Esponente della fotografia contemporanea italiana in quanto autore e studioso Pio Tarantini vive e lavora a Milano dal 1973. Ha studiato presso il liceo classico di Lecce nella seconda metà degli anni sessanta e poi si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università Statale di Milano. I suoi primi lavori in fotografia li realizza proprio nel Salento, sua terra d’origine e sono reportage in bianco e nero a carattere sociale: risale al 1972 la sua prima mostra, a Brindisi, su alcuni aspetti di degrado in questa città.
Pio Tarantini, hai ricevuto da poco un prestigioso premio alla carriera e mi piacerebbe raccontare ai nostri lettori il tuo percorso nella e con la fotografia. Innanzitutto, come ti si potrebbe definire in poche parole?
La complessità del mio percorso fotografico ‒ e adesso posso dire anche la sua durata nel tempo ‒ mi spinge a considerarmi un fotografo eclettico, che non è facilmente riconoscibile in un ambito della fotografia riconducibile a un genere, come si suole distinguere comunemente, per comodità di definizione quando si tratta di inquadrare il lavoro di un fotografo. Mi piace spaziare in diversi campi, dal reportage sociale al paesaggio, dal ritratto realistico alla fotografia concettuale o di totale finzione. Non a caso, al proposito, i miei fotografi di riferimento sono due cari amici, Nino Migliori e Mario Cresci, ambedue battitori liberi impossibile da incasellare in un genere.
Sono molto contento di questo Premio che arriva da Fabio Castelli e dagli altri componenti del comitato scientifico di MIA Photo Fair perché lo trovo rispondente alla mia storia professionale che mi vede impegnato in fotografia su fronti molto diversi, dalla produzione all’insegnamento, all’attività giornalistica e saggistica.
La tua prima mostra risale al 1972, quasi 50 anni fa. Tu hai lavorato molto sul tema del tempo e della memoria. Che cosa è cambiato e cosa invece è rimasto inalterato in questo tempo che muta velocemente?
Sì, la mia prima mostra, intitolata Quartieri degradati a Brindisi, rispondeva in pieno, più che all’esigenza della professione che allora praticavo solo amatorialmente, al mio impegno politico-sociale. Una mostra dunque dal taglio reportagistico con un linguaggio che risentiva dell’influenza della grande tradizione americana degli anni Trenta/Quaranta, molto asciutto, salvo qualche concessione alla poetica bressoniana.
Il mio trasferimento a Milano, dell’anno seguente, il 1973, comportò anche una lenta riflessione sul mio rapporto con la terra natale e con la mia giovinezza, introducendo dunque, soprattutto negli anni Ottanta, la riflessione sul tempo e la memoria. Un aspetto che ho continuato, seppur in forme diverse, a elaborare nei decenni successivi. Oggi, come tu dici, la velocità con cui pare che il tempo scorra anche per le maggiori sollecitazioni e veloci trasformazioni della società, non mi impedisce tuttavia di interrompere questo cammino di confronto e riflessione sul tempo e sui modi del nostro stare al mondo.
A metà degli anni Ottanta apri a Milano la galleria “La camera chiara”, nome che ci porta al celebre saggio di Roland Barthes. Oggi, di fronte al mondo digitale, cosa direbbe Barthes?
Cosa direbbe Barthes ovviamente non posso saperlo, al più posso immaginare che la iperproduzione di immagini fotografiche e l’uso spasmodico che i procedimenti digitali consentono sia come produzione che come divulgazione lo avrebbero messo di fronte a nuove sfide concettuali che probabilmente con la sua acutezza di pensiero avrebbe riempito di nuove interpretazioni sui significati e la fruizione di queste immagini. Certo quando in un piccolo spazio nel Centro Direzionale di Milano, non lontano dalla Stazione Centrale, riuscii ad aprire e mantenere per quasi tre anni “La Camera Chiara”, con la consulenza artistica di Roberta Valtorta che mi suggerì alcuni giovani fotografi, eravamo quasi in un’era pioneristica dal punto di vista delle gallerie dedicate esclusivamente alla fotografia. E il mitico saggio di Barthes ‒ insieme a quello di Susan Sontag “Sulla fotografia” ‒ era diventato una sorta di Bibbia della riflessione contemporanea sulla fotografia. Forse insieme alle eventuali riflessioni di Barthes, oggi, a ragionare sulla cosiddetta rivoluzione digitale e sui cambiamenti nei sistemi di comunicazione, sarebbe più interessante conoscere le riflessioni della stessa Sontag, o di Gisèle Freund che a suo tempo scrisse Fotografia e società (prima edizione italiana del 1974) o dell’altro mito, in questo campo, Marshall McLuhan.
Infatti McLuhan ‒ di cui ricordiamo i saggi più noti Il mezzo è il messaggio (trad. it. 1969) e Il villaggio globale. XXI secolo: trasformazioni nella vita e nei media (Trad. It. 1995) ‒ all’epoca parlò prevalentemente di televisione, stampa e radio – i mezzi di comunicazione più diffusi di allora; secondo te il suo pensiero potrebbe essere adattabile alla società iperconnessa in cui viviamo?
A dire il vero McLuhan già tra gli anni Sessanta e i Settanta aveva intravisto quanto poi si sarebbe avverato in termini di comunicazione telematica anche se in quei decenni non esistevano ancora internet e i personal computer: lui però aveva già prefigurato questo sviluppo tecnologico. Ma questa è storia, mentre risulta molto difficile, se non impossibile, ipotizzare cosa avrebbero pensato o scritto questi studiosi ai giorni nostri.
