Quando la fotografia non aspira all’universale e le sue storie migliori sono quelle di pentimenti o di successi… tutto ciò che è valido si separa o muore in un autore… che il diavolo sia con noi… i santi e i profeti sono già stati tutti venduti al mercato delle ideologie (e dei terrori che ne conseguono) per pochi soldi… nei beatificati come nei politici e anche negli artisti, sonnecchia un imbecille e quando si sveglia c’è un po’ più violenza sulla terra… nella foresteria dell’assurdo restano gli uomini di spirito, gli irriconciliati con tutto quanto figura il naufragio della civiltà della paura e passare dalla vita alla fotografia e dalla fotografia alla vita. La fotografia sarebbe intollerabile senza la poetica dell’assurdo che la nega.
La fotografia dell’assurdo è una figurazione della realtà e costruisce una situazione che la supera e diventa mondo… è la poetica del pensiero umiliato degli ultimi o di un solo uomo, non importa… il fotografo assurdo non ha né cerca via d’uscita se non per passare a distruggere i pregiudizi della ragione… la sua grandezza è l’illogicità, il disprezzo in via assoluta per il razionale è la crocifissione della speranza e nella belligerante nostalgia dell’assurdo trova nella rivolta un’adesione forsennata che illumina le certezze me ne previene o anticipa la caduta… “l’assurdo è il peccato senza Dio” (Albert Camus)… non c’è riconciliazione nell’assurdo, né scandalo… l’assurdo è l’eterno ritorno all’infanzia intramontabile di Nietzsche che anticipa i propri limiti e disimparando a sperare trova quel viatico in libertà che nasce dall’anarchia.
La fotografia dell’assurdo di Raota non si configura nella semplicità, nell’immediatezza né tantomeno coglie l’attimo irripetibile tra soggetto e fotocamera (alla Cartier-Bresson, per intenderci)… la fotografia di Raota – definita “caravaggesca” per “l’uso naturale del chiaroscuro” (?) -, non ha niente a vedere con tutto questo, semmai ha filamenti e coordinate più teatrali che pittoriche… e poi, la fotografia (come qualsiasi arte autentica) non ha genere (è un’invenzione sovrastrutturale dell’industria culturale… gli affari sono affari diceva il boia di Londra!). La fotografia è una: quella bella e quella brutta! La fattualità del consenso si crea nel delirio e si disfa nella merce! Senza un’immaginazione traboccante di bellezza o di pietà non esiste giustizia né valore e solo nel disvelamento del marcio dei precetti nasce la violazione dell’imposto… non c’è rimpianto né rimorso a coltivare l’imperfezione e l’avventura – in piena coscienza – del disinganno… la creatività sovversiva sta nella volontà di non essere cadaveri dell’ossessione imperialista del mercato… vivere e morire a viso scoperto… sapendo che non solo nel cuore si fabbricano utopie.
La forza evocativa delle fotografie di Raota è una sorta di realismo magico… le immagini sono colme di tenerezza, di crudezza, anche, esprimono un linguaggio caldo, partecipativo… e confina spesso con ciò che tratta… giustamente il fotografo dice: “Un fotografo pensa un’immagine e se non esiste la crea!”. La struttura dei corpi, la costruzione del momento, la nobiltà umana espressi nelle immagini di Raota respingono l’indifferenza e s’accorpano all’innocenza del vissuto come destino… non c’è ottimismo nelle fotografie dell’argentino, c’è allegrezza, malinconia, inadeguatezza verso ciò che opprime e scambio in quelli che subiscono… e sono proprio gli oppressi che vengono innalzati in qualcosa di raffinato, quasi di sacro, forse solo “cantati” come una canzone appassionata… l’onestà intellettuale non ha bisogno di regole… il suo principio è la liberazione della comunità umana dalle proprie catene.
L’elegia figurale dell’intera opera di Raota è a dire poco curiosa… sempre al limite tra l’estetica del racconto e l’estetismo della tecnica… tuttavia a noi sembra che le immagini di Raota riescono a comunicare in profondità l’epica di una povertà senza rimedio… a vedere – la donna che fugge dall’incendio di un carro con due bambini in braccio, la vecchia che tira la rete, il ragazzo che porta i pesci sulla spalla, i volti austeri di vecchi, i sorrisi dei ragazzi, i pianti e i giochi dei bambini (tutti abilmente appoggiati su sfondi neri) – si coglie tanto l’amarezza di un discorso amoroso, quanto la legittimazione a vivere diversamente. Non so… si resta perplessi di fronte a tanta perizia costruttiva, si avvertono dubbi, sensazioni, paradossi… a volte il fotografo è così preso dalla sua idea affabulativa che si vede solo l’immagine che desidera o poco altro… altre volte, la fabbricazione della propria realtà è così compiuta che il soggetto fotografato emerge dall’immagine e diventa storia.
