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Road to Nordkapp – Quarantaseiesima tappa: Tore

di Emanuele Mei

La notte arriva la pioggia. E’ scrosciante e scende senza sosta, la sua forza rimbomba contro il guscio della tenda senza tregua. E’ difficile dormire in situazioni come questa.
E’ una pioggia che batte a ritmo del cuore, in bilico tra atmosfere naturali e interiori. Alle 7 del mattino si apre una finestra senza il temporale che dura il tempo di chiudere la tenda, si manifestano all’olfatto le note profonde di ambra e quelle intime del muschio portate dal vento. Parto sotto l’acqua, ma questa volta non è lieve come nei giorni precedenti. Entro a Lulea in cerca di un caffè per caricare le batterie e fare colazione. Spero che il meteo migliori, nel frattempo mi giungono agli occhi, dalla TV, immagini brutali che mi riportano con i piedi per terra. La questione è seria. L’ombra della bomba si sta materializzando sul vecchio continente e le conseguenze sarebbero spaventose. L’assistenza militare statunitense e occidentale all’Ucraina mette Putin in imbarazzo di fronte al mondo intero. La Russia è alle corde e quando un orso è ferito il suo comportamento diventa imprevedibile. Le notizie parlano di aggressioni ucraine in territorio russo, il ponte inaugurato pochi anni fa in Crimea brucia, nessuna regione ucraina è controllata dall’esercito russo, neppure quelle annesse tramite un dubbio referendum popolare. La somma degli eventi non fa pensare a nulla di rassicurante. La credibilità di un esercito potente è da ricostruire, la faccia ormai è persa anche in caso di vittoria. L’operazione militare speciale si è trasformata in un disastro politico che rischia di far precipitare lo stato in una crisi in grado di smantellare la federazione, attraverso guerre civili provocate da attriti decennali tra le etnie che convivono nel territorio russo. Questo fallimento potrebbe cambiare l’entourage politico a capo del Cremlino o scatenare una guerra atomica che cambierebbe definitivamente il mondo come lo conosciamo, da un giorno all’atro.

Questi pensieri non mi alzano il morale che la pioggia già ha buttato sotto le scarpe. Non posso rimanere a Lulea chiuso in un caffè. Per scrupolo controllo i prezzi degli alberghi ma sono fuori portata. Vado. Mi butto sulla E4 sotto l’acqua battente, in pochi minuti sono bagnato fradicio. Non ho nulla di fronte per circa 40 km quindi mi devo rassegnare, devo stringere i denti e andare avanti. Le mani sono raggrinzite dall’acqua, ma almeno i guanti in muta proteggono le dita dal vento gelido. E’ una magra consolazione visto che il piede destro sta lentamente ghiacciando.
Tutto intorno a me è grigio, la luce si percepisce a malapena. Con il passare del tempo il piede destro si blocca. Sento il sangue muoversi a scatti nelle vene. Mi fermo spesso per cercare di riattivare la circolazione saltando su un piede, ma rischio spesso di cadere perché questo non risponde più come dovrebbe. Stringo i denti e individuo un villaggio che si chiama Tore in cui è presente una stazione di servizio. Sono gli 8 km più lunghi della mia vita, sto soffrendo come un cane. La stanchezza, dovuta alla fatica e all’esposizione alle intemperie, comincia a farmi immaginare cose a cui non dovrei pensare. Lo spettro del fallimento aleggia intorno a me, ma non è ancora su di me. Stringo i denti e vado avanti.
Tutto svanisce, la forma, la linea, il colore. Penso che dovrò dormire in tenda, che questa si bagnerà montandola, che non ho il modo di asciugarmi, che piove a dirotto. Precipito in una realtà fatto di grigio medio, piatto. Arrivo finalmente alla stazione di servizio, entro nel ristorante, ordino una birra e una zuppa calda e mi chiudo in bagno. Sono bagnato fradicio, il piede è completamente bloccato, mi tolgo tutti i vestiti, mi asciugo. Sto tremando di un riflesso incondizionato e la mia mente non se n’era accorta. Finita la cena mi avvio alla cassa e la fortuna si presenta di fronte a me. La cameriera mi sorride, mi apre la porta del market dietro il ristorante e mi porta di fronte ad una cartello con scritto “free rooms”. Dentro di me impazzisco dalla gioia.

Con 40 euro riesco ad avere una stanza con un letto e una doccia calda. Il motel non è segnalato in rete, non ha bisogno di pubblicità. E’ un posto semplice in cui gli autotrasportatori passano qualche ora di riposo dopo un lungo viaggio, prima di rimettersi alla guida. E’ il posto perfetto per me in questo momento. La doccia bollente allontana lo spettro di una malanno, anche se sento qualche linea di febbre che mi schiaccia i pensieri. La circolazione riprende a funzionare e il piede torna sensibile. Mi sento sollevato. I pensieri diventano leggeri. Sono vicino al confine e pensare di arrivare in Finlandia in bicicletta mi ricarica dopo una giornata che non definirei fallimentare perché ho comunque coperto una distanza accettabile, ma frustrante, per avermi messo di fronte alla realtà. Questa esperienza mi ha fatto capire cosa mi aspetterà più a nord e sopratutto mi ha fatto comprendere che non posso più permettermi di sbagliare o improvvisare nelle decisioni. La questione si fa seria.

La cecità della forma forza la memoria nel ricordo di quell’immagine che mi rassicura e che mi permette di andare avanti. Sto facendo tutto quello che ho sempre pensato fosse sbagliato e che mi sono imposto di non fare. Il sole sta scendendo e io sono in mezzo al bosco. Il buio mi coglie di sorpresa. Ho freddo, non ho una luce e sono in un luogo popolato da orsi e lupi.
Arrivo ad un bivio con fatica e questo mi porta finalmente sulla strada. La dilatazione luminosa dei fari delle macchine e dei lampioni mi riporta nel mondo dell’immagine. Tornano i rumori e il caos generato dall’antropizzazione del territorio mi rassicura. Il dialogo con il buio che mi circonda si spegne e torno a subire passivamente un linguaggio rassicurante fatto di simboli e segni. Mancano gli ultimi 5 Km di 129, tra poco sarò arrivato. Comincio ad intravedere le sagome della chiesa e dei palazzi che delineano uno skyline disegnato dalle luci nel buio della notte svedese.
Finalmente! La destinazione è un altro ricovero per pescatori ma questa volta non mi trovo più in mezzo al bosco. Lulea è a 6 km e la vicinanza alla città mi rasserena. Le nuvole mi raggiungeranno e questa notte pioverà forte, ma il focolare è coperto. Spettacolo, anche stasera avrò il fuoco.

Scendo dalla bici e zoppico un po’, una palafitta sull’argine cattura la mia attenzione ma è chiusa, peccato. Monto la tenda vicino alla capanna su un fondo pietroso. I picchetti entrano a fatica e devo usare un sasso per fissarli bene. Il fronte della tempesta è vicino e si palesa attraverso lunghe raffiche di vento gelido che muovono le fronde degli alberi. C’è un battaglia in cielo tra le nuvole che si scontrano al di là dell’argine, illuminate dai riflessi rossi e gialli che arrivano dal centro dell’abitato. Spero solo che il guscio della tenda tenga e che il vento non entri a rovinarmi il sonno. Accendo il fuoco a fatica, la legna è umida e non prende bene, il camino non tira molto e l’ossigeno non alimenta la fiamma. Soffio per più di un’ora finché un fumo bianco non comincia a riempire l’interno della capanna. Un brivido di piacere e sollievo mi sale dalle gambe e termina dietro la schiena. Ora posso finalmente abbassare la guardia.

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