Tornando ai temi più specifici del mondo della fotografia, cosa pensi dei vari “Award” nel mondo?
Ti confesso che non seguo molto questi aspetti, quando capita leggo velocemente le notizie ma non riesco neanche a memorizzare nomi ed eventi a meno che non riguardino fotografi di cui conosco il profilo professionale e quindi, almeno in parte, i loro lavori. In generale posso dire che quando sono stato chiamato a far parte di giurie sono stato e sono sempre un po’ riluttante perché mi rendo conto che, quando il concorso è veramente “pulito”, si tratta di cercare un onorevole compromesso tra le diverse opinioni dei giurati, con risultati a volte ottimi, altre mediocri, altre molto discutibili. Ma questo accade in tutti i campi, dalla letteratura al cinema, dalle arti visive a quelle musicali. Poi c’è da aggiungere anche, per quanto so io del mondo della fotografia, che purtroppo a volte nei concorsi i vincitori sono già in un certo senso quasi stabiliti in partenza perché ogni “giudice” ha i suoi fotografi di riferimento o i suoi protegé, tra quelli in lizza; e questo purtroppo accade molto più spesso di quanto si pensi. Molto meglio invece i Premi in cui una giuria o un comitato scientifico individua un lavoro o un autore a cui viene assegnato un riconoscimento che premia una sua ricerca specifica o un percorso autoriale.
Secondo te quando il reportage di guerra viene traportato dai magazine alle pareti dei musei, subisce un cambiamento di linguaggio? Cambiando il fruitore cambia anche il messaggio?
Certamente avviene questo cambiamento, perché un conto è la fruizione diretta, attraverso i mezzi di comunicazione, che è il motivo principale per cui viene concepito e realizzato un reportage sociale, un altro è il momento in cui la stessa fotografia viene musealizzata diventando un oggetto d’arte. C’è d’altra parte da aggiungere che le fotografie di reportage sociale ‒ oltre ai metodi consueti e tradizionali di diffusione mediatica come la stampa quotidiana e periodica ‒ vengono diffusi anche attraverso mostre allestite in spazi pubblici e privati, permettendo dunque a un’altra diversa platea di spettatori di conoscere questi lavori. Certo la fotografia drammatica di eventi tragici che finisce sulle pareti di una galleria con lo scopo di essere venduta al miglior prezzo pone non poche questioni etiche. Ma sono le contraddizioni ‒ non credo superabili ‒ del sistema.
Da poco c’è stato il MIA FAIR, fiera internazionale d’arte dedicata alla fotografia, dove ti è stato consegnato il premio alla carriera. Cosa o chi definisce una fotografia un’opera d’arte e il suo autore un artista?
Domanda da un milione di dollari, provo ad accennare una risposta: una fotografia diventa arte quando riesce a concretizzare visivamente un fatto, un’idea, un progetto mentale, una situazione, in modo da solleticare il pensiero e dello spettatore, senza cadute nel cattivo gusto, ma con la consapevolezza della complessità del linguaggio che è il risultato sempre più complesso delle esperienze visive precedenti. La storicizzazione come arte di una fotografia o come artista di un autore avviene nel tempo ‒ per mezzo degli studiosi e dei critici ‒ secondo i consueti percorsi tracciati dalla storia dell’autore, dai suoi lavori, dalla sua cultura, da quanto e da come riesce a trasmettere con le sue immagini. Molto spesso in questo campo, ma non solo in fotografia, interessi economici creano e impongono autori che il tempo rivelerà inadeguati a sostenere il successo raggiunto. Ma questa è un’altra storia.
Come può un giovane autore farsi conoscere nel mondo dell’arte fotografica?
Con lo studio, la passione, la perseveranza, l’umiltà e la capacità di non puntare immediatamente al successo, ma alla serietà di un percorso carico di senso.
Come abbiamo detto all’inizio di questa intervista tu svolgi la tua attività in campo fotografico in diversi ambiti: vorrei chiederti quali sono i tuoi progetti futuri espositivi e di scrittura.
Per quanto riguarda le mostre si tratta di riprendere un certo ritmo dopo più di un anno e mezzo di forzata chiusura dovuta alla pandemia. Da questa estate si è ripreso con grande e rinnovata volontà di tornare alla normalità in tutti i campi e non a caso, tra settembre o ottobre, mi sono trovato coinvolto in molte mostre collettive in diverse città italiane. Per il prossimo anno dovrei riprendere anche con le mie mostre personali mentre l’attività pubblicistica ha visto già la mia presenza a MIA Fair appena concluso con un volume/fascicolo che fa parte di un cofanetto con i lavori di altri cinque fotografi, pubblicato dalle Edizioni Massimo Fiameni, noto per realizzare volumi pregiati, confezionati a mano in edizione numerata. La mia attività di scrittura, oltre alle collaborazioni con diverse riviste, vedrà entro l’anno in corso la pubblicazione di tre miei lunghi articoli, in forma di brevi saggi, su altrettante prestigiose riviste di arte e cultura. Continua sempre il mio impegno settimanale con la rubrica BuonaDomenica# sul mio profilo Facebook e allo stesso tempo la divulgazione dell’omonimo recente volume che raccoglie i primi due anni della rubrica.
Grazie Pio. Ti auguro buona continuazione del viaggio e invito i lettori a continuare a seguirti sulle pagine di CineSud Fotomagazine.
Scopri di più sulla rubrica “Fotografia e dintorni” di Pio Tarantini su Cinesud Fotomagazine
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Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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