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Roman Vishniac – Sulla cartografia fotografica dell’Apocalisse (Parte II)

di Pino Bertelli

  1. Sulla cartografia fotografia dell’Apocalisse

 

La cartografia fotografica dell’Apocalisse o dell’annientamento del popolo ebraico, parte dalle immagini del fotografo personale di Hitler, Heinrich Hoffmann… un artigiano di bassa temperatura creativa… le fotografie Hoffmann costruiscono nella sala di posa la fisionomia di un dittatore e come un lugubre Cristo su sfondo nero, riflettono i moti, gli asservimenti e i sentimenti delle masse… Hitler si costruisce la statura di leader del nazismo su un’oratoria primitiva che faceva leva sull’inconscio collettivo… arringava le folle così: “La rivoluzione tedesca non sarà completa se non quando l’intero popolo tedesco sia stato rimodellato, riorganizzato e ricostruito”[1].

[1] Alan Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Mondadori,  1979

Nelle sedute fotografiche con Hoffmann furono studiati gesti, atteggiamenti, inflessioni del corpo e del viso… si vede che Hitler cerca l’immagine simbolica di sé da dare un che di sacro al pubblico… una traslazione di fede incondizionata sull’uomo che trascende in mito. Hitler si prende così sul serio che in molte fotografie cade nel ridicolo… come quella che lo ritrae in pantaloni corti di pelle bavaresi con la croce uncinata sulla camicia bruna o quella che sembra interpretare un comico da filodrammatica che apre le mani alla platea o quella davvero inquietante che stringe il pugno e lancia un sguardo divinizzato contro l’avvenire[1]… la follia omicida di un tiranno è già tutta qui, peccato non sono stati molti ha intravedere che dietro tutti i monismi, monoteismi e monocrazie si celano demonologie sacrali che portano a violenze, deportazioni e massacri efferati… e sono le prerogative di coloro che fanno della fede in qualcuno o qualcosa (un Dio, un Tiranno o uno Stato) per coprire la loro originaria vigliaccheria.

La fotografia dell’Apocalisse persegue una filosofia del margine… ogni immagine si richiama l’una all’altra come anelli di una sessa catena… come se ogni verità che la fotografia comunica, porti luce là dove l’ombra del boia ne definisce le sorti di un bambino, di una donna o di un vecchio perseguitati perché ebrei… questo ci sembra identifichi l’opera fotografica di Roman Vishniac contro le pulsioni di morte della prepotenza nazista… la significazione dei suoi ritratti proviene dal viso, dai corpi, dai momenti che rinascono nella cancellazione dell’inconsentito… un modo di vedere l’infinita violenza della violenza interrogata, opposizione a una misera storia di crudeltà e derisione verso un’esistenza senza fucile… una fotografia che non ha dimenticato il suo nome di poesia e che passa attraverso la liberazione dell’immaginario circonciso… quell’infinito altrove di un popolo ostinato che conosce il nome di tutte le stelle e quello di tutti i libri, e significazioni del mondo come irrecusabile verità del dolore delle origini.

Roman Vishniac nasce in una famiglia agiata a Pavlovsk (San Pietroburgo) nel 1897. Il padre aveva una fabbrica di ombrelli e la madre era figlia di commercianti di diamanti… cresce la sua infanzia a Mosca… è affascinato dalla biologia e dalla fotografia… pubblica  a sue spese i suoi studi di zoologia e dopo la rivoluzione d’Ottobre (1918), si trasferisce con la sua famiglia Berlino… qui sposa Luta (Leah) Bagg e nascono due figli, Mara e Wolf. Nel 1935, con la crescita dell’antisemitismo in Germania, l’American Jewish Joint Distribution Committee  (JDC), un’organizzazione di soccorso ebraico americano, lo incarica di fotografare le comunità povere ebraiche nell’Europa orientale… fa diversi viaggi nei ghetti ebraici, fino al 1938… nel 1939 la moglie e i figli si trasferiscono in Svezia… nel 1940 Vishniac viene arrestato a Parigi dalla polizia del maresciallo Pétain e internato a Camp du Richard, un campo di deportazione a Indre-et-Loire. Con l’aiuto della JDC riesce a fuggire e raggiungere New York. Apre uno studio di ritrattistica, fotografa anche la vita della comunità ebraico-americana, tra i suoi ritratti più celebre è quello di Albert Einstein, invero non proprio un capolavoro. Per far conoscere le condizioni di povertà degli ebrei nell’Europa centrale, espone le sue fotografie al Teachers College, Columbia University… che non sortirono il riconoscimento sperato. Nel 1947 torna in Europa e documenta i campi profughi e le rovine di Berlino e registra i racconti dei sopravvissuti all’Olocausto per la JDC.

