La Napoli di Sorrentino tra Splendore e Malinconia: una firma inequivocabile
Il nuovo film di Paolo Sorrentino, Parthenope, è un viaggio in una Napoli onirica e malinconica, una città che diventa metafora di una vita piena di contrasti, in cui bellezza e decadenza si intrecciano in un abbraccio indissolubile. Come sempre, Sorrentino ci regala un’esperienza visiva difficile da dimenticare: la sua firma cinematografica è inconfondibile, provocatoria e ambivalente, un autore che difatti non ammette vie di mezzo, invitando il pubblico a scegliere tra un amore incondizionato per il suo stile opulento e contemplativo o un netto rifiuto della morale conclusiva, delle riflessioni, dei dubbi finali, delle interpretazioni prettamente soggettive.
Cosa evoca questa immagine? La figura di una donna, quasi evanescente, sembra sospesa tra il desiderio di abbandonarsi e l’obbligo di restare; la sua posizione, la sua postura suggeriscono una profonda consapevolezza della propria esistenza…
Noto per il suo approccio visivo audace e per il suo stile che oscilla tra l’eccesso e l’introspezione, Sorrentino con Parthenope non fa eccezione, offrendo un’estetica “barocca” che contrasta con i momenti di silenziosa meditazione. L’uso di lunghi piani sequenza e di inquadrature statiche contribuisce a creare un’atmosfera riflessiva, spingendo lo spettatore a fermarsi e a pensare, a guardare oltre la superficie.
Sorrentino è un regista che non si accontenta di raccontare una storia, ma vuole farci immergere completamente nel mondo che crea, nei silenzi assordanti, nei gesti minimi, nelle parole non dette.
La cifra stilistica di Sorrentino emerge con forza: la bellezza visiva non è fine a sé stessa, ma è strumento di introspezione, come dicevamo prima. Le inquadrature composte come quadri, i colori e i dettagli espressivi evocano una qualità quasi sacra, una celebrazione estetica, la sacralità che vige nella bellezza. Cercare i significati nascosti in ogni sguardo, in ogni movimento della macchina da presa non è mai stato così personale.
La leggenda della sirena Parthenope è tra le più antiche e affascinanti leggende legate alla città di Napoli. Secondo il mito, Parthenope era una delle tre sirene che, insieme alle sue sorelle Ligea e Leucosia, abitava le coste rocciose e cercava di ammaliare i marinai con il suo canto melodioso. Queste creature metà donna e metà pesce erano famose per la loro bellezza e per il potere del loro canto, in grado di incantare e far naufragare chiunque le ascoltasse.
La leggenda narra che Parthenope, profondamente innamorata di Ulisse, tentò di attrarlo con il suo canto mentre navigava nel Mar Tirreno. Ma Ulisse, consigliato dalla maga Circe, si fece legare all’albero della sua nave e tappò le orecchie dei suoi marinai con della cera, riuscendo così a resistere alla tentazione delle sirene. Parthenope, disperata, si gettò in mare per la delusione, lasciandosi trasportare dalle onde. Il suo corpo senza vita sarebbe stato trasportato fino alla costa dove oggi sorge Napoli, vicino all’isolotto di Megaride, luogo in cui i napoletani ritengono che si sia arenata.
Ispirati dalla leggenda, i greci fondarono la città in quel luogo e la chiamarono Parthenope in onore della sirena, dando vita a una delle città più suggestive e ricche di storia del Mediterraneo. Parthenope divenne così il simbolo di Napoli, rappresentando la bellezza e la tragicità, l’attrazione irresistibile e l’amore tormentato. Da allora, Napoli è vista come la sirena stessa: affascinante, misteriosa, colma di storia e passione, capace di incantare chiunque la visiti ma anche carica di malinconia e profondità: questa è l’anima della città.
