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Roberto Saviano e la fotografia come testimonianza e prova.

di Gerardo Regnani

Se da un lato la realtà fotografica è comunque un’illusione (l’immagine fotografica è sempre un’altra cosa rispetto all’oggetto fotografato), dall’altro si può dire che ogni illusione premeditata ad arte dal fotografo riceve, dalla fotografia, un attestato di verità. […] La foto, nata come scienza, favorisce il proliferare dell’illusione.

Francesca Alinovi.

Roberto Saviano, il 21/01/2021 ha comunicato l’avvio di una sua nuova rubrica su “7” (“Corriere della Sera”) nella quale, come ha annunciato lo stesso scrittore e giornalista, ha programmato di presentare settimanalmente “una foto da condividere […] che possa raccontare una storia attraverso uno scatto o, al contrario, proprio lo scatto sarà la storia (cfr. link: https://www.corriere.it/sette/editoriali/21_gennaio_28/testimoniare-cercando-giusta-vicinanza-lezione-robert-capa-mio-maestro-giornalismo-d45de77e-5fd4-11eb-9078-a18c2084f988.shtml). Il titolo e il relativo sottotitolo dell’articolo che annunciavano l’avvio dell’iniziativa, che trovo comunque particolarmente apprezzabile, mi hanno fatto tuttavia riflettere riguardo alla prospettiva annunciata di questi contributi. E non poco, aggiungo. In particolare, leggendo, nel sottotitolo, la seguente affermazione: “La fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova.”

Mi sembra, infatti, che si delinei il pericolo di riproporre lo storico insidioso assunto della Fotografia intesa come “specchio del reale”. Con quale gradiente di rischio si vedrà, perché, essendo connotato da una inevitabile dimensione soggettiva, dipenderà, in forme variabili e da considerare caso per caso, dallo stesso Roberto Saviano, così come dall’audience.

Si tratta, comunque (se ho ben interpretato quanto ho letto), di un paradigma che, come già accennavo, mi ha fatto riflettere non poco. Penso, più nello specifico, ad un’eventuale sua applicazione particolarmente “rigorosa” – e, come tale, temibile – di questo assunto sempreverde.

Temibile, dicevo, se si considera che da sempre il “corpo” della Fotografia, pur nella sua dimensione via via sempre più multiforme e multimediale, continua incessantemente a mostrare un’antica tara. Penso, come ho scritto anche recentemente, in particolare alla sua perenne oscillazione tra il vero ed il falso. Un’ambiguità di fondo, quella della Fotografia, con la sua perenne oscillazione tra oggettività apparente dei suoi prodotti e l’ineliminabile soggettività connaturata con l’azione stessa del fotografare. Un’oscillazione che, da sempre, rappresenta uno dei nodi (critici) di discussione su questo strategico e storico medium. Un aspetto nodale che riemerge, più che mai attuale, anche nella sua variante “postfotografica” contemporanea. Anche nella sua versione numerica, aggiungo ancora, questa “ombra del reale” non sembra affatto in grado di garantire con certezza che esiste una relazione fra l’immagine e ciò che (forse) effettivamente “è stato”. Un “è stato” del quale essa sarebbe eventualmente una “traccia”. La Fotografia, piuttosto, sembra semmai dimostrare proprio il contrario, ossia l’impossibilità di una concreta duplicazione della realtà. Non vi sarebbe, altrimenti, differenza tra copia e fonte originaria.

Quella della Fotografia – così come di qualsiasi immagine, si potrebbe aggiungere – rappresenta quindi una indeterminatezza pericolosa, alimentata anche dalla presenza in qualsiasi interstizio del nostro quotidiano (dall’abbigliamento agli imballaggi, dagli album di famiglia agli schedari segnaletici, dalle fototessere alla dimensione planetaria e rizomatica della rete). Meandri nei quali, sovente inavvertita, svolge una cruciale funzione di medium tra i media. E, al pari di una sorta di pianta selvatica, che germoglia praticamente ovunque, diviene talvolta anche pretesto visivo per discorsi diretti/provenienti da/verso un altrove. Discorsi che, di norma, sono “esterni” all’immagine stessa e riguardo ai quali una rappresentazione visuale si limita sovente a svolgere un mero ruolo funzionale di supporto visivo.

Divenendo, in tal modo, un potenziale mero veicolo di una sorta di para-discorso estraneo all’immagine stessa, che “conferma” quanto già detto e/o veicolato da altri media, quali, per fare degli esempi, la parola scritta e/o il fotogiornalismo della “carta stampata” o il parlato della tv.

In ogni caso, nonostante le sue apparenti “trasparenze”, la Fotografia resta comunque un segno perennemente ambiguo, con tutto ciò che ne consegue. Ad esempio in fase di ricezione, per chi lo usa come strumento di (re)interpretazione anche dell’ambiente naturale e/o sociale di riferimento, potendo talvolta veicolare “letture” distorte della realtà, anche diametralmente opposte a quelle di partenza. Non ultimo, perché, ogni fotografia, al pari di altra azione umana, anche se mediata da un apparato tecnologico, è, in ogni caso, sempre e comunque una presa di posizione. Un vero e proprio atto “politico”.

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