[1] Con appena 475 Euro, le fotografie di Hitler scattate da Hoffmann possono essere acquistate dall’Agenzia Gettyimages… e sono molti i clienti interessati alle immagini sacrali di dittatori (Stalin, Franco, Mussolini, Mao Tse-tung…), tutta gente che aspira all’omicidio da barbieri, al taglio della gola degli indifesi… la leucemia del cervello è il giardino dove fiorisce l’impostura di un Dio… edificante adorazione di un’istituzione del male.

Scienziato, ricercatore, soggettista e creatore di molti film scientifici… insegna filosofia generale e religione nella scienza, anche fotografia… riceve lauree honoris causa in diverse università muore a New York il 22 gennaio 1990. Il suo archivio è stato donato dalla figlia al Magnes Collection of Jewish Art and Life, poi al museo di storia, arte e cultura ebraica, Università della California, Berkeley.

A ritroso. Tra il 1935 e il 1938 Vishniac scatta oltre 16.000 fotografie nelle comunità ebraiche in Germania, Polonia, Romania, Cecoslovacchia, Lituania… quando arriva negli Stati Uniti si porta cuciti nei vestiti 2000 negativi… l’intero lavoro è lasciato a suo padre in Francia, a Clermont-Ferrand… nascosto sotto le assi del pavimento. Si faceva passare come un venditore ambulante… venne anche arrestato ma riuscì a cavarsela corrompendo chiunque lo ostacolasse… l’affermazione di Vishniac sulle attrezzature è controversa… la Leica, la Rolleiflex, il cavalletto, la lampada a cherosene… pesavano 52 chilogrammi e li trasportava sulla schiena nei villaggi arroccati sulle montagne o lungo le strade sterrate delle pianure… a noi importa parlare del linguaggio e della filosofia di un poeta della fotografia, il resto lo lasciamo ai dibattiti accademici e alle virgole degli storici. Anche perché “nel dire, niente è mai abbastanza detto che non aspiri ad essere detto nuovamente, ma in altro modo” (Edmond Jabès)[1]. Ciò che si mostra nel vero, afferma il crimine e anche la sua irragionevolezza malvagia! L’apocalittica della paura è l’ultima voce prima del terrore del silenzio.

Il libro di Vishniac, Un mondo scomparso, segna l’inizio della catastrofe nazista. Nella prefazione Elie Wiesel scrive: “Non dimenticare, non lasciare che l’oblio cancelli la memoria: questa è la sua ossessione. Sfidando tutti i pericoli, superando ogni ostacolo, [Roman Vishniac] viaggia di provincia in provincia, di villaggio in villaggio, cogliendo bassifondi e mercati, un gesto qui e un movimento là, immagini di speranza e di disperazione; perché le vittime non svaniscano completamente nell’abisso — perché continuino a vivere, dopo la tortura e il massacro. E ha vinto la scommessa: vivono ancora”[2]. Un’annotazione a margine: Ogni dittatura vittoriosa finisce per crollare, perché le sole virtù con le quali ha soggiogato il popolo, sono le armi, la fede è il senso mercantile della patria. A quanto la storia ci ha insegnato, la libertà non sembra indispensabile per l’uomo: nella testa infranta di un cretino prende forma l’euforia certa dell’idealista.

L’iconografia del dolore di Vishniac non teme la testimonianza ma chi la sveste di terrore… le sue fotografie sono ferite tagliate nella pietra… segni di storie eterne… conoscenze che passano per la scelta d’amore e accusano l’assassinio… reclamano tutto ciò che hanno visto e mostrano inciso nella cenere la rivelazione, il carattere e la promessa che tutto questo non avvenga mai più. Spezzare la fotografia nel vero è dar gioco alla fotografia e avvicinarsi il più possibile all’origine del male… raramente si sono viste immagini come quelle di Vishniac nella storia della fotografia… poiché il fotografo si tirava fuori da ogni compiacimento miserabilista e vedeva i ritrattati non come vittime, ma come persone che scrivevano col corpo il lutto e la salvezza della loro storia.

