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Ruth Orkin. La visione della realtà.

di Pino Bertelli

“Fotografare vuol dire tenere nel più grande rispetto se stessi e il soggetto… Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore”.

Henri Cartier-Bresson

I. Dio non esiste! La fotografia sì!

Ciò che resta della fotografia… non è solo la mediocrità e la fascinazione del suo valore storico, culturale e politico… i visionari della fotografia sociale hanno lavorato ai margini dell’eternità e sono gli ultimi testimoni di un sapere verniciato nelle apparenze che riduce la conoscenza planetaria a un’ignoranza o a una solitudine di massa devastata dalla “florescenza” del vuoto e dalla “luminanza” del falso. Al fondo della fotografia dell’apparenza c’è l’urgenza del consenso e il reale resta al di qua dell’impero dei segni. Solo l’amore di sé e per il bene sociale rende l’uomo simile agli angeli. Fotografare significa smascherare, minare alle fondamenta le certezze dell’ordine esistente. Significa avviarsi verso il mistero o la magia del reale, fare della visione della realtà lo straordinario come complicità fra i senza voce ed essere messi al bando o impiccati sui banchi dei valori dominanti per aver commesso il reato di estrema lucidità. La meraviglia e lo stupore non hanno bisogno di commenti. “Dio non esiste!, la fotografia sì!”, qualche volta, diceva(1). Non si corregge né s’incensa la fotografia sociale, si rifiuta o si ama. Qualsiasi fotografia è concepita con altrettanta superficialità dell’universo culturale che la suscita.

Ci sono angeli sediziosi — come la fotografa americana Ruth Orkin — che, senza darlo troppo a vedere, hanno sfidato l’avvenire della condizione umana data… la sua opera dice che non importa tanto la verità che contiene, quanto l’uso che se ne fa, della fotografia. Ogni verità è solo verità del passato. L’eternità della fotografia sta nel desiderio eternamente desiderato di ciò che è vero e di ciò che è falso testimone del suo tempo. La finutidine della fotografia è un’opera aperta che usa il linguaggio della terra per dialogare col cielo e il linguaggio della poesia per portare il cielo in terra. La Fotografia — come l’amore — si mostra solo alla Fotografia.

La fotografia consumerista (non importa se numerica o analogica) ha invaso i saperi e i comportamenti della civiltà dello spettacolo… la ricerca di essere profondi, informati, esperti in tutto… rende sempre più difficile imbattersi in un qualche “artista” che ancora sa spezzare il pane con le mani… l’incuriosità dell’inquietudine e la creazione di tutte le forme d’arte è gravida di allarmati brutture etiche ed estetiche. Nessuno più lascia l’opera d’arte per impugnare il coltello o i diritti dell’uomo e annunciare i decessi della consuetudine. I linguaggi tecnologi hanno pervaso ogni forma del comunicare, tuttavia ciascuno è sempre più triste e sempre più solo. Gli apologeti della ragion di Stato governano una massa di rincoglioniti che si lasciano addomesticare, ora dalla sinistra, ora dalla destra, senza un filo di perduta dignità. Laddove la violenza impera, la scelleratezza continua. “L’esercizio del potere non si concilia con il rispetto dell’uomo” (E.M. Cioran)(2). La noia dei novelli inquisitori dello spettacolo è mortale, tuttavia ogni generazione innalza idoli ai carnefici, a conferma che la storia dell’umanità è anche storia di adorazioni per falsi profeti, folli e tiranni che l’hanno fatta perire nel ridicolo.

