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Road to Nordkapp – Ventiduesima tappa: Rostok

di Emanuele Mei

Ho sempre adorato ascoltare storie di posti lontani. L’argomento principe di ogni conversazione, tra persone che non si conoscono, sono i viaggi. Quando se ne parla, la gente racconta quasi tutto, ognuno si apre come un libro, soddisfatto delle proprie imprese. Alcune di queste storie di viaggio sono tristi, altre noiose, altre incredibili. Anche io ho sempre raccontato cercando di adattarmi, mettendo l’accento su alcune cose piuttosto che su altre, a seconda di chi avevo di fronte. E’ un lavoro. Se sia il modo giusto di raccontarle non lo so, sicuramente i racconti cambiano impercettibilmente ogni volta che vengono esposti. Alla lunga ho capito che, sia ascoltare che raccontare, non porta mai a nulla. Le storie che ascolti e racconti svaniscono come parole al vento in un battito di ciglia. Ma ci sono dei giorni in cui odio quasi tutto, e mi basta chiudere gli occhi e pensare alle storie di posti lontani che mi hanno raccontato, per rimanere in equilibrio sul mondo.

Il Baltico è uno di quei posti. Lo cerco da sempre. Di solito perdo i calzini nella lavatrice, come se questa fosse un portale che conduce ad una dimensione, in cui i calzettoni, calzini, pedalini, calzettoni, calzerotti e calzette vagano, alla ricerca perenne del compagno per l’eternità, nella terra dei calzini spaiati, come in un girone infernale. Ma non avevo mai perso un calzino dentro una borsa! Mi rassegno e faccio colazione con un Muffin e un caffè in un supermarket lungo la strada. E’ nuvolo, e nonostante la temperatura non sia proibitiva il vento che arriva dalla costa rende la pedalata complicata. Avrei dovuto fermarmi a Schwerin un giorno in più, ma la mancanza di l’elettricità e connessione mi hanno nuovamente imposto una ripartenza ai limiti. Le gambe hanno davvero bisogno di uno stop. Sono schiavo dell’elettricità, è avvilente. Una volta ci si fidava delle sensazioni, oggi si vuole per forza guardare la vita degli altri in tempo reale. E’ un voyeurismo malsano, un’involuzione della specie, che appiattisce l’intelletto. Non c’è più immaginazione, si fruisce dal vita degli altri come se fosse un prodotto di consumo. Lo trovo davvero triste, ma ne faccio parte e forse sono triste anch’io.

Lungo la ciclabile il vento aumenta, portando quell’aria salmastra che m’infonde calore.

Percorro lo stradone della foresta in salita pedalando piano per il dolore alle gambe. Ogni tanto mi fermo volgendomi a guardare quel casolare giallo in fondo alla valle circondato da granoturco e il campanile nero della chiesa gotica del paese che diventa sempre più piccolo. Non sembra cosi grande la Germania adesso che posso tenerla tutta dentro al cuore. Riprendo la salita con la forza che dà la solitudine, pensando agli ultimi giorni passati; il distacco dal mondo andando su e giù per la brughiera, poi dentro le fitte foreste e lungo i fiumi, diretto verso il mondo.

Ma ecco che in cima, ad un tratto, la valle si apre fino al mare, e i miei occhi si riempiono finalmente di blu. Wimar è la prima città che incontro sul mare del Nord. Il gotico baltico, sobrio, mi dà il benvenuto. Case strette e alte, decorate nei frontoni, tetti spioventi, colori pastello e grandi finestre qui dominano da secoli.  Non mi fermo, la meta è Rostock ed è ancora distante. Costeggio il mare per altri 60 km. Il mare. Non penso ad altro da ore. Evoca sensazioni profonde, è una grande strada, in cui mi sono perso con lo sguardo migliaia di volte.

Se pensassimo che nella vita c’è sempre da imparare, l’invecchiamento non risulterebbe cosi doloroso. Dai tempi dell’università il mio stile di vita mi ha fatto fare le esperienze più assurde e mi ha procurato un sacco di fraintendimenti. Molte volte, persone a me vicine, mi sono passate sopra con indifferenza, schiacciandomi, senza rendersene conto. Pur essendone consapevole, sono rimasto a guardare, senza aprire bocca. Raccontare qualcosa onestamente è quasi impossibile, in primo luogo perché bisogna essere onesti con se stessi, che è alquanto complicato. Mettere da parte il proprio ego, quando si crede di avere una qualche capacità, risulta parecchio difficile. In secondo luogo perché l’onestà tocca delle corde che possono risultare fastidiose alle persone che hai intorno. Quindi l’unica cosa da fare è virare sull’obiettività. Onestà e obiettività potrebbero sembrare sinonimi, ma non lo sono. In realtà sono due facce diverse della stessa medaglia. Arrivo a Rostok in tarda serata. Trovo una sistemazione comoda in un ostello, in una piccola frazione, appena fuori dal centro. Corro immediatamente verso il mare. Desidero toccarlo, desidero immaginare cosa ci sia dall’altra parte. A volte ho la chiara impressione di vedere e sentire cose che ho già vissuto. È come se i corvi di Odino, il pensiero e il ricordo, mi sussurrassero all’orecchio sensazioni di una vita già vissuta anni addietro. Questi luoghi mi sono stranamente molto famigliari e mi infondono serenità. Sono i ricordi di un mare dall’orizzonte obliquo, di un cielo cupo carico di nuvole. E’ la memoria di giorni in cui pochi raggi del sole illuminavano le creste candide delle onde e in cui le navi rollavano su montagne d’acqua. E’ un momento intimo, in cui il vedere, viene prima di tutte le  parole che trasformano la natura in spettacolo.

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