[1] Edmond Jabès, Il libro dei margini, Sansoni Editore, 1986

[2] Roman Vishniac, Un mondo scomparso, E/O, 1986

A ragione, Walter Benjamin affranca la fotografia alla psicoanalisi e sostiene che agisce sull’inconscio della vita comune… svela un aspetto altro della realtà e porta nel mondo visibile le tracce di quello celato o scomparso, certo… la fotografia esprime una metafisica della realtà che scinde o lega fotografati e fotografo nell’immagine fatta… infatti non pensiamo che davanti all’epifania del gesto fotografico, il fotografo deve “dimenticare di essere se stesso” o “non pensare perché la cosa riesca”, come dice Henri Cartier-Bresson, il maestro… ma piuttosto il contrario… il fotografo è sempre specchio-memoria di sé e di ciò che fotografa… ogni immagine è un’autobiografia o è solo l’estetizzazione della realtà… poiché, come dice Cartier-Bresson, “la fotografia è molto più vicina all’arte della scultura in bronzo perché, come lei, non permettete ripensamenti”[1]. La forza visiva che fuoriesce dalle immagini di Vishniac, differisce dalla pretesa oggettività del reportage, si mette in rapporto col fotografato e ne racconta l’oscurità, la delicatezza o la dissidenza… le sue immagini della povertà ebraica in Europa sono una lettura o un’interrogazione su un infinito male sociale in atto… i forni crematori non saranno il solo e unico crimine dei nazisti, ma alla luce della storia, sicuramente il più abietto mai conosciuto.

La scrittura fotografica eversiva di Vishniac si ritaglia sull’iconografia della passione sacrale degli ultimi dei giusti e sotto una visione di estrema verità riesce a mostrare che non esistono “mondi scomparsi” né sconfitti, ma memorie storiche che possono contribuire a fermare i massacri che una parte di umanità ha portato (e porta ancora) contro i propri simili in nome di Dio, del popolo e dello Stato (mascherati sotto il nome di progresso). La bellezza della terra è stanca. Gli uomini l’hanno violata. Gli ulivi dei patriarchi sono stati tagliati e la civiltà dello spettacolo è al culmine della disperazione. “Non sono contrario alla fine del mondo, ma preghiamo l’autorità celeste di non concedere più arche” (Guido Ceronetti). Quando si profana la gioia, tutti i cieli sono svaligiati. Ogni crimine ha i suoi fondamenti nell’ordine costituito.

La fotografia rubata al delirio del potere nazista di Vishianc, figura la dignità tutta intera di un popolo, quello ebraico (prima dei fasti terroristici dello Stato di Israele contro genti dello stesso sangue). Vishianc è un poeta dell’immagine sdrucita, un testimone di speranze spezzate e più ancora il cantore di una coscienza popolare che grazie alla sua opera resterà indelebile negli occhi e nel cuore di tutti gli umiliati e gli offesi. La sua è stata una missione di pace contro i Pogrom della rapacità e una testimonianza radicale della vita ebraica dilaniata che mette sotto accusa la speranza esiliata, dove non c’è più possibilità di pensare un altrove senza essere impiccati col filospinato. Le immagini amorose di Vishianc esprimono una visione aurorale dell’abbandono, della solitudine e della speranza insieme… srotolano i deserti si spine sui confini dell’incompiutezza e valicano il limite ineluttabile dell’oscurità dei prosatori di facezie documentali… chiosano il tremore e anche la gioia di un passato e l’inizio del futuro incendiato di slogan razziali, si abbeverano sulla soglia dell’indicibile e disconoscono la colpa delle stelle gialle che gli hanno cucito sui vestiti sdruciti… la domanda di tanto dolore appartiene all’immaginario che la fotografia suscita nello sdegno della disgregazione. Per resistere al boia ci sarà sempre una lacrima sgualcita di speranze che cade, sempre tardiva, sull’amore di chi è stato privato dell’amore.

Nei primi anni ’30 in Germania già si parlava di sterminare gli ebrei. In modo particolare i bambini, le donne, gli svantaggiati, gli omosessuali, i “quasi adatti”… non ci poteva essere futuro per i “figli di David” nella terra dei Nibelunghi e ovunque il potere nazista fosse arrivato. Tra il 1934 e il 1939 Vishianc scatta migliaia di immagini, di nascosto, in situazioni difficili, pericolose… ricordiamolo… per questa impresa il giovane ebreo conosce la galera e la fuga.

