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Sabine Weiss Sulla fotografia umanista

di Pino Bertelli

Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade ma è persuaso (…) I poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi. È cosí? ……………………………………………………. Sí.

Giovanni Pascoli

La fotografia umanista è una sorta di filosofia-scrittura eidetica e prorompe nel cuore del lettore come un grido di gioia o di dolore che porta con sé i mille echi della storia massacrata dagli dèi del profitto e dai bravacci delle guerre… e indica il rivolgimento totale dei valori politici, morali e artistici che ne dettano l’intolleranza. La fotografia che si avvicina all’uomo e ne racconta la sua esistenza, contiene una forma di sacralità che a volte si trascolora in scandalo! poiché figura l’essenziale della verità umana che essa esprime.

La fotografia così fatta è sempre l’inizio di una distruzione senza fine dell’odio dei potenti disvelato, una fotoscrittura della lacerazione sociale o dell’epifania del bello, del giusto o del buono che insegna a vivere come a morire per le proprie idee o principi d’amore e libertà tra le genti. Sabine Weiss (1924-2021) è una fotografa svizzera naturalizzata francese che aveva capito, come il filosofo dell’irrequietezza, E.M. Cioran, che una girata in bicicletta nella campagna francese o ascoltare un ubriaco di genio in una bettola, è sempre meglio di una lezione all’università… certamente più feconda e commovente di qualsiasi grammatica che si porta dietro gli effetti della tirannide o gli allori del mercantilismo come responsabili del disagio a vivere di interi pezzi di popolo. Sapeva che solo a prezzo di grandi abdicazioni, ruffianerie e servitù trasecolanti che un fotografo diventa “normale”. Qualsiasi clown shakesperiano ci aiuta a comprendere che l’avanzata della civiltà dello spettacolo è proporzionata alle imprese di demolizione della soggettività affogata nella mediocrazia e nel grado di stupidità e smarrimento accettato da esulcerati dal successo e dal consenso! La lode matricolata delle caste è sempre una suggestione da mentecatti della gloria.

La Weiss comincia a fotografare nel 1932 con una macchinetta di bachelite… il padre, un ingegnere chimico e imprenditore di perle artificiali fatte con squame di pesce, la sostiene… tra il 1942 e il 1946 apprende la tecnica fotografica che poi getta alle ortiche… si trasferisce a Parigi e inizia a fotografare di tutto… dalla moda alla ritrattistica di musicisti, letterati, cineasti… pubblica su riviste e giornali (Vogue, Paris Match, Life, Time)… si sposta sulla visione documentaria della realtà e viaggia negli Stati Uniti, Egitto, India, Marocco, Myanmar, Etiopia… qui le sue immagini sono ammantate di una bellezza impervia… contengono una fascinazione del margine che attraversa il soggetto amato… specie quelle dei bambini figura-no un’allegrezza disincantata… sono fotografie sprotette da ogni passione, un’elegia della gioia come poetica della differenza o dell’imperfezione che li considera fuori da un divenire già deciso. I colleghi e amici della Weiss sono Doisneau, Cocteau, Utrillo, Giacometti, Lartigue, Ronis, Boubat, Izis, Kertész… tutta gente che non si nasconde dietro il grigio dell’alfabeto o la polvere della cultura… ma nel concime azzurrato dove l’arte è il seme che produce costellazioni di dissidio… e là dove l’arte crea il buio, lo sguardo sovversivo dell’artista esonda di luce.

Il buon samaritano del pittorialismo fotografico, Edward Steichen, inserisce tre fotografie della Weiss nella mostra del MoMa, altamente meritevole, The Family of Man, la più menzionata — “Intérieur d’église au Portugal (Interno di una chiesa in Portogallo) — è del 1954, e “mostra un bambino in ginocchio sul pavimento piastrellato chiazzato di luce, con la faccia rivolta verso sua madre scalza, che, come la falange circostante di figure, è vestita di nero”… ci basta per andare al fondo di una dissidenza incondizionata… l’inquadratura è forte, asciutta, abrasiva… denuncia, senza gridarlo troppo, una situazione di povertà universale e la soggezione o ignoranza sulla quale poggia! La Weiss è donna di minuscole stelle e manciate di sale lanciate nel vento della fotografia… le sue immagini contengono infatti l’umanesimo di una storia svergognata… straniere all’incondizione di miserie secolari… e ogni fotografia che coglie nei giardini della grazia senza artifizi, profuma di mandorle non commestibili… i frammenti di vita quotidiana che scippa alla realtà (barboni, coppie che si baciano, ragazzi-minatori, “quasi adatti”, fanciulli che ruzzano nelle strade) sono una specie di trattato d’amore dell’umano nell’uomo, disseminato in oltre quaranta pubblicazioni…

la fotografa sorridente non si fa mancare nemmeno collaborazioni importanti con Jean Dieuzaide, Leonard Freed o il sociologico radicale Pierre Bourdieu… e pone la sua fotografia sulla soglia del dire-fare, mai abbastanza detto né fotografato… il libro100 foto di Sabine Weiss per la libertà di stampa (2007), a cura di Reporters Sans Frontières, è una rivelazione o una promessa che aspira a evocare e sconfiggere ingiustizie e disuguaglianze… una sorta di testamento etico del linguaggio fotografico in cui la Weiss sostiene, ci sembra, che è nella verità reinventata che si disfano le categorie della sofferenza ed è nei sogni realizzati degli uomini in amore che nasce il divenire di un’altra innocenza, un’altra umanità.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 19 volte gennaio, 2022 

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