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Road to Nordkapp – Quarantaquattresima tappa: Byske

di Emanuele Mei

Il campeggio è deserto. Siamo solo io e alcuni operai che smontano le casette vacanze per la fine della stagione estiva. Oggi è sabato, domenica non si pedala. Mi fermo due giorni passando il tempo nella casa di servizio del campeggio, al caldo, cucinando e rivedendo i miei appunti. Burea è un piccolissimo villaggio sito 20 km a sud di Skellefteå. Le solite case rosse sono tutte in fila lungo la strada. Nel centro una piccola piazza è l’unico punto d’aggregazione per gli abitanti. Alcune persone escono dalla chiesa e si ammassano di fronte all’unico punto di ritrovo, una stazione di servizio che funziona anche da supermercato. Qui la vita è semplice ma noiosa. Il tempo non passa mai. Una nebbia leggera nasconde la forme delle cose. Tutto tace. Il silenzio incarna ciò che le parole non possono dire, diventando una dimensione dell’eloquenza. I pochi rumori sono quasi suoni ed esaltano un senso di vuoto che non è disagio. I corvi si spostano lentamente da un tetto all’altro osservando i movimenti spettrali delle persone che paiono fantasmi .

Lunedì mattina mi sveglio presto, faccio colazione con l’ultimo caffè rimasto che ho portato da casa. Preparo meticolosamente la mia roba e la sistemo sulla bicicletta. M’infilo le scarpe, chiudo la lampo del pile, metto la giacca ed esco. Parto con determinazione, la pioggia è leggera e sopportabile, la strada è bagnata dall’umidità, la terra è tiepida e fumante. In pochi kilometri sono già dentro il bosco fitto, la brezza mattutina m’investe improvvisamente, è allegra e frizzante e mi sveglia come farebbe una tazza di caffè nero. I colori sono quelli dell’autunno inoltrato, tonalità pastello si fondono nella retina con incertezza. Seguo l’odore del muschio a zig zag lungo il sentiero, il profumo delle foglie morte mi buca le narici, ovunque sorgono grossi funghi di diverse famiglie con cappelli e verruche, lisci o a tamburo, di diverse variazioni di rosso, arancione, sfumati di giallo bruno e marrone.
L’autunno è intimo, silenzioso. L’autunno non urla come l’estate, ma sussurra solo a chi lo sa ascoltare.

Pedalo in mezzo al bosco per tutta la giornata guardandomi intorno e respirando a pieni polmoni. D’un tratto mi ritrovo alla foce di un fiume, cerco sicurezza nell’orizzonte ma non lo trovo. L’acqua del mare si perde nel cielo. Tutto intorno a me è luce.
Attraverso un ponte, il cielo è scuro e carico d’acqua. Mi guardo indietro e vedo un villaggio, il campanile della chiesa svetta tra i tetti delle casette in legno. Non mi curo dell’abitato al momento, m’interessa solo trovare un posto sicuro dove passare la notte.
Mi avvicino verso il mare ai margini del bosco, sperando di evitare spiacevoli incontri con predatori della zona. Trovo un capanno di pescatori con un focolare e della legna asciutta. Questo è un luogo in cui si espande la dimensione più intima della vita, la manifestazione estrema della felicità che interpreto come libertà di andare dove mi pare. Il tempo si sgretola, e il paesaggio marino s’impone nella mia mente attraverso una veduta riflessiva.

Sto pensando un paesaggio che sto osservando, la quiete, immagino la fauna ittica che lo popola, la vita che esiste ed è celata ai nostri occhi perché non siamo in grado di guardare e di connetterci con la natura. Chissà se una volta eravamo capaci di farlo? Chissà se questa è un’abilità che abbiamo perso nel tempo per lasciare spazio all’evoluzione tecnologica che ci ipnotizza? La luce scende, non percepisco più la minaccia della pioggia, ma so che arriverà.
Monto la tenda sulla spiaggia e mi siedo sulla riva. I riflessi della luce sul mare impongono a tutta l’area una dominante blu molto marcata, mentre assieme al chiaro scende la temperatura. Metto la pila in testa raccolgo dei rami per accendere un fuoco e togliermi l’umidità dalle ossa. Non è la prima volta che armeggio con le fiamme ma ho il timore di perderne il controllo, però l’idea del conforto che potrebbe darmi mi spinge a provare.
Mentre traffico con frasche e accendino senza troppo successo mi vengono in mente le lezioni del corso di paletnologia, penso alle difficoltà della vita degli antenati, di quanta strada l’uomo abbia effettivamente percorso in così poco tempo. Questi pensieri mi riportano alla stato di natura. Le tecniche di accensione degli antichi erano da pazzi. Le difficoltà che esistevano nel provocare una scintilla sbattendo una pietra contro l’altra, oppure fregando insieme due legnetti con un archetto, sono oggi quasi insormontabili. Io uso un accendino e faccio già una fatica incredibile. Mi viene male al pensiero. Accendere un fuoco è maledettamente difficile ma alla fine ci sono riuscito. Ho vinto. Ho dominato la fiamma.

Sono lontano da tutto. La guerra è una eco che arriva a malapena ma riesce a turbarmi lo stesso attraverso i ricordi. La sfera dei problemi è legata solo alla riuscita del viaggio e le difficoltà stanno crescendo a causa delle elevate distanze e del clima, ma era previsto. D’altronde un viaggio del genere è sempre un problema, ma nonostante tutte le avversità, anche se si passano momenti di sconforto poi si avrà sempre e comunque un ricordo meraviglioso. Prima di rifugiarmi dentro la tenda prendo alcune precauzione per tenere lontani gli orsi e i lupi. Speriamo che funzionino.

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