Perché, cosa, come: con queste tre domande sul senso dell’atto fotografico si chiudeva il mio intervento pubblicato in questa sede (vedi: https://www.phocusmagazine.it/la-fotografia-e-viva-ma-spesso-non-lotta-insieme-a-noi-pio-tarantini/), il primo di una serie di appuntamenti programmati in chiave divulgativa con lo scopo di riflettere sulla fotografia ad ampio raggio, dal suo statuto alla sua fenomenologia.
Un compito arduo perché ritengo che discettare su questi argomenti sia una questione molto delicata, in cui inevitabilmente le convinzioni personali dell’autore, la sua formazione, la sua cultura, sensibilità e approccio critico al tema incidano profondamente sulla struttura dell’esposizione. Tenterò dunque di percorrere questa strada, così come risulta dal primo intervento, avvisando i lettori di queste note che i miei convincimenti sono uno dei tanti possibili modi critici di analisi del problema, utili al più per stimolare altre diverse riflessioni con cui comporre un quadro dialettico della questione.
Perché fotografare?
Dunque perché fotografiamo? Le risposte ovviamente possono essere tantissime, dall’esigenza professionale di produrre reddito per campare ‒ ma ormai questa esigenza, pur restando importante, è diventata quasi marginale ai fini di un’analisi fenomenologica della questione ‒ a quella amatoriale di veder riconosciuto il proprio talento creativo a imitazione dei più affermati fotografi/artisti, a quella puramente personale di documentazione degli eventi, piccoli e grandi, privati. Scrivevo, nel precedente appuntamento, che, come è arcinoto, la cosiddetta rivoluzione digitale ha comportato una crescita esponenziale dell’atto fotografico: per realizzare una fotografia non occorre più scegliere e comprare una macchina fotografica da usare soltanto in determinate circostanze, ma basta possedere un telefonino che, con le nuove tecnologie, è in grado di produrre immagini di buona se non ottima qualità tecnica. E siccome i telefoni cellulari sono diventati ormai, in buona parte del mondo, tanti quanti la popolazione residente si può affermare senza tema di smentita che siamo tutti fotografi. Ragionamento ineccepibile dal punto di vista storico-sociologico oltre che puramente operativo: ragionamento su cui avviare qualche riflessione se si vuole invece cercare di capirne complessità e risvolti.
Ho già accennato, la volta scorsa, che, per quanto riguarda coloro che si interessano di fotografia in modo più approfondito ‒ che travalica il semplice gesto comune a tutti di documentare piccoli e grandi eventi personali ‒ dobbiamo prendere in considerazione quella ampia fascia di cosiddetti amatori che si dedicano alla fotografia per diletto e soddisfazione personale non perdendo di vista, anzi considerandola come punto di riferimento, la più ristretta fascia di professionisti che di fotografia campano o perché svolgono un lavoro legato direttamente alla loro clientela e committenze ‒ fotografia di matrimonio, pubblicità, moda, editoria… ‒ o, fascia ancor più ristretta, di fotografi che riescono a vivere della loro ricerca e produzione artistica.
Tra mercato e ricerca artistica
A questa larga fascia di professionisti e soprattutto amatori che suppongo possano essere i lettori di questa rivista sono rivolte le mie note sperando che possano servire ad aprire spiragli di riflessione.
In questo ambito la prima risposta alla domanda perché fotografiamo non può essere che quella già accennata: per il professionista l’esigenza di dimostrare che può offrire un prodotto migliore degli altri, secondo le normali leggi di mercato, e per l’amatore che può realizzare fotografie diverse dai milioni di immagini prodotte quotidianamente a livello di massa, gratificando così la sua vera o presunta capacità creativa. Intendimento, questo, naturale, e comprensibile, nell’animo di ogni persona che voglia dare pubblicamente un segno di sé, in questo caso legato alla sua capacità di produrre immagini diverse da quelle comuni, servendosi di un sistema tecnologico.
