disobbedienza sociale.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 30 volte novembre 2018
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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