È la collera o l’amore della filosofia di strada che lacera i luoghi comuni e riabilita e umanizza l’uomo planetario. Il mondo come volontà e rappresentazione è ancora quello di Schopenhauer, Nietzsche, Stirner e anche di mio padre anarchico… cioè una favola che per diventare vera deve rovesciare i ceppi dell’ignoranza e della sottomissione… fare dell’indignazione lo stato naturale dell’esistere e dare agli adulatori del mercato dell’arte, come ai ciarlatani della politica e delle fedi monoteiste, la sorte che si meritano… dissertare sulle immagini di Andy Warhol (o su l’arte del water-closet, s’intende tutto d’oro, esposto al Solomon R. Guggenheim Museum nel 2016 da Maurizio Cattelan, è la medesima roba) — un esempio di spazzatura dell’arte celebrata — o credere alle imposture di un “buon governo” è come sparare col fucile mitragliatore al canto degli usignoli nei giardini del re… s’ignorano soltanto. Non si dovrebbe istituzionalizzare l’arte e nemmeno la sozzura della politica… si insegna l’arte nell’agorà di una società della bellezza o a casa propria… si abolisce la politica a colpi di ascia, sorridendo, s’intende… le rivoluzioni non servono a nulla, se non a far godere della bellezza il dolore secolare dei popoli.

E la fotografia? Che c’entra la fotografia con tutto questo? Nulla, forse… come il terrorismo internazionale non è complice con i piani economici delle multinazionali e le politiche dei governi dei “paesi civilizzati”… c’è sempre una menzogna all’origine di una cattedrale, un centro commerciale o dei campi di sterminio… l’importante è sapere che sotto ogni dogma è sepolto un cadavere. Il domani è frutto di un’attesa che un boia o un capo di Stato ha avvelenato con le sue parole. Possono comprendere solo ciò che distruggono e sono incapaci di amare la sopravvivenza di un fiore dopo il crollo delle torri gemelle di New York al tempo dell’impostura(3). La verità è l’unica cosa che rende liberi.

Le scritture fotografiche più consumate sono una sfilata di mediocrità assolute, una successione di banalità imbarazzanti, un avvilimento dell’anima dinanzi alla stupidità del mercimonio delle idee… non c’è forma d’intolleranza, di rudezza ideologica o di stupido proselitismo religioso che non riveli il fondo imbecille dell’entusiasmo… i saperi si accompagnano ai penitenziari della merce dove è reclusa ogni identità e un miscuglio indecente di arte, potere e prostituzione alimenta il fanatismo del “mercato globale” di ogni cosa… in ogni uomo dorme un artista, un tiranno o un turista del sesso, e quando si risveglia c’è sempre più bruttezza nel mondo. A volte, basta solo una fotografia per dire che l’ingiustizia non può nulla quando la bellezza insorge sui marciapiedi della terra. Ruth Orkin è appunto, una fotografa che ha usato la macchina fotografica come strumento di bellezza, di accoglienza e condivisione sociale. E anche se nessuno può correggere l’ingiustizia di Dio e degli uomini, questa dolce signora americana ha mostrato che il sonno della ragione può essere scosso o acceso soltanto dal sorriso di un bambino.

II. La visione della realtà di Ruth Orkin

Un’annotazione a margine. Ruth Orkin era l’unica figlia di Mary Rubi, attrice del cinema muto, e di Samuel Orkin. L’infanzia (1920-1930) la passa a Los Angeles. A soli 10 anni le fu regalata la prima macchina fotografica e un paio di anni dopo era abile a sviluppare e stampare le proprie fotografie. L’altra passione della Orkin era il cinema. Come tante bambine americane collezionava autografi degli attori più famosi e a 21 anni cominciò a lavorare per gli studi della MGM. La cosa finì subito, perché l’unione cinematografica hollywoodiana non accettava donne a fare lavori che sembrava dovessero competere solo agli uomini. Nel 1943 la Orkin si trasferisce a New York. La notte fotografa nei locali notturni, nei bar, nelle strade delle periferie metropolitane… il giorno lavora sulla ritrattistica infantile e inizia a collaborare con giornali e riviste come Life, Look, Horizon o Ladies Home Journal… si avvicina con sempre più tenerezza al ritratto e le sue immagini di musicisti esprimono non solo la possibile commissione ma anche la fascinazione della diversità che si trascolora in poetica dell’eversione, alla maniera dei migliori film noir americani.