Basta questo a giustificare l’enorme proliferazione di produzione fotografica amatoriale? Umanamente e sociologicamente sì, basta questo. Anzi questo aspetto, anche economicamente, innesca un ottimo meccanismo produttivo che coinvolge il mercato della fotografia e di conseguenza anche i suoi risvolti culturali. Basti pensare all’enorme successo che hanno riscontrato in Italia iniziative commerciali come il vecchio SICOF (Salone Internazionale di Cine Ottica Foto): e chi ha qualche anno ricorda quei ferventi appuntamenti alla Fiera di Milano dove l’aspetto commerciale era accompagnato dalla “Sezione Culturale”, curata per molti anni da Lanfranco Colombo, il primo ad aver aperto nel nostro Paese, e tra i primi in Europa, una galleria esclusivamente dedicata alla fotografia.
Si continuò con il PhotoShow, che ricalcava le orme del vecchio SICOF, per giungere a una esperienza diversa, dedicata non più agli aspetti commerciali della tecnologia ma a quelli della fotografia d’arte: il MIA Photo Fair, la manifestazione internazionale ideata e realizzata dal collezionista e studioso Fabio Castelli che ogni anno, dalla prima edizione del 2011, attrae nel capoluogo lombardo migliaia di operatori e appassionati, smaniosi di vedere, capire e incontrare tantissimi autori operanti nell’ambito della fotografia cosiddetta d’arte (ma a questo proposito si apre un altro discorso che prima o poi affronteremo).
Per non parlare delle tantissime iniziative fotografiche che ormai si realizzano in ogni piccolo e grande centro italiano: mostre, festival, incontri, workshop e via dicendo.
Un meccanismo imponente o quanto meno non trascurabile che nel nostro Paese ormai coinvolge diverse centinaia di migliaia di persone. Alla luce di questi dati dunque possiamo confermare la prima risposta: si fotografa per campare ‒ la cerchia dei professionisti ‒ e per soddisfazione personale. Ma c’è un altro aspetto, su un altro livello e che non bisogna trascurare, ed è quello che coniuga il bisogno personale di affermazione con il bisogno di indagare altre strade di lettura fotografica del mondo: un bisogno dunque strettamente legato all’aspetto più squisitamente legato al linguaggio. È questo, probabilmente, l’aspetto che interessa o dovrebbe interessare chi fa fotografia non solo per professione ma anche per passione: perché, una volta stabilito che cosa fotografare, e di questo altro aspetto parleremo prossimamente, il modo con cui si fotografa diventa l’elemento importante e in un certo senso discriminante.
Cosa fotografare
Le motivazioni che ho tentato di illustrare nelle righe precedenti sul perché fotografare mi paiono sufficienti per un primo approccio al problema: si tratta ora di stabilire che cosa si fotografa.
Quando si è trattato di affrontare questo tema, per quanto mi riguarda e in funzione didattica o colloquiale, ho sempre impostato il discorso partendo da esperienze artistiche e culturali più generali, ricorrendo a esempi storicamente consolidati. Restando nell’ambito della cultura occidentale, che è quella alla quale apparteniamo e che io conosco meglio, è indubbio che i temi ‒ in un certo senso quindi il che cosa ‒ dell’arte, soprattutto letteraria e visiva, della nostra cultura sono, e non potrebbe essere diversamente, sempre gli stessi da quando l’uomo ha cominciato a lasciare traccia di sé: dai graffiti paleolitici, che rappresentavano in modo elementare e schematico la lotta per la sopravvivenza, all’epica omerica di duemila e settecento anni fa. Nei due poemi, l’Iliade e l’Odissea, ci sono già tutti i temi della nostra cultura e quindi del nostro stare al mondo: l’amore, la morte, la guerra, la pace, il viaggio, la religione, e tutti gli altri sentimenti umani che danno senso alla nostra esistenza. Su questi temi si è giocato sostanzialmente il cosiddetto canone occidentale che il critico letterario americano Harold Bloom con il suo “Il canone occidentale. I libri e le scuole dell’età” (edizione italiana Bompiani 1996) nell’affrontare lo sterminato universo della letteratura occidentale ha saputo sapientemente delineare seguendo ovviamente il suo personale discorso critico. Da Omero a Dante, da Shakespeare a Tolstoi, Bloom indica un percorso in cui i grandi temi citati si intersecano con l’altro aspetto fondamentale del nostro discorso, lo stile, il come, cioè, della creazione artistica e di cui parleremo successivamente e in modo più articolato perché alla fine è questo probabilmente il nodo centrale della questione.