[1] Jean Clair, Henri Cartier-Bresson, Tra ordine e avventura, Abscondita,  2008

Molte delle fotografie che aveva sottratto alla realtà ebraica, sfigurata dalla follia di Hitleriana, furono (in parte) distrutte dai suoi carcerieri… quando (in modo rocambolesco) riuscì a sbarcare negli Stati Uniti (1940), aveva addosso (cuciti sotto gli abiti) un pugno dinegativi (circa 2000). Il resto del suo lavoro l’aveva consegnata al padre in un villaggio francese (Clermont-Ferrand) e lì rimase per tutta la durata del conflitto mondiale.

Vischianc andò errante per città, villaggi, periferie povere dell’Europa hitleriana e riuscì a fotografare l’intimità disagiata di un popolo. Gli ebrei, inoltre, non sono facili a farsi fissare sulla pellicola. Il divieto biblico (la Tōrāh ) di celebrazione delle immagini li rende scettici o schivi alla loro ritrattistrica. Quando Vishniac è chiamato a riflettere sulla sua opera dice: “Perché l’ho fatto? Una macchina fotografica nascosta per registrare il modo di vivere di un popolo che non desiderava essere immortalato dalla pellicola: può sembrare una cosa strana. Era folle entrare e uscire da paesi dove la mia vita era costantemente in pericolo? Qualunque sia la domanda, la mia risposta resta sempre la stessa: doveva essere fatto. Sentivo che il mondo stava per essere gettato nella folle tenebra del nazismo, e che il risultato sarebbe stato l’annientamento di un popolo che non aveva nessun portavoce per registrare il suo destino. Intendiamoci, la sua fede assoluta in Dio potrebbe aver impedito la ricerca di un salvatore umano. Sapevo che era mio compito assicurarmi che questo mondo scomparso non svanisse del tutto” (Roman Vishniac)[1]. La libertà di pensiero è più forte delle gogne, degli spari e delle esecuzioni sommarie. Perché è nel pensiero che si distruggono gli dèi e le sapienze degli angeli ribelli annunciano le realtà immaginate… dove la verità muore di verità e tutte le follie di liberazione sono divine.

Come un grande “figurinaio”, Vishniac affabula immagini di speranza e disperazione che rappresentano un atto di accusa contro la rapacità e l’indifferenza dell’intera umanità verso la “soluzione finale” di Hitler contro gli ebrei (almeno fino alla “scoperta” dei campi di sterminio degli Alleati)… queste icone di sofferenza e di liberazione continuano a vivere in noi e tra noi, anche dopo il genocidio. “Attraverso il mio dolore personale, vedo con l’occhio della mente i volti di sei milioni di persone appartenenti alla mia gente, innocenti, brutalmente assassinate per ordine di un essere perverso. Il mondo intero, gli stessi Ebrei che vivevano sicuri in altre nazioni, compresi gli Stati Uniti, stettero a guardare e non fecero niente per fermare il massacro. Il ricordo di coloro che sono stati spazzati via deve proteggere le generazioni future dal genocidio. È un mondo scomparso, ma non sconfitto, colto in immagini realizzate con una macchina fotografica nascosta” (Roman Vishniac). La dottrina della razza era già penetrata negli stereotipi della “superiorità germanica” e i “rossi” e gli ebrei, in modo particolare, erano il nemico da eliminare. L’antisemitismo divenne anche una redditizia politica elettorale, l’accidia montante del nazismo contro gli “stranieri” investì ogni ceto sociale e anche la chiesa cattolica e luterana adunava i fedeli all’ombra della croce uncinata. I contagiati dal razzismo non erano solo i proprietari terrieri, gli industriali, i banchieri, i militari… ma l’intera società tedesca… il bell’ariano schiacciava il brutto ebreo ed era la diretta espressione politica del governo che ne dettava gli ordini. Proprio come succede ai nostri giorni…gli stranieri, i migranti, gli sfuggiti dalle guerre, dalla fame e dalle morte alle frontiere dei “paesi civili”… sono considerati degli appestati da sfruttare, emarginare o sopprimere. La catechesi della bruttura mostra i volti dell’uomo rattristati. Per distruggere un sogno non bastano più le “bombe intelligenti” dei governi emancipati, il deicidio dei poveri è consumato nei supermercati dell’imbecillità globale delle guerre.