Specchiarsi amaramente
Parthenope esplora il rapporto dell’uomo con le proprie radici, con le tradizioni e le contraddizioni di una città eterna e mutevole come Napoli. La città rappresenta l’anima della protagonista, uno spazio interno e spirituale, dove si intrecciano speranze, rimpianti e si ricorda quella leggerezza e quella libertà. Sorrentino mette in scena una Napoli che è tanto reale quanto simbolica, un luogo in cui i suoi personaggi si perdono per ritrovarsi, come in un labirinto interiore. Questa amarezza non è solo nella città e nella protagonista, ma sicuramente anche nella consapevolezza che tutto è transitorio. La bellezza abbagliante del mare e del cielo di Napoli è un rimando alla fragilità della vita e della giovinezza: un’esistenza tra momenti di splendore e una sensazione sottile di nostalgia per qualcosa di indefinito. È consapevole della sua forza e della sua vulnerabilità, del fatto che anche le qualità più intense possano sfiorire. E così, lo spettatore viene catturato da una tristezza sottile, un senso di perdita e di desiderio che non si placa.
Alla fine, Parthenope lascia lo spettatore con un senso di amarezza e nostalgia, una sensazione che persiste anche dopo che i titoli di coda sono finiti. È un film che non offre soluzioni, ma invita a confrontarsi con le proprie emozioni, con i propri fallimenti e le proprie speranze. Napoli, con la sua bellezza e i suoi contrasti, diventa il simbolo di un’esistenza fragile e potente, un luogo libero che non fa percepire residenza, non si lascia mai possedere fino in fondo. La sociologia urbana di Napoli diventa qui filosofia esistenziale: i vicoli stretti e i quartieri vivaci raccontano il legame tra bellezza e decadenza, la dualità di una vita che si svolge tra l’amore per la vitalità e un senso di rassegnazione. Napoli non è solo uno scenario… ma un microcosmo.
Lo spazio ristretto della finestra diventa un limite simbolico tra il mondo esterno e quello interiore, mentre il dialogo tra i due personaggi evoca una tensione nascosta, un incontro tra due anime in un’atmosfera sospesa, che racchiude il tutto nel vivere senza riconoscersi, senza quindi vivere per davvero. Un frame di una delicatezza estetica che richiama il piacere della semplicità… e della bellezza mediterranea. La finestra alle spalle dei personaggi, che incornicia uno scorcio di cielo terso, dona alla scena un senso di pace e intimità: quell’intimità che ti fa parlare, che ti fa confessare, che ti consente di essere sincero, puoi scoprire e farti scoprire. La posizione ravvicinata dei due protagonisti evoca una tensione sottile, una confidenza che, però, sembra trattenuta, come se esistesse una barriera invisibile tra loro: la fragilità e la vulnerabilità delle emozioni umane e i desideri celati. È un’immagine che si rivela carica di significati: il bianco della parete potrebbe alludere a purezza e libertà, ma anche alla vacuità, al silenzio che intercorre tra i due, suggerendo una nostalgia che forse non può mai essere davvero colmata.
In Parthenope, Napoli si configura come una metafora universale dell’anima umana, una città in cui i contrasti rappresentano le sfaccettature dell’esistenza. La città, luminosa e vibrante, è un riflesso delle complessità interne della protagonista, una donna che sembra vivere per obbligo più che per volontà. Una complessità psicologica che affascina e commuove. È consapevole della propria bellezza, la utilizza e la abbandona a seconda delle circostanze, mantenendo sempre un distacco quasi malinconico: uno sguardo che rivela la consapevolezza delle proprie catene, ma anche una sottile ribellione interna. Nei panorami luminosi di Parthenope, nei volti dei personaggi e negli interni lussuosi, si avverte una malinconia che permea ogni dettaglio. È questa consapevolezza della sua condizione, della bellezza che svanisce e dell’intelligenza che la isola. Una dicotomia tra il vivere e l’esistere. Non è solo una donna che “vive,” ma una che esiste, in senso filosofico, come se fosse consapevole della profondità del proprio essere e delle limitazioni che la società, o lei stessa, le impone. La sua bellezza e intelligenza non sembrano portarle gioia, ma un senso di fardello, un peso che porta come un’eredità non richiesta, vittima involontaria di un insensato senso di colpa.
“In questo triangolo di specchi forse Raimondo, molto sensibile e totalmente aperto, è Parthenope e Parthenope è Raimondo: la stessa anima spezzata che prende due strade differenti”, che si palesa in maniera diversa.
“Io non so niente… però mi piace tutto”
Ma quindi cos’è l’antropologia? Aldilà della formula testuale, il bello sta nell’avalutatività, nell’“io la guardo e non la giudico. Lei mi guarda e non mi giudica”.