Tornando invece al cosa, al soggetto/oggetto delle nostre fotografie risulta evidente come questi grandi temi che agitano le nostre vite siano gli stessi di quelli citati nel generale disegno della letteratura occidentale ma anche mondiale, anche se in altre culture questi temi vengono affrontati con spirito e stile diversi.
Cosa fa il fotografo di reportage se non fotografare i piccoli e grandi avvenimenti della nostra epoca? Dai conflitti sociali alle guerre, ai grandi esodi di intere popolazioni, dalle malattie ai privilegi, ai problemi degli abitanti delle nazioni privilegiate. Ma anche il fotografo che non si occupa di reportage, quello invece attento ad altri ambiti, alle mutazioni del paesaggio, alle forme di bellezza consolidate nelle varie culture, al ritratto, non fa altro, anche se in modi molto diversi, che raccontare in forma visiva il nostro stare al mondo con le sue luci e le sue ombre.
Questo aspetto del che cosa in fotografia è stato da sempre notoriamente ordinato nei cosiddetti generi fotografici, una catalogazione semplificativa forse utile per afferrare subito il quid del che cosa, ma per altri aspetti fuorviante: si può infatti affermare che quasi tutta la produzione fotografica appartiene alla grande categoria della documentazione/reportage.
Che poi questa documentazione si sviluppi attraverso il reportage più strettamente legato all’ambito storico-sociale, oppure alla ritrattistica, o alla moda e pubblicità, o al paesaggio, oppure ad altre forme che sembrerebbero molto lontane da una concezione restrittiva di documentazione come il nudo o la ricerca artistica, in fin dei conti si tratta sempre di una documentazione del mondo. Un prelievo visivo, più o meno aderente al reale percepito, che rispecchia la concezione basilare di traccia: la fotografia cioè come un’impronta del mondo. Interpretazione, questa, soggetta a importanti critiche di carattere ermeneutico, che mettono in discussione una antica e consolidata convinzione: che la fotografia sia cioè la rappresentazione visiva del mondo reale, del mondo così come è veramente. Già, ma alla luce del pensiero filosofico moderno sappiamo che è difficile definire il mondo così come veramente è o sarebbe: il mondo probabilmente è più come ognuno di noi lo percepisce e la fotografia rispecchia sempre lo sguardo dell’operatore.
Tornando infine alla questione dei generi fotografici da lungo tempo ormai questa catalogazione è considerata superata e dovremmo imparare a considerare ogni fotografo non in base alla sua specializzazione di genere ma in base alla sua capacità di fissare nell’immagine che produce quelle porzioni di mondo non solo per che cosa fotografa ma soprattutto secondo la sua capacità di organizzare il linguaggio. Il come insomma. E avremo modo di parlarne.
Le fotografie che accompagnano questo intervento sono di Francesco Radino, uno dei più noti fotografi italiani che, partendo dal reportage, ha attraversato, nel corso di 50 anni di storia fotografica, molti dei cosiddetti generi fotografici, in sintonia con una concezione della fotografia da realizzare ad ampio raggio. Nel 2019, in occasione di una sua importante mostra presso la Fondazione MUDIMA di Milano ha pubblicato un volume antologico di grande pregio: Francesco Radino. Fotografie 1968-2018, a cura di Roberta Valtorta, con molti testi di altri studiosi in italiano e inglese.
Copertina cartonata; formato cm 30×24; pagine 320.
Silvana Editoriale, Euro 49,00.
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Nato nel 1950 nel Salento, Pio Tarantini ha compiuto studi classici a Lecce e poi Scienze Politiche all’Università Statale di Milano, dove vive dal 1973. Esponente della fotografia italiana contemporanea in quanto autore e studioso ha realizzato in quasi cinquanta anni un corpus molto ricco di lavori fotografici esposti in molte sedi italiane pubbliche e private.
La sua ricerca di fotografo eclettico si è estesa in diversi ambiti, superando i vecchi schemi dei generi fotografici a partire dal reportage, al paesaggio, al concettuale… Leggi tutto
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