[1] Roman Vishniac, Un mondo scomparso, E/O, 1986

Cronache dalla Storia illustrata del nazismo[1], per comprendere a fondo la sua ferocia… le immagini parlano da sole. Germania imperiale. In principio era la fame. La guerra era stata perduta. I bambini mangiano carcasse di cavalli nelle strade. Un paranoico con i baffetti dacassiere (ladro) della provvidenza sociale, Adolf Hitler, scrive Mein kampf (La mia battaglia, 1925) e di lì a poco il delirio di un antisemita diventa collettivo. Il regime nazista di Hitler si buca da sé. Tutto è troppo falsamente epopeico perché una carnevalata di questo genere possa durare. Le facce torve dei padroni sono le stesse dei soldati aggrappati ai fucili e alle bandiere uncinate. Il cabaret impazza. Le calze con la giarrettiera di Lola (Marlene Dietrich) fanno epoca. Si bruciano i libri e si inaugurano i campi di sterminio. Papa Pio XII sta al balcone del Vaticano a guardare, intanto i suoi vescovi spruzzano di olio santo i cannoni nazisti che occupano l’Europa.

Non manca nemmeno la documentazione sull’incontro di Hitler e Mussolini a Firenze, nel 1938. La folla applaude, come sempre, i tiranni, i re, i generali e i tribunali della Santa Inquisizione. La guerra è vicina. Le lacrime anche. 60 milioni di morti sarà il bilancio del secondo conflitto mondiale. Gli italiani del ventennio fascista, voltagabbana di professione, stanno prima con i nazisti e i giapponesi, poi con gli americani, gli inglesi e i francesi. La nascita dell’era atomica debutta a Hiroshima (1945). A Yalta, Churchill, Roosevelt e Stalin si spartiscono il mondo. La Shoah degli ebrei resta a testimoniare la cattività dell’uomo contro i propri simili. Poi il processo di Norinberga, il muro di Berlino e la fine del comunismo sovietico chiudono il libro. Una lunga carrellata del dolore esplode negli occhi. E ci porta riflettere come la civiltà dell’umanità sia un illusione e come gli uomini non siano ancora riusciti a cancellare dai piani economici/politici dei Paesi ricchi, ogni forma di guerra. Per non dimenticare che “Il lavoro non rende liberi” e “Dio non né con noi”, ma dalla parte del plotone di esecuzione, occorre balzare in piedi e dire no! a ogni guerra e a ogni violenza che un pugno di bastardi ha organizzato contro intere popolazioni. L’obbedienza non è mai stata una virtù. Disertare da ogni tipo di consenso è anche un modo di rompere il flusso dell’obbedienza. Bisogna disobbedire dunque, e con ogni mezzo, ai signori dell’odio, in attesa di dare loro ciò che si meritano. Ventitré pugnalate o forse basta uno sputo.

Un’annotazione fuori margine. Ai nostri giorni, mentre nell’Europa della magnificazione dell’opulenza e della discriminazione razziale — a proposito delle migrazioni nel Mediterraneo e alle frontiere di molti paesi —… i venti di guerra tra dittatori, tirannelli e tavoli dell’Onu investono lo sconcerto delle popolazioni… nell’italietta tutta casa, chiesa e banche… le forze dell’ordine fanno sentire il proprio ruggito, ma è solo il belare di protettori in divisa che confondono la poesia con l’eccentricità… e già s’inserisce nell’immaginario collettivo il bisogno di giustificazione di questo o quel despota (come il compagno Putin) che proclama la denazificazione di una nazione (che ha suo tempo ha prodotto oltre un milione di morti del popolo ebraico a fianco dei nazisti) e innesta un guerra di portata globale… raccontata dalle agenzie televisive con la medesima spettacolarità delle pubblicità… può capitare, dicevo, che un poeta del profondo Sud molisano, uno di quei grandi che fanno poesia fuori dalle conventicole editoriali, Valentino Campo da Campobasso… possa essere fermato da solerti carabinieri, mitra in mano… e dopo la domanda di controllo dei documenti gli venga richiesto di aprire il portabagagli e le valigie… il poeta dice fra se e se che forse l’avranno scambiato per un trafficante d’armi proveniente dai Balcani e non d’essere un’esegeta della poesia di Dante… apre il trolley e viene fuori una cartucciera di libri… i carabinieri restano delusi… anche confusi, forse un po’ spaventati dai titoli dei libri di filosofi e poeti fuori schema… tra i quali Il processo di condanna a Giovanna d’arco… il più sveglio gli chiede se si occupa di esoterismo o se è un mago… il poeta infila un sorriso sarcastico alla Pasolini e pensa che i carabinieri forse hanno capito che quelle copertine sono più pericolose delle armi, perché dicono che la pace si fa con la pace… più ancora che la guerra muore con la prima parola osata che porta alla fiducia dell’umano nell’uomo… quando si bruciano i libri, il passo successivo è il rogo degli uomini.

