Reportage Parte 2 | ARLES, LA FOTOGRAFIA IL FESTIVAL.
La prima domanda che mi pongo è cosa mi aspetto dal festival? Dalle mostre che vedo?
Ci penso mentre pedalo verso il centro di Arles su una bicicletta che forse ha gli stessi miei anni ma li porta bene con il colore rosa sempre di moda.
Ecco che tra una pedalata e l’altra mi rispondo: mi aspetto di stupirmi, di vedere i maestri della fotografia così come i giovani, di riuscire a leggere il linguaggio dei famosi e di quello dei meno conosciuti, di emozionarmi, di incontrare qualcuno con cui poter vedere e commentare insieme, di vedere bellezza anche nel dolore, di avere voglia di leggere libri e di conoscere di più su quello che vedo, di incontrare gli autori e parlare con loro, di scoprire ciò che non immaginavo potesse esistere, di avere la bocca sempre aperta, di avere lo stomaco sempre chiuso, di avere la mente sempre all’erta, di ricordarmi ciò che vedo, di essere umile nei giudizi, di rispettare idee scelte linguaggi anche se non mi appartengono, di piangere, di ridere, di conoscere la Storia, la Filosofia, la Psicologia, la Letteratura, di vedere video, di indagare nel cinema, di non dormire dal tormento delle immagini che mi vengono incontro, di leggere e capire, di stupirmi di fronte ad allestimenti inaspettati, di ascoltare conference di attualità, di comprare i libri degli autori, di sognare. Troppo? Non credo! In questo Festival l’attesa, la pretesa è altissima nella certezza che non sarò delusa.
L’esteso programma non mi spaventa consapevole che tutto mi sarà impossibile vedere, ascoltare, conoscere.
Il primo lavoro che vedo proprio sulla strada che mi porta in centro sembra rispondere ad una delle mie tante attese è :“TRANSCENDENCE” un lavoro di sei fotografe giapponesi che esplorano i molteplici linguaggi della fotografia per farne uno strumento di affermazione di resilienza: Mayumi, Momo, Hideka, Tamaki …. Forse non sono ancora pronta per assimilare con attenzione e quindi i sei tentativi mi sembrano troppo frammentati, un pò complicati da seguire, forse troppe artiste tutte insieme nonostante il suggestivo e labirintico allestimento un pò in stile giapponese.
Il Giappone è il paese prescelto per questo festival.
Ecco la scoperta di Ishiuchi Miyako, vincitrice del premio fotografico Women In Motion 2024 che ascolto e vedo con ‘sacrale’ attenzione alla prima serata al Teatro Antico di Arles, dove lei illustra al pubblico il suo percorso e il suo punto di vista sul ruolo delle donne nella fotografia e nella società.
Ecco una delle prime concrete risposte che mi fornisce il festival : la presenza autorevole di una grande maestra della fotografia. Ishiuchi si presenta con il kimono della nonna e dal suo portamento e dalla sua ironica voce emerge consapevolezza nell’uso del linguaggio della fotografia sapendo ciò che la sua sensibile creatività vuole esprimere. Sfodera come un vero samurai l’arte del portamento, della parola, della fotografia. La ricerca della persona, di sua madre, di Frida Kahlo, dei morti della bomba di Hiroshima attraverso gli oggetti: abiti, orologi, scarpe etc… Lei esprime la sua sofferenza così con la bellezza estrema di uno still life appartenuto a qualcuno che ha avuto un significato profondo nella sua vita. L’abito ricercato della madre, le scarpe con il tacco diseguale di Frida Kahlo, l’orologio bruciato di uno dei tanti morti di Hiroshima.
Il linguaggio della fotografia si svela attraverso delle cose – non dei paesaggi, non dei ritratti, non delle architetture – si svela con delle ‘cose ‘che penetrano nella pelle nella mente e ci pongono domande: com’era sua madre? Il rossetto è rosso come quello che usava la mia di madre. Il rapporto con lei era come lo è stato con la mia? La percezione di un artista come Frida Kahlo è lo stesso che provo anch’io? Quel dolore che emerge dalle sue tele si cristallizza nei tacchi delle scarpe e l’artista inimmagibilmente diventa più donna più vera più viva. Nell’esposizione dedicata a Miyako dal titolo ‘BELONGINGS’ ci sono anche immagini tratte dal lavoro “ひろしま/hiroshima”, quello che le ha procurato un successo internazionale e che aveva iniziato nel 2007: una serie di immagini di oggetti appartenuti alle vittime della bomba atomica (hibakusha). Per Miyako “scattare una foto significa misurare la propria distanza dal soggetto e rendere visibili le cose invisibili che si trovano sotto la superficie.” Ishiuchi Miyako si impegna a fotografare, ogni anno, al museo di Hiroshima i nuovi oggetti che arrivano. Altre sue immagini, più di reportage, si trovano anche all’interno della mostra “LABORATORIO DONNE IN MOVIMENTO 2024: CHE GIOIA VEDERVI, FOTOGRAFE GIAPPONESI DAGLI ANNI ’50 AD OGGI!”. Interessante scoprire una nuova emozionante prospettiva sulla fotografia giapponese, una sfida ai precedenti storici e al canone stabilito ma anche un riferimento alla storia della fotografia in generale. Forse tante fotografe, tanti lavori che non mi hanno consentito di dedicare il giusto tempo e apprezzare meglio alcuni lavori. La fotografa in mostra più ‘âgée’ vivente è Okanouse Toshiko nata il 1928 e la più giovane Katayama Mari nata nel 1987. In comune forza e delicatezza, creatività e bellezza.
