La pianura mi terrorizza da sempre. Un orizzonte senza mare non ha nulla di rassicurante. Immensi prati per l’allevamento del bestiame, risaie con i canali che originano le rogge. Grano e mais a perdita d’occhio, qualche vite qua e là. Sono le 7.30 del mattino e l’idea di affrontare il primo tratto della pianura Padana in bicicletta mi mette la stessa ansia che probabilmente avrei ad attraversare lo stretto della manica su una zattera. Mi faccio comunque coraggio pensando di risolverla in paio di giorni, saluto Cogo e Nina, monto in sella alla mia Durindana, e parto alla volta di Verona. In bicicletta le distanze non sono preventivabili, almeno se ti ostini a non utilizzare un navigatore come faccio io. Google ti dice 80 km, aggiungi poco più di un terzo e se non ti perdi quella sarà la tua distanza percorsa nella tappa di giornata. Non ci penso troppo in realtà, come ho già detto non è una gara, e più strada aggiunge più esperienza, ma anche più fatica. Lascio Cava Manara alle spalle e in pochi minuto arrivo a Pavia. La leggenda narra che gli antichi Celti scesero dalla val Susa e si mescolarono ai Liguri per fondare la città di Ticinum. Indecisi sul punto esatto in cui fondarla venne chiamata la più giovane delle figlie del Re che liberò una colomba bianca da una barca in mezzo al fiume affinché con il suo volo rivelasse il destino del suo popolo. La colomba si posò sulla fronda di una quercia per costruire il suo nido. Qui fu posata la pietra miliare della nuova città, sulla riva sinistra del fiume Ticino. La verità è che probabilmente Pavia fu fondata dai Liguri, sottomessa dal console Marcello nel II secolo a.C. e conquistata da Teodorico durante la caduta dell’impero romano d’occidente.
Arrivo al ponte coperto, costeggio il fiume lasciandomi la città rossa dalle cento torri alle spalle in direzione di Piacenza. Entro in un’altra dimensione, intervallata solo da punti e virgole e puntini di sospensione. Il punto fermo arriverà prima o poi. Qui il paesaggio dice sempre la verità, e non è sempre piacevole ascoltarla, specialmente se hai le spalle al muro.
Proseguo con la testa tra le nuvole lungo uno spazio spaesato, fatto di immensi campi di mais, campanili, cascine sparse qua e là. Mi sento proiettato in una dimensione catartica, sensazione alimentata dal caldo infernale. Sono i camion che mi passano accanto che mi riportano momentaneamente alla realtà. Cerco il fiume, non per altro, imitare il suo incedere lento ma inesorabile può essere l’unico modo di andare avanti. Finalmente lo trovo. Eccolo!!! Sua maestà il Po. Mi fermo ad osservarlo per qualche minuto come un naufrago che tocca terra dopo mesi di navigazione, io lo stavo cercando, lui mi stava aspettando. Arrivo lentamente a Piacenza, ma non me ne accorgo e non m’interessa. Non mi fermo nemmeno a guardare la città. Sono completamente assorto nel dialogo con il fiume. Perché il Po, pur essendo un fiume di classe, non è mai diventato un mito come la Senna o il Danubio? Perché non abbiamo mai avuto l’abitudine di percorrerlo? Da Annibale alla seconda guerra mondiale non sono mai state combattute battaglie decisive sulle sponde del Po. Le spiagge sabbiosa delle rive sono affollate di cormorani e qualche locale che approfitta della magra per prendere il sole nelle ore di pausa. E che magra! Tutto tace! La vita del fiume si sposta verso la foce giorno dopo giorno. Arriveranno momenti in cui la piena sarà maestosa, improvvisa e lenta e premerà con forza sugli argini. Solo in questi frangenti la gente si ricorda della natura del Po. Un’entità che non è astratta e fa sentire la sua voce impetuosa.
Forse mi sto prendendo di nuovo delle libertà con la realtà. A volte mi capita, e non finisce mai benissimo. Continuo a pedalare, mi perdo un paio di volte seguendo l’odore di eucalipto, ma ritrovo sempre la strada guardando i segni sui muri per orientarmi, come una sorta di mappa segreta, perché le linee tradizionali tracciate dal sistema restano ostili ed estranee. Dopo 120 km arrivo alle porte della città dei violini, terza tappa del mio viaggio verso nord, frastornato e con l’amaro in bocca ritorno con i piedi per terra. Scoprire il mondo è un impresa davvero difficile, ma ancora più complicato è vederlo. I miei occhi e la mia mente sono abituati a scegliere solo ciò che che è classificato e collaudato. Sarò in grado di vedere un mondo nuovo?
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Vivo in un piccolo paesino della Liguria, in riva al mare, dove sono tornato dopo aver studiato archeologia, arte e fotografia a Genova, Roma e Milano. Da un decennio sono impegnato in progetti a lungo termine con finalità sociali e di approfondimento in est Europa, Asia e nell’area del Mediterraneo. Utilizzo la fotografia come strumento d’indagine nello studio di ciò che mi interessa e quel che mi circonda. Sono da sempre un sostenitore dell’originalità, riversata nel linguaggio contemporaneo che cerco nella mia scrittura, nelle immagini e nella vita. Sostengo l’editoria indipendente e amo il libro in tutto le sue sfaccettature.
Dopo alcuni corsi di tecnica fotografica a Genova durante gli anni dell’Università decido di approfondire le mie conoscenze sul linguaggio e mi trasferisco a Milano dove frequento l’accademia John Kaverdash. Successivamente, sempre a Milano, partecipo alla Bauer dove svolgo un Master in ritratto fotografico e un Master per Photo Editor, per poi passare all’academy dell’agenzia LUZ.
Infine mi accosto a Door a Roma, frequentando dapprima un Master internazionale sul libro fotografico e svariati workshop con autori internazionali, diventandone membro nel 2019.
Sempre nel 2019 svolgo un Master per curatela museale on line presso Artedata.
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