Patch Adams è un dottore, clown. E’ convinto che con un vestito stravagante può catturare più facilmente l’attenzione che con un camice bianco, lui non si interessa di analisi, cartelle e radiografie, lui ti guarda negli occhi, chiede il tuo nome, ti accarezza e ti abbraccia, la sua medicina non la trovi in farmacia, è lui stesso “la cura”.
Se lo incontri non puoi dimenticartene e questo incontro rimarrà in te per tutto il tempo che lo vorrai e nessuno potrà portartelo via perché è un’emozione unica e indimenticabile.
Miloud è un artista, clown. Ha scelto la strada perché l’arte non ha pareti, ha scelto la Romania perché lì non c’è niente da ridere.
I suoi ragazzi lo seguono, lo imitano, lo adorano. Lui ha una missione: dare speranza a chi speranza non ha; i suoi ragazzi hanno una missione: dare speranza a chi speranza non ha.
Se lo incontri non puoi dimenticartene e questo incontro rimarrà in te per tutto il tempo che lo vorrai e nessuno potrà portartelo via perché è un’emozione unica e indimenticabile.
In comune hanno l’amore per la vita, il difetto di essere idealisti, l’audacia di mettersi in gioco, l’attenzione per il prossimo e… un naso rosso.
Sono pacifisti per natura, ma questo non vuol dire che non possano essere arrabbiati. Vivono ogni giorno storie disperate, ma questo non vuol dire che non possano far sorridere.
Semplicemente credono, credono in qualcosa in qualche maniera possa cambiare.
Le immagini sono state riprese in alcuni viaggi che ho condiviso con Patch Adams e con Miloud: Romania, Cuba, Siberia, ex Jugoslavia.
Ho conosciuto questi clowns, queste persone invadenti, fastidiose, impertinenti, eccessive nei loro vestiti colorati, che si infiltrano nella vita quotidiana stravolgendo la consuetudine degli schemi, con l’unica coraggiosa pretesa di far ridere a tutti i costi.
E’ strano vedere il mondo attraverso una macchina fotografica, si guarda attraverso il mirino, si osserva la realtà che non è più realtà ma è un insieme di immagini che ti passano davanti e allora sei attento alla luce, all’inquadratura all’attimo migliore per poter scattare e quindi… “click” ecco la fotografia; e poi ancora ti sposti, ti muovi, cambi il punto di vista, sempre guardando attraverso il mirino fai attenzione alla luce, all’inquadratura e ancora “click”…; e poi ancora ci si sposta, ci si muove, si cambia il punto di vista, sempre guardando attraverso il mirino si fa attenzione alla luce, all’inquadratura e ancora “click”…
E’ strano guardare il mondo attraverso la macchina fotografica perché io sono lì, dietro la macchina, e davanti a me un soggetto, un’azione, delle persone, ma continuamente attento alla luce, all’inquadratura… e allora fotograferei di tutto, sarei capace di fotografare ogni cosa, perché tutto quello che mi passa davanti viene “filtrato” dall’obiettivo.
Ho guardato attraverso la macchina fotografica, la luce, l’inquadratura ma c’era qualche cosa che non funzionava… li ho seguiti nelle loro azioni, nelle loro acrobazie, ma ero distratto, non ero concentrato sulle immagini; seguivo il loro sguardo, captavo il battito del loro cuore… sentivo i rumori, i versi, le risate, ero coinvolto! Mi sono accorto che, come una girandola, scattavo ma non guardavo la luce o l’inquadratura, seguivo i suoni e le emozioni, ero attento agli sguardi e ai contatti.
Ho conosciuto questi clowns e ho capito che per loro è vitale solo la persona che hanno davanti, davanti al loro naso, ho compreso quanto fosse importante per loro l’emozione che sono capaci di trasformare attraverso il linguaggio universale degli sguardi, l’emozione che diventa gioia, compassione, amore, tenerezza, l’emozione che ti fa sentire Uomo!