Il Giappone continua con “REPLIQUES 11/03/11 DI FOTOGRAFI E FOTOGRAFE GIAPPONESI DI FRONTE AL CATACLISMA” che mostra come hanno reagito artisti e artiste giapponesi di fronte alla catastrofe generata dal sisma magnitudo 9 dell’11 marzo 2011. Era necessario creare una memoria visiva per registrare sia il visibile – la scomparsa degli esseri umani, il crollo o la trasformazione del paesaggio – sia l’invisibile – la radioattività e le sue conseguenze. Una visione potente presentata ad Arles per la prima volta come collettiva – tanti giovani bravissimi – per portare in Europa i danni di una tragedia che ha profondamente toccato il Giappone.
Quest’anno ad Arles il Giappone si fa sentire per la sensibilità, per la Storia e anche per la tradizione con una suggestiva, poetica mostra di Uraguchi Kusukazu dal titolo AMA nella meravigliosa Abbazia di Montmajour. Una nuova conferma alle mie attese: conoscere nuovi mondi nuove storie! Da oltre tremila anni le ‘ama’, le donne di mare giapponesi, popolano le coste dell’arcipelago immergendosi in apnea alla ricerca di alghe e abalone (una vera prelibatezza di mare). Kusuzaku, che si occupa del commercio di perle, diventa un fotografo amatoriale giapponese poiché si appassiona alla vita di queste donne che ci vengono presentate in una dimensione così lontana dalla nostra realtà da farle sembrare delle sirene di mare piuttosto che delle instancabili lavoratrici per mantenere vivo un lavoro, una tradizione tutta al femminile! Ho sentito l’acqua sulla mia pelle, ho faticato a togliere la tuta di lavoro, ho guardato l’orizzonte perdendomi alla vista di un mare imprevedibile.
Dal Giappone agli Stati Uniti un bel vedere! : LEE FRIEDLANDER FRAMED BY JOEL COEN, un favoloso fotografo e un acclamato regista. Quasi paradossale, surreale!
La mostra curata da Joel Coen presenta circa 70 fotografie di Friedlander e un film che abbracciano la sua carriera di oltre 60 anni, mettendo in luce anche molte immagini meno conosciute. È vero che Friedlander è conosciuto ma vedere dal vivo le sue fotografie di composizioni dense e anticonformiste, stampate con una qualità superba è stata una immersione in totale apnea per quasi due ore alla quale si sono affacciate mille domande: come ha fatto a riprendere quella donna che esce da dove? E quella luce? E la perfezione delle linee? E l’idea di riprendere segnali di stop e pali dell’elettricità, portiere di auto e parabrezza, alberi e ombre? Accontentiamoci di quello che dice Coen: “Lee Friedlander divide, scheggia, ripete e frammenta elementi che poi riassembla in composizioni nuove e impossibili” e accontentiamoci anche del catalogo della mostra che ormai sembra già fuori stampa!
Un’altra americana in mostra, una fotografa umanista che fa parte della Storia della Fotografia a tutti gli effetti: Mary Ellen Mark con RENCONTRES. Una vera e propria antologica di una donna che innanzitutto ha cercato, con la libera intenzione di essere testimone di realtà diverse, nei molteplici strati della nostra complessa società ciò che si vede ma non si conosce, ciò che ci inquieta ma che sediamo non guardando, ciò che ci attrae ma che ci fa paura. Le antologiche sono un grande aiuto, come in questo caso, per conoscere meglio un artista, una fotoreporter e comprenderne i suoi valori e il suo linguaggio. Ci vuole tempo per apprezzare ciò che lei dichiara con estrema semplicità: “Ciò che cerco di fare è fare fotografie che siano capite universalmente …. che attraversano i confini culturali. Voglio che le mie fotografie riguardino le emozioni e i sentimenti di base che tutti noi proviamo.” Semplice, chiara, diretta come le sue immagini che hanno sempre una poetica di chi sente, percepisce, ascolta, avverte prima di fotografare. Gli occhi dei protagonisti delle foto della Mark mi hanno perseguitato per tutta l’esposizione…la tristezza dei tanti sguardi nei ritratti da lei ripresi di giovani, clown, uomini, donne: un’abissale tristezza quella di chi la vita la deve accettare così come viene. Nella sua fotografia umanista mi piace evidenziare il lavoro a colori di “Falkland Road. Prostitute di Bombay” e concludere con quanto Mary Ellen Mark si è trovata ad affrontare:” Signora “Non mi piace prendere ragazze vergini. È troppo pericoloso. Posso avere problemi con la legge. Mi ci sono voluti 4 mesi per entrare a Putia”.
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“La mia tipica cena”
Dal 2015 mi dedico attivamente al progetto ArtPhotò con cui propongo, organizzo e curo eventi legati al mondo della fotografia intesa come linguaggio di comunicazione, espressione d’arte e occasione di dialogo e incontro. La passione verso la fotografia si unisce ad una ventennale esperienza, prima nel marketing L’Oreal e poi in Lavazza come responsabile della comunicazione, di grandi progetti internazionali: dalla nascita della campagna pubblicitaria Paradiso di Lavazza nel 1995 alla progettazione, gestione e divulgazione delle edizioni dei calendari in bianco e nero con i più autorevoli fotografi della scena mondiale fra cui Helmut Newton, Ferdinando Scianna, Albert Watson, Ellen von Hunwerth, Marino Parisotto, Elliott Erwitt e i più famosi fotografi dell’agenzia Magnum.
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