L’antropologia in Parthenope diventa una lente: non c’è niente da comprendere, niente che possa far trapelare la profondità delle radici, dei simbolismi, dell’identità che su carta viene espletata e dell’identità che poi mostriamo, quella parte che vogliamo mettere in mostra nelle interazioni. L’antropologia forse diventa uno strumento per svelare questa identità, tanto della città quanto della protagonista: una donna che naviga tra le aspettative sociali e il desiderio di autenticità, sospesa tra il vivere per dovere e il desiderio di qualcosa di più profondo e sincero, nella più tormentata leggerezza e libertà.
Qualcosa che possa far ben capire che in fondo in alcuni posti sarebbe meglio andare “già pisciati e già cacati”. Non è solo uno sfondo culturale, ma quel dito che aiuta gli occhi a tenere il segno mentre si legge, mentre, in questo caso, si leggono i personaggi e le loro scelte. I protagonisti sono influenzati da costumi, rituali e credenze che li definiscono e li intrappolano, creando identità complesse che riflettono sia la tradizione sia il desiderio di cambiamento: sono entità frammentate, un racconto di appartenenza e alienazione.
Musa
Un plauso a Celeste della Porta, nel ruolo di Parthenope: presenza magnetica che va oltre la semplice bellezza. La sua interpretazione incarna un’idea complessa e stratificata di femminilità, dove bellezza e intelligenza convivono con un senso di malinconia e consapevolezza che rende il personaggio profondamente umano. Parthenope, infatti, non è solo uno specchio della perfezione estetica, ma un ritratto di una donna che si muove in una vita che sembra imposta, come se portasse un peso esistenziale difficile da mettere in parole.
La bellezza di Celeste della Porta diventa un veicolo per esprimere il contrasto tra apparenza e sostanza, un contrasto che si manifesta visivamente attraverso il modo in cui il suo volto è ripreso: illuminato da una luce intensa che mette in risalto ogni dettaglio, trasmette una purezza quasi angelica ma, al contempo, una profondità che suggerisce un mondo interiore ricco di sfumature. È una bellezza sofisticata, mai superficiale, che si presta a esprimere la duplice natura di Parthenope, divisa tra il vivere e l’esistere, come dicevamo, tra il desiderio e il dovere, tra la realtà esterna e la dimensione più intima del suo essere.
La performance dell’attrice risuona anche con l’approccio di Sorrentino, che sembra tratteggiare Parthenope come una musa e, al contempo, una figura tragica. La sua presenza scenica è avvolgente e non si limita a essere decorativa; attraverso ogni sguardo, Celeste riesce a comunicare le sfumature di un’esistenza che pare continuamente sospesa, amplificando l’intensità emotiva del film e offrendo allo spettatore uno spiraglio in un mondo interiore dove desideri repressi e consapevolezza coesistono in equilibrio delicato.
Come una reliquia
La scena in cui Parthenope è seduta su una sorta di letto rialzato, simile a una reliquia venerata e quasi intoccabile, ha un impatto visivo e simbolico molto potente. Il letto, elevato come un altare, la colloca in una posizione di apparente superiorità, uno spazio che non è solo fisicamente distante ma anche simbolicamente separato dal resto del mondo. La postura e l’espressione immobile richiamano la statua di una santa o di una nobildonna del passato, una figura distante che viene ammirata e rispettata, ma che al contempo sembra irraggiungibile.
Questo effetto di superiorità suggerisce una separazione tra Parthenope e coloro che la circondano, come se la sua bellezza e la sua stessa essenza la innalzassero a un livello superiore, rendendola una sorta di oggetto sacro da contemplare, ma non da comprendere fino in fondo. La metafora della reliquia è particolarmente interessante, poiché le reliquie sono conservate con cura, protette e ammirate, ma sono anche immobili, prive di vita propria, incapaci di agire autonomamente. Tutto ciò che lei non è ma che gli altri percepiscono che sia.
Inaccessibile ma anche prigioniera di un’immagine di perfezione che le impedisce di essere realmente sé stessa, come una reliquia che non può scendere dal suo altare senza perdere il proprio valore simbolico. Così, Parthenope appare distante, intoccabile, eppure tristemente vulnerabile.