Per questo oggi come fotografo, come uomo mi sento un clown!
Mauro Minozzi
Il mio approccio con la fotografia è iniziato molto presto. Negli anni ottanta mio fratello Giovanni, fotografo sportivo, era il fotografo di Calciofilm e Tuttobaseball, settimanali che documentavano la cronaca delle partite attraverso le immagini. In particolare per il baseball si partiva il venerdì, si allestiva la camera oscura nel bagno dell’albergo e si stampavano a mano circa 100 fotografie dell’evento. Le riviste uscivano il martedì, quindi la domenica sera dovevano già essere consegnate per la stampa. Io aiutavo in camera oscura nella fase di sviluppo, asciugatura, rifilatura, completando con la didascalia e il timbro sul retro delle immagini. Nell’83, all’età di 15 anni, ho vinto il mio primo concorso fotografico del Guerin Sportivo: una settimana al Ciocco in compagnia del fotografo Franco Villani e dove ho conosciuto George Tatge.
In seguito sono passato anch’io al campo, fotografando il Torino e la Juventus, collaborando sia con i quotidiani che con il fotografo dell’Associated Press Mauro Pilone. Dovevamo trasmettere con la telefoto le tre immagini più importanti della partita. La trasmissione dell’immagine durava per ogni foto mediamente 15 chiassosi minuti! Si allestiva la camera oscura nei bagni dello stadio e si sviluppavano soltanto i rullini dove si era certi che c’era “la fotografia”. Ancora l’autofocus non era affidabile e tutte le domeniche era una sfida con le altre agenzie per la pubblicazione, si aspettava la mezzanotte per acquistare il quotidiano e vedere chi aveva vinto!
Nel ‘96, affascinato dalla fotografia di reportage ho acquistato la Leica M6 e sono partito per un viaggio in Africa, in Kenia insieme ad una giornalista alla ricerca di Cristo oggi. Un viaggio dalla Rift Valley, vicino al lago Turkana dove risiedono le tribù dei Samburu e dei Masai fino alla capitale Nairobi con le sue contraddizioni, le bidonville e i centri commerciali.
Un mese dopo e dopo circa due anni dall’uccisione di Ilaria Alpi, ero a Mogadiscio, invitato dal SOS Kinderdorf per documentare i suoi progetti: un ospedale e un orfanotrofio. In uno di questi viaggi già sul piccolo aereo delle Nazioni Unite un gruppo di scimmiette giocava sulla pista e per motivi di sicurezza sono dovuto scendere impedendomi il rientro a casa. Il volo successivo era dopo una settimana che ho trascorso in Somalia senza fotografare: avevo finito tutti i rullini! In quel soggiorno le immagini della CNN trasmettevano il rogo del Duomo di Torino, ricordo di aver sofferto molto perché pensavo di aver avuto la possibilità di documentare una tragedia sotto casa e invece ero distante chilometri dall’evento, dal centro della notizia… Fino a quel giorno per me la fotografia era solo abilità tecnica e poco importava il soggetto. In quella settimana ho riflettuto parecchio sulla fotografia di reportage e sui limiti tra la cronaca e la dignità delle persone. Anche sulle richieste delle fotografie dei media. Prima di partire per l’Africa avevo chiesto se c’era qualche tema particolare da riprendere ma mi è stato risposto che interessavano solo foto di bambini con il kalashnikov in mano o qualche scena disperata.