[1] Storia illustrata del nazismo, Giunti 2002

Vishniac aveva compreso che il silenzio secca il sangue nelle piaghe degli offesi e si fa testimone supremo del mondo ebraico martorizzato. Le sue immagini evocano il dolore e i suoi personaggi (i rabbi, i venditori ambulanti, i mendicanti, i vecchi, i bambini…) sono avvolti in una sorta di amore fanciullesco, malinconico e gioioso che è proprio del cuore di tutti gli utopisti. Vishianc non vuole che l’uomo dimentichi e lasci nell’oblìo la cattiveria della sua politica… dai suoi ritratti emerge anche la grande possibilità amorosa di accoglienza, ospitalità, condivisione che l’uomo può porgere all’altro uomo. I bambini sporchi nelle strade, i vecchi avvolti in cappotti lacerati, le donne relegate in stanze malsane, artigiani, venditori ambulanti, gruppi di ebrei che si affastellano davanti a botteghe destinate alla sopravvivenza… vanno a comporre un atlante di geografia umana della sofferenza, dove qualsiasi cosa che accade è colpa delle tue origini! Una seminagione dell’intolleranza che fa dell’ingiustizia il calvario di tutte le aberrazioni del potere nazista.

A nostro avviso, e per quello che vale, è nella ritrattistica dei bambini che Vishniac ripone l’eliminazione e al contempo la risorgenza del popolo ebraico nell’Europa orientale… la lucentezza dei fotografati supera la “straccioneria” nella quale si trovano ed espongono la loro interiorità alla fotocamera in un legame di solidarità, d’amarezza della propria condizione, ma tuttavia di una salvezza futura che disconosce l’impero del male… il disvelamento del sé che indica l’oppressione e come spezzarla… la paura, il timore, il tremore e la gioia di un’infanzia ammaccata segna la fine e l’inizio della speranza, una creazione di valori che condannano l’odio… e siccome non ci sono limiti alla disperazione, non ci sono nemmeno limiti alla speranza, Vishniac affabula l’iconologia della mia parola è no!

A vedere con attenzione i bambini frantumati nella storia nazista come sommersi e salvati nelle fotografie di Vishniac… non è difficile cogliere il rapporto culturale che hanno con i vecchi… studiano le loro origini, giocano tra le immondizie, sorridono al fotografo o rivendicano lo sdegno dell’ingratitudine o di una possibile felicità… i vecchi girano per le strade con i libri sotto il braccio, i bambini si raccordano alla loro saggezza sui banchi di scuola al lume di candela, portano i latte ai più piccoli o decifrano la povertà fuori da giudizi morali e chiacchere insensate… sono parte di un antico processo culturale ebraico che unisce o affratella gli esseri umani. Ogni bambino fotografato nel candore della propria verità, risponde all’interrogazione di tutti i bambini che saranno massacrati dalla rapacità nazista (oltre un milione) e quegli sguardi di seta, odore di olive al forno e profumi di gelsomino che hanno addosso, non li definisce “martiri” ma “eroi” senza eroismo che restituiscono alla parola amore il suo significato più profondo e inconosciuto.

Nella nostra lettura partigiana dell’opera di Vishniac, vogliamo scegliere tre di questi stupefacenti bambini che contengono l’universo pedagogico dell’uomo-fotografo… poiché l’amore verso l’Altro presiede nel cammino che porta al tramonto del male, dove tutti saranno ciò che sono… dove il divenire è forgiato con le proprie mani e la libertà di gioire e vivere è nascosta in un barattolo di marmellata condiviso… dove la parola è la traccia che non si congeda dalla bellezza, semmai la rivela… dove le memorie non raccontano più Auschwitz, ma lo seppelliscono nel grido di vita dell’esiliato che ritorna all’amore.

Senza dimenticare mai che la sola patria sopportabile è quella dove non ci sono profeti, né santi, né martiri, poiché dietro di loro si celano i prossimi boia!