Ne citiamo solo uno, La sanguinaria (Deadly Is the Female o Gun Crazy, 1950) di Joseph H. Lewis, un piccolo capolavoro del B-movie. Uno degli sceneggiatori era Dalton Trumbo, costretto a firmare la sceneggiatura (insieme a MacKinlay Kantor) con lo pseudonimo di Millard Kaufman, perché ritenuto dalla Commissione per le attività antiamericane un “pericoloso” comunista e condannato a 11 mesi di carcere. Trumbo ha vinto (sempre sotto pseudonimo) due volte il premio Oscar per il miglior soggetto, con Vacanze romane, 1954 e La più grande corrida, 1956. (L’appellativo di Anarchico è l’insulto più lusinghiero che si possa rivolgere a un uomo o a un popolo).

La Orkin prende a viaggiare… Israele, Italia… porta la sua fotocamera in giro per l’Europa… nel 1953 firma il montaggio di The Little Fugitive(4), scritto da Ray Ashley, Joseph Burstyn, Morris Engel, Ruth Orkin e diretto dal fotografo Engel, che sposerà poco dopo. Sarà una collaboratrice preziosa di Engel anche per Lovers and Lollipops (1955). Hanno due figli Andy e Mary. La bella americana non entrerà mai dentro il mercantilizio della fotografia e anche quando ha meno opportunità di fare le fotografie che voleva, riuscì a cogliere grandi immagini del quotidiano dalla finestra della sua casa di New York, pubblicate in due libri importanti, A World Through My Window (1978) e More Pictures From My Window (1983). Per ciò che valgono certi riconoscimenti, le sue note dicono che nel 1959 la Orkin fu nominata da Professional Photographers of America tra “The Ten Top Women Photographers in the U.S”. Nel 1985 muore di cancro nel suo appartamento di New York. Ruth Orkin è stata un’interprete eccezionale della fotografia sociale e documentaria, fece parte di quel coraggioso gruppo di fotografi che dette vita alla “Photo League”(5), un’organizzazione nata a New York, che dal 1936 al 1951 si è battuta per educare e diffondere i valori etici ed estetici della fotografia d’impegno civile.

Tra quanti non temerono di mettere il loro nome e la loro creatività al servizio della verità non prostituita ai lacci del potere, ricordiamo (e non poche le donne-fotografo che fecero l’impresa) — Berenice Abbott, Alexander Alland, Marynn Ausubel, Nancy Bulkeley, Rudy Burckhardt, Vivian Cherry, Bernard Cole, Ann Cooper, Robert Disraeli, Arnold Eagle, Eliot Elisofon, Morris Engel, Harold Feinstein, George Gilbert, Sid Grossman, Lewis W. Hine, Morris Huberland, Consuelo Kanaga, Seymour Kattelson, Sid Kerner, Arthur Leipzig, Gabriella Langendorf, Rebecca Lepkoff, Jack Lessinger, Sol Libsohn, Jerome Liebling, Sam Mahl, Barbara Morgan, Ruth Orkin, Marion Palfi, Bea Pancoast, David Robbins, Walter Rosenblum, Rae Russell, Joe Schwartz, Ann Zane Shanks, Lee Sievan, Aaron Siskind, W. Eugene Smith, Louis Stettner, Erika Stone, Lou Stoumen, Elizabeth Timberman, Weegee (Arthur Fellig), Dan Weiner, Sandra Weiner, Bill Witt, Ida Wyman, Max Yavno —… tutti sapevano che per poter afferrare il futuro occorreva denudare il presente delle proprie imposture e simulazioni politiche… le loro opere chiedevano il diritto alla libertà, che è semplicemente avere il diritto di essere uomini in mezzo agli uomini. Sapevano che la libertà, ogni libertà risiede nell’atto o nell’insubordinazione che ci fa liberi. No, nessuno è libero dove si nasconde, ma soltanto là dove dice la mia parola è no!, qualunque sia la ragione per la quale qualcuno si erge a depositario della verità unica. La visione della realtà della Orkin emerge anche dalla pregevole fotografia scattata a Firenze nel 1951, American Girl in Italy, e divenuta uno dei poster più ricercati da appendere nei salotti borghesi e proletari di tutto il mondo… l’immagine-icona della Orkin è una “ricostruzione” perfetta del reale, tuttavia siamo nei pressi del “frammento di costume” e non nell’imperfezione della tragicità o della banalità calpestata dell’esistenza. I poeti orfici scendono fino agli inferi per cercare la propria anima, lo fanno solo per amore e se ne fregano dei demoni e dei mercanti di ogni mondo… sono loro che lasciano le tracce di un’umanità smarrita e anche una fotografia non eccelsa come “American Girl in Italy” può contenere la sapienza e l’intima felicità di un tempo cercato ai confini della vita e della morte… la fotografia è memoria che ci dà sostegno e ricordo che ci spaventa, e fuori dall’età dell’acconsentimento solo gli spiriti liberi prenderanno coscienza della propria nudità e della propria bellezza.

La grandezza espressiva della Orkin la troviamo nella gaiezza dell’infanzia liberata nelle strade e perfino nel grande ritratto di Robert “Bob” Capa, un po’ “avvinazzato” al bancone di un bar… le sue immagini esprimono una vitalità del segno e contengono sempre un dolore o un “profumo” d’oblio… sono iconografie sognanti, buttate lì, sul volto della storia, a mostrare quando lo sguardo si fa parola, dialogo e diviene passaggio verso l’accoglienza, la dignità, il rispetto di un uomo e quindi di un popolo. Non sono tanto le sue fotografie di “stelle dello spettacolo” (Marlon Brando, Orson Welles, Spencer Tracy, Lana Turner, Kirk Douglas, Doris Day, Humphrey Bogart, Alfred Hitchcock…) che ci attanagliano alla gola, quanto la bellezza malinconica, struggente, segreta delle immagini di New York (anche a colori) riprese dalla sua finestra e più ancora la singolarità, tutta al femminile, dell’eidetica infantile… i bambini, specie le bambine, fotografati dalla Orkin, sono icone di bellezza incontaminata e i loro corpi, i loro sorrisi, i loro gesti… sono un coagulo di verità e libertà, inconcepibili l’una senza l’altra. Sono fiori di uno stesso amore. Le scritture fotografiche della Orkin crescono dietro il muro dell’incomprensione e della cultura mercantile, per coglierle e amarle occorre rompere le pietre dell’indifferenza. Il fare-fotografia della Orkin segna una contaminazione col mondo e siccome ciascuna immagine è unica e irripetibile, si richiama all’essenza della vita e rifiuta l’ereditarietà del destino imposto. Le sue fotografie aiutano a ritrovare la strada verso la bellezza, per non morire d’ingiustizia. Fotografare significa non conoscere altro che la sacralità delle passioni del cuore e la verità dell’immaginazione. Invidiamo coloro che trovano la fine del dolore e il riconoscimento della loro arte, tuttavia restiamo accanto a chi non ha incontrato né l’una né l’altro.

Note:

  1. Ando Gilardi, Pino Bertelli, Dio non esiste. La fotografia sì!, NdA Press, 2012
  2. E.M. Cioran, Fascinazione della cenere, Il notes magico, 2005
  3. Vedi, il film 11 settembre 2001 (11’09”01 – September 11) di Samira Makhmalbaf, Claude Lelouch, Yūsuf Shāhīn, Danis Tanović, Idrissa Ouedraogo, Alejandro González Iñárritu, Kenneth “Ken” Lo- ach, Amos Gitai, Mira Nair, Sean Penn, Shōhei Imamura. L’episodio citato è quello di Sean Penn, interpretato da Ernest Borgnine
  4. The Little Fugitive (Il piccolo fuggitivo, 1953) di Morris Engel, Ray Ashley e Ruth Orkin, è una delle gran- di opere/manifesto del New American Cinema, una specie di film-deriva che ha mostrato la bellezza e l’autenticità di una disagio infantile in forma di poesia. «La nostra Nouvelle Vague non sarebbe mai nata se non fosse stato per l’americano Morris Engel che con il suo The Little Fugitive ci indicò la strada della produzione indipendente” (François Truffaut). The Little Fugitive fu girato con una cinepresa portatile adattata da Engel per stare “addosso” al ragazzo del film (Richie Andrusco), che è costato 30.000 dollari, quanto la colazione settimanale del cane Lassie a Hollywood. A Brooklyn la madre del piccolo Joey deve uscire di casa e affida il ragazzino (sette anni) al fratello maggiore Lennie (Richard Brewster). I fratelli giocano con un fucile, Lennie fa credere a Joey di essere stato ucciso dal fratello. Joey fugge, vagabonda sui marciapiedi della città… si perde in mezzo alla folla del Luna Park di Coney Island… raccoglie bottiglie vuote sulla spiaggia, racimola qualche soldo, mangia dolcetti… fa centro al tiro a segno, gioca a baseball, va a cavallo… il giorno dopo, l’uomo che affitta i cavallini (Jay Williams) lo riporta a casa. In The Little Fugitive la realtà della vita quotidiana è colta sul fatto… la macchina da presa riesce a figurare il dolore che diventa svagatezza, gioia, sopravvivenza… Joey è il crogiuolo dell’“infinitudine” dell’amore e della “pietà” denudata dei suoi orpelli sacrali e passa con la disinvoltura dei poeti di strada, dall’inadem- pienza dell’esilio, della clandestinità forzata, dalla fuga verso la libertà, all’amore ritrovato. Il montaggio è epico, innovativo e conferisce al film l’armonia di una partitura musicale visiva. La fotografia di Engel (bianco&nero) è straordinaria, va al di là del documentario e tutto ciò che appare sullo schermo si trasco- lora in emozione. Joey è una sorta di “angelo” del non-dove che vive sospeso tra il fantastico e il sensibile, che ha la percezione e la dignità del corpo, è messaggero di anime innamorate che si allontanano dalle scaturigine del male e ci ricorda che ciascuno è protagonista della propria felicità. Nel 1953 The Little Fugitive ebbe una nomination all’Oscar per il soggetto (Ray Ashley, Joseph Burstyn, Morris Engel, Ruth Orkin), vinse il Leone d’Argento alla 14a Mostra del cinema di Venezia (ex-aequo con I vitelloni, Moulin Rouge, I racconti della luna pallida d’agosto, Sadko e Teresa Raquin). Nel 1954 la critica italiana, per una volta non asservita ai mercenari del consenso, gli assegnò il Nastro d’argento per il miglior film straniero
  5. La “Photo League”, come sappiamo, era un’associazione artistica dell’avanguardia internazionale che si occupava di cinema documentario e fotografia sociale. Il movimento nasce in Germania negli anni ’20 e poi si diffonde in Europa e negli Stati Uniti. L’idea era quella di costituire una comunicazione cine/ fotografica di sinistra o non piegata alle forche del mercato imposto dalle grandi testate e dalle case di produzione cinematografica americane. Si trattava di fabbricare film documentari, immagini, educa- zione alla vita… che andavano in sostegno agli scioperi, alle dimostrazioni, alle manifestazioni pubbli- che delle classi operaie statunitensi dell’epoca… anche… per quanto riguarda i fotografi, il loro lavoro si concentrava sulla documentazione del modo di vivere dei lavoratori e le loro fotografie andavano a contrapporsi alla filosofia estetizzante della fotografia pittorialista di nudi, paesaggi, nature morte ecc. La “Photo League” si teneva in piedi per i finanziamenti che venivano dalle quote associative, aveva una scuola di fotografia (aperta a professionisti e dilettanti), uno spazio espositivo e pubblicava la rivi- sta “Photo Notes”. Dalla sua fondazione sino al suo scioglimento (1936/1951), i fotografi della “Photo League” organizzavano gruppi di lavoro che andavano nelle strade della città, nelle case dei sobbor- ghi, s’immergevano nella vita quotidiana di New York… esprimevano un fare-fotografia dove l’uomo era davvero il protagonista della sua storia. Furono inoltre prodotte mostre, conferenze, contributi di estetica della realtà profonda e ancora oggi sono molti i fotografi che si occupano di fotodocumen- tazioni o di antropologia della fotografia, ad essere debitori a questi fotografi della ribellione o della disobbedienza. Nel 1951 la “Photo League” apparve nella “lista nera” delle organizzazioni sovversive anti-americane e i giannizzeri del maccartismo imposero il suo scioglimento

Articolo tratto da “La fotografia iribelle” di Pino Bertelli

Edito da NdA press © 2017

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