Sacralità e suggestione
Ricchezza di manti e copricapi: vestita in modo sacrale, con un copricapo elaborato che richiama l’iconografia ecclesiastica, una scena che crea un contrasto potente tra la sua figura femminile e il simbolismo del potere religioso, tradizionalmente associato a figure maschili. La sua espressione malinconica, unita alla pomposità dell’abito, accentua un senso di solitudine e vulnerabilità nascosto dietro le apparenze. Qui, l’arte fotografica si esprime nell’uso dei colori caldi, che aggiungono profondità e intensità emotiva. L’illuminazione soffusa evidenzia la sua fragilità in un contesto di opulenza, rimandando all’estetica di quadri barocchi dove la luce viene usata per trasmettere il dramma interiore.
Tesorone, un nome, un programma ed un’interpretazione davvero schifosamente eccezionale.
Il vescovo corrotto e sicuro di sé, è senza dubbio una delle figure più provocatorie dell’intero film. Il personaggio di Tesorone è il ritratto dell’ambiguità e dell’ipocrisia che talvolta può contaminare le istituzioni religiose: è potente, sicuro, circondato da donne e visibilmente avido, incarnando un’immagine di autorità che sfrutta la propria posizione per soddisfare i desideri personali piuttosto che perseguire una vera vocazione spirituale. La sua figura, ben lontana dall’immagine canonica del religioso, è quella di un uomo che ha trasformato il proprio ruolo sacro in un mezzo per il proprio piacere, un “diavolo” camuffato da pastore.
Questa dinamica si fa particolarmente complessa nel momento in cui Parthenope, non attratta dal potere, non attratta dalla sicurezza che Tesorone emana, ma sicuramente molto fragile e affascinata dall’idea di sentirsi libera (ad ogni costo) finisce per lasciarsi sedurre. Per lo spettatore, questo momento è scioccante: la bellezza e la purezza di Parthenope si trovano improvvisamente compromesse. La scena è disturbante: si avverte una frattura, una delusione, un’incrinatura nella percezione di lei. Una bellezza ferita, macchiata.
Eppure, questa scena svela uno strato profondo e umano della sua personalità: Parthenope è fragile, vulnerabile, vittima di una complessa rete di pensieri che non si spengono, di un senso di colpa che la incupisce e in quei momenti lì… lei è nulla. Eppure questo momento è servito, era necessario.
Tesorone diventa, in questo contesto, un simbolo del limite oltre il quale la fede e la morale possono essere facilmente travisate, e la sua interazione con Parthenope diventa una rappresentazione della fragilità umana, della complessità e delle contraddizioni dell’essere umano. È come se il suo cedere alle lusinghe di Tesorone fosse un tentativo disperato di colmare quel vuoto che avverte nella sua esistenza distaccata. Annullarsi è anche un modo per scivolare al dolore.
Forse la libertà è un vestito da indossare e sfilare, un foulard
La natura e la leggerezza non si sono mai fuse così bene come in questa atmosfera di gioia e spensieratezza.
Cielo e mare fanno da sfondo, ci si lascia andare alla spontaneità e alla freschezza, con un foulard che vola come simbolo di libertà. L’azzurro intenso del mare e del cielo, interrotto dalle vivaci tonalità del tessuto, evoca una sensazione di gioia pura, di spensieratezza che tuttavia sembra quasi temporanea, effimera e ferma lì, costruita in quel perimetro. Questa scena, con il suo forte rimando alla pittura impressionista, dove il colore diventa protagonista nel catturare la vitalità del momento, rappresenta un momento di evasione, ma lascia trasparire anche una sottile consapevolezza della sua impermanenza. In un certo senso, questo frame incarna l’idea della bellezza fugace, del desiderio di catturare la felicità in un attimo di abbandono, consapevoli che questo stato è destinato a svanire. La fotografia di Sorrentino qui diventa uno strumento per esplorare l’antitesi tra la leggerezza dell’essere e la consapevolezza del tempo.
Qui ognuno ha colto qualcosa di profondamente unico, proprio come in antropologia, che è vedere, proprio come Sorrentino: chi ha colto tantissimo, chi qualcosa, chi niente…
No