  1. La bambina avvolta di coperte in una camera dove sui muri ancora resistono dei fiori (la resilienza la lasciamo ai prosatori del pressappochismo), rimanda a una grazia ingannata… a un’estensione del terrore che la contempla per distruggerla meglio! Qui il fotografo coglie la trasparenza dei sogni di una fragilità che abolisce i limiti della dolcezza… la bambina denuncia, senza volerlo, tutto ciò che la imprigiona nell’intolleranza… un visibile sospeso tra la meraviglia e il segreto che l’impicca. Un terreno di verità dove la violenza è il giudice, sentenza e delitto ratificati… non c’è nessuna partenza perché non ci sono approdi… ma ci sono gli angeli intorno a lei… si vedono, se vogliamo… che turbano anche l’incondizione di un Dio/mito malvagio che dà prova della sua desolazione. La fotografia parla dove tutt’intorno tace! L’immagine della bambina presagisce ciò che una civiltà rudimentale uccide.
  2. Il bambino nella strada fangosa di un remoto villaggio, stringe un mucchio di fogli di chissà quale libro e guarda stupito il fotografo che richiede il suo ritratto… evoca un immediato spargimento di sangue… la crudeltà nazista spazza via ogni ingenuità che brucia nel disvalore delle ordinanze che indicano la strada… la protezione del sapere, del conoscere, dell’attraversare il soffocamento delle ideologie non basta… perché tutte i credi sono falsi, corrotti, malvagi e vanno abbattuti. In quelle pagine sciolte che il bambino stringe al corpo,  c’è un’educazione superiore, un nuovo senso d’identità e una filosofia creatrice di valori che nessuno può distruggere. Il fotografo così lo vede, così lo cattura alla sua semplicità, e così lo trasporta in un nuovo umanesimo.
  3. Il bambino incappottato sul letto è diviso tra lo sgomento e l’impaurito… qui Vishniac ci fa percepire una matrice sociale violata che l’attende… la scena di un disonore inammissibile o il cadavere olezzante di folle abbacinate dal marciume nazista… ma la bellezza è inadatta all’agonia e l’ingiustizia sussiste in funzione della sua fine. Le mani del bambino si alzano a protezione della sua nudità e lo sguardo penetra la fotografia fino all’osso dell’indifferenza… perseguire la verità non è sufficiente, per renderla eterna occorre che la verità nasca dell’innocenza del divenire di un bambino che si mostra ignudo all’eternità del male.

Queste poche immagini sono sufficienti, per noi, a conferire alla cartografia fotografica di Vishniac lo statuto di poetica dell’interrogazione… un’alfabetizzazione dell’istante fotografico che accarezza la vista e l’odorato, che mette sotto accusa la spietatezza della negazione dell’amore… un’estetica della sacralità che porta all’emozione e restituisce volti e voci a una minuscola stella bambina o a una manciata di mandorle amare, lasciate alla deriva d’azzurrate malinconie protette dell’infanzia e affogate nel sangue versato nelle lacrime. La lucentezza creativa del fotografo non riguarda solo il presente in rovina, ciò che ci trasmette al primo impatto, ma ciò che resta anche del futuro… una fragilità e al contempo una forza che non possono essere rappresentati o configurati in un’attimo rubato alla realtà… le sue immagini contengono una filosofia di vita accarezzata dall’amore e quando scompare resta l’immensa violenza subita.

La fenomenologia dei corpi in amore di Vishniac non ci lascia perplessi ma indignati e come l’indefinibile silenzio degli amanti racchiuso in un sorriso o nel rosso di un bacio appassionato, nasce e vive in un respiro mozzato… poiché l’amore è una soglia ed è inciso nel blu del fuoco che brucia le parole… il silenzio che sale è l’incendio di tutte le vite/cose disconosciute alla parola amore!

Ogni conoscenza è interrogazione e ogni patibolo la sua risposta… solo l’infinito altrove è vero, perché si fa beffe d’ordinarie follie… l’interrogazione appassionata del mondo si staglia in possibili nascite dell’utopia e si trasforma in altre interrogazioni che condannano l’impostura all’oblìo… sciabolate di luce che accecano gli accecatori e liberano i polsi dalle catene e dall’umiliazione dell’idolatria… passare dalla distruzione alla discreazione: “far passare qualcosa di creato nell’increato” (Simone Weil), significa attuare un processo di trasformazione culturale, politica, sociale teso a rovesciare codici, morali e valori falsi… il linguaggio, lo stile, il tono adottato sono gli arnesi indispensabili (insieme ad altri utensili più appropriati, anche) per lavare la vergogna di popoli e padroni, e riportare l’uomo liberato alle scaturigini dell’esistenza.