Le cartografia fotografica di Raota – di là dai consensi e dai successi conseguiti sovente come “fotografia artistica” – comincia dove il pensiero comune finisce. Fuori dal senso della consolazione! Nel dissidio fondamentale che separa l’uomo dall’esperienza, diceva… le fotografie di Raota compongono un prontuario di immagini in stato di grazia così mirabile che commuove gli spiriti non assoggettati alle catene della colpa o alle facezie dell’altare… l’iconografia dell’argentino esprime percorsi di tentazioni, di vertigini, di ombre e di luci che avvolgono i soggetti fotografati… c’è complicità tra fotografo e fotografati, si vede… perfino turbamento… specie quando Raota si avvicina ai volti… quello che fuoriesce dal cuore dell’immagine è sempre accompagnato da una filosofia di dignità e di rigore… il sapere estetico fiorisce là dove la partecipazione dei soggetti è totale. La donna con dietro i fumi della fabbrica, la ragazzina che versa l’acqua calda sui piedi della vecchia seduta, la signora col violino che suona in una strada per due ragazzini, la signora con la pipa e il fascio di legna stretto nelle mani, gli spaccatori di pietre… sono un esempio di fotografia dell’assurdo che si spinge al margine della storiografia, poiché ne accetta la fine.
Al fondo della fotografia dell’assurdo c’è lo stupore e la meraviglia mai violati… un’insubordinazione di templi e dèi, codici e leggi, morali e proclami… i valori sono quelli dell’uomo, della donna, dei bambini davanti allo specchio/fotografia che non usa la terminologia dei vinti… semmai li riscatta nella bellezza, nella giustizia, nel bene comune… non lo grida però, lo dissemina nella decenza degli esclusi… nella conoscenza del proprio malessere che si fa coscienza sociale, forse. Meno riuscite ci sembrano le fotografie ironiche di Raota… ci bastano le scemenze canine di Elliott Erwitt per intuire che nell’insignificanza della fotografia albergano cumuli d’imbecilli che si abbandonano alla cosmogonia del mondano… e neanche le sue immagini a colori ci convincono… c’è tutto il peggio di Steve McCurry e l’inclinazione al pittoricismo (sfiorato spesso nel bianco e nero, senza tuttavia cadere quasi mai nell’estetismo) diminuisce la carica suggestiva del fotografo… tutto ciò che attiene alla bellezza senza verità, cade inevitabilmente nel luogo comune e lì muore nel lutto indaffarato dei secoli.
La poetica dell’assurdo di Raota lavora su piani figurativi molteplici… gli sfondi anneriti, i bianchi accesi, i soggetti ieratici (assorti, austeri, solenni) sembrano uscire da antiche caste e religioni… sono protagonisti di un tempo sospeso e conoscono lo spavento della verità, interpreti di una storia rivisitata che il fotografo invita a vivere ancora in una sorta di metafisica rudimentale che non discute la fotografia, la esprime al principio di antichi tormenti! La fotografia è sempre una questione di esistenza, mai di pratica da dizionari… non si può fare la fotografia che vale senza avere nelle tasche delle pietre o un sigaro acceso in bocca o un coltello (Laguiole è preferibile, perché ha la lama larga)… davanti al tribunale del vero, solo gli angeli ribelli sarebbero assolti! Tra scegliere un mattatoio delle idee o un paradiso di mediocrità, meglio i disagi della solitudine affollati di bambini, folli e poeti epicurei… e contrastare (anche con la fotografia) il modello di un’umanità in agonia.
La filosofia dell’assurdo (non solo in fotografia) è l’esatto apprezzamento della dissoluzione dei limiti, è un’arte della sconfitta o della nuda realtà. “Lavorare e creare “per niente”, scolpire nell’argilla, sapere che la propria creazione è senza avvenire, vedere la propria opera distrutta in un sol giorno, coscienti che, in fondo, ciò non ha importanza maggiore che costruire per secoli, è la difficile saggezza che il pensiero assurdo autorizza“ (Albert Camus)10. Il destino sta di fronte a noi e l’ingiustizia è l’estremo sopruso subìto dai vinti. Non si tratta né di uccidere dio né divenire dio (come Nietzsche, Dostoevsky e anche il matto dell’osteria di porto della mia città dicevano), e là dove tutto è bene o tutto è male, tutto è permesso! E questo è un giudizio assurdo! Estremo! Come l’esistenza assurda di capitan Achab contro Moby Dick… la musica assurda dei Pink Floyd di Sysyphus (suite strumentale d’avanguardia scritta da Richard Wright, 1969) o l’intero cinema dell’assurdo di Lars von Trier… la rivolta, la libertà e la diversità sono alla base della “creazione assurda” e allo scorgere di tutte le necessità della vita (profetiche, politiche, economiche) si tuffano in essa con tutti gli eccessi, senza nulla avere in cambio che la mitologia di Sisifo… una filosofia superiore dell’umano, del troppo umano che nega gli dèi e solleva macigni contro l’impossibile per continuare a lottare e godere di un’universo senza padroni.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte settembre, 2017
10 Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 2001
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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