Ho avuto anche la fortuna di incontrare Alex Zanotelli, ex direttore della rivista Nigrizia, missionario ai confini del mondo e di vivere tre giorni con lui a Korogocho, la bidonville di Nairobi costruita sulla discarica della città. Con lui e con le sue chiacchierate ho iniziato ad interrogarmi sull’etica della professione di fotografo e di giornalista. Dopo l’Africa, grazie ad una prima esposizione fotografica che mi ha dato visibilità, sono partito per la Romania con l’ECER, associazione svizzera che si occupa della situazione dei minori, degli orfanotrofi e del futuro dei suoi ospiti. La mia collaborazione non era più soltanto fotografica partecipando attivamente alle iniziative dell’associazione. Per trovare una soluzione di un bambino contagiato dall’Aids, sono venuto a contatto con Mino D’Amato e con l’associazione Bambini in Emergenza iniziando anche con loro una collaborazione, interessandomi sempre di più degli orfani e della situazione dei bambini malati di Aids. A quel punto anche la mia interpretazione fotografica si è evoluta scegliendo di non far vedere o pubblicare le immagini drammatiche ma di darle solo per la causa, esponendo solo fotografie che in qualche modo rispettassero la dignità delle persone ritratte. In un’esposizione a Locarno intitolata “Singureni, un sogno realizzato”, a sostegno di una conferenza una sull’Aids, ho presentato i miei scatti realizzati nel progetto di Mino D’Amato di una Casa Famiglia in cui i bambini potessero vivere la loro infanzia il più possibile fuori dalla struttura ospedaliera. Le immagini a colori rappresentavano bambini sorridenti, felici che giocavano spensierati. La mia è stata un’interpretazione tra favola di Peter Pan dove in bambini non vogliono mai crescere e il villaggio realizzato da Mino dove i bimbi loro malgrado difficilmente cresceranno… Non volevo rappresentare la malattia, già esplicitamente dichiarata ma l’opportunità di vivere anche loro in maniera spensierata e giocosa come i loro coetanei, come un padre avrebbe ritratto i propri figli.
In Svizzera l’amicizia con il fotografo Reza Khatir ha consolidato il pensiero etico e anche filosofico sulla professione da fotografo. A volte gli eventi succedono troppo in fretta e se si vuole capirli, interpretarli e rendere utile il proprio servizio c’è bisogno di tempo, e non è sempre necessario correre dietro alle notizie che si susseguono in maniera frenetica.
Un pomeriggio, proprio mentre ero in compagnia di Miloud e dei ragazzi di Bucarest, durante le prove di uno spettacolo a Stupinigi con la Kocani Orkestra, mi ha chiamato Mino invitandomi a documentare la visita di Patch Adams e del suo staff in Romania. Anche da questo incontro sono rimasto parecchio influenzato, soprattutto per l’azione politica di Patch e del suo modo di usare il naso rosso. Per far vedere le immagini a Patch scattate in Romania, sono andato ad Arezzo ad una conferenza sulla morte. Al termine mi ha invitato in albergo ma non mi ha dato ascolto fino a dopo cena quando finalmente, rilassato ha potuto guardare le fotografie sfogliandole ad una ad una. Grazie particolarmente ad un’immagine scattata in Romania in cui è ritratto con la faccia stupita in mezzo ala gente sorridente di un villaggio, mi ha proposto di andare con il suo staff a documentare i suoi viaggi!
Le immagini sono tutte state scattate tra il 2000 e il 2004 con pellicola Fuji, in particolare la FujiColor Superia 400, 800 spesso tirate a 1600 Asa. Macchina fotografica Nikon F5, F90X e F 801, obiettivo il fedele e unico Nikon 20-35 f 2,8. L’esposizione spesso lenta in condizioni di scarsa luce con il flash SB-28 o SB-27, sincronizzato sulla seconda tendina a volte raggiungeva e superava tempi intorno al secondo. Seguendo il soggetto durante lo scatto, muovendomi di conseguenza facendo attenzione che il soggetto stesse sempre nella posizione utile del fotogramma. Il risultato delle fotografie era unico e inimmaginabile, restituendo In questo modo dopo lo sviluppo, la componente magica della fotografia che tanto mi emozionava in camera oscura.
Le immagini sono scansioni di stampe realizzate modificando una mascherina della stampante in modo da poter stampare il fotogramma pieno, senza tagliare le immagini dello scatto originale.
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