Di Roman Vishniac: “È stato un uomo generoso, affettuoso, che la sua missione ha reso ardito. Ognuna delle sue fotografie nasconde un rischio. Un giorno, forse, ci racconterà di come ha raggirato la Gestapo. E le spie. E la morte. Un giorno ci racconterà… gli inganni, i travestimenti, i trucchi che ha dovuto usare per riuscire a penetrare in questo luogo, per avvicinare quello studente, per cogliere la luce fioca di una certa scuola. Un giorno ci racconterà dei templi saccheggiati, del naufragio della preghiera, della desolazione che aveva previsto, che aveva visto prima ancora di fotografarla per affidarcela in custodia.

Poeta della memoria, poeta elegiaco delle speranze infrante, Roman Vishniac resta il primo e il migliore nel segno della fedeltà” (Elie Wiesel)[1]. Il fuoco di Eraclito come la torcia perenne che brucia alla memoria di milioni di martiri a Gerusalemme… giudicherà l’universo governato dalla violenza dei totalitarismi e delle moderne istituzioni politiche… solo i disertori dell’innocenza portano in loro il crollo degli imperi… perché a un’era di agonia preferiscono l’apocalisse della gioia.

La fotografia dell’estremità, del limite o dell’esilio di Vishniac è una lezione di amore e di risolutezza poetica che un uomo ha donato alla sua gente. Nei suoi ritratti si respirano le schegge della coscienza e le pugnalate della storia. La forza espressiva di Vishniac è insolita e irripetibile. La “brutalità” o se vogliamo, la rozzezza dell’inquadratura, i tagli arbitrari, l’occasionalità della luce… non vanno a rompere quell’equilibrio magico, quello sguardo dell’autentico, quella riservatezza o presenza del sogno… che fanno della sua fotografia una lingua dell’agorà (della piazza) che si chiama fuori dall’inclinazione all’aridità di una società che riluce nella sua decomposizione. È anche un ponte, un percorso, un cercare altri territori dove la comprensione, l’amore, l’incontro tra le genti sono all’inizio della comunità dell’arcobaleno (multietnica) da conquistare. Se poi una parte di ebrei si sono comportati come i loro aguzzini, hanno rappresentato di nuovo il terrore, le torture, la spietatezza contro gli inermi o i ribelli, in Palestina, ed esempio… questa è il proseguimento e la conferma dell’infinita miseria di ogni potere.

[1] Roman Vishniac, Un mondo scomparso, E/O, 1986

Una volta diventata sovrana la vendetta, ogni forma di giustizia muore.

La fotografia del dolore di Vishniac si rivolge al cuore perché è nel cuore che l’immaginale si fa mondo. La visione del cuore è anche la passione dell’anima che riflette il risveglio dell’uomo. Dove è il cuore, lì saranno anche bellezza o disperazione (sant’Agostino, diceva). Ogni cuore è cuore di re. Perché il sentimento d’amore e di fraternità dell’uomo per l’uomo è il bene più importante e più bello di tutti gli uomini. “Gli ebrei moriranno di fame e di stenti, e della questione ebraica resterà solo un cimitero”, disse Ludwih Fischer, governatore tedesco di Varsavia, e tra il 1940 e il 1943 fece murare gli ebrei nel ghetto di Varsavia, e poi passò al loro sterminio. I nazisti hanno cercato di ridurre in polvere l’eco di secoli stellati di bellezza e prossimità, anche di mistero e del possibile e dell’impossibile del popolo ebraico… ma le anime delle stelle gialle di David, bruciate nei formi creamatori o gasate o ammucchiate nelle fosse comuni, i nazisti non sono riusciti a eliminarle né a cancellarle per sempre… le hanno solo private dei loro corpi, dei loro volti, delle loro gioie… tutte queste anime sopravvivono nelle icone della sofferenza, della disperazione e del dolore rubate alla storia dell’orrore da Vishniac, la loro bellezza è ancora intatta, ed è il punto più vicino fra il genere umano e l’eternità.

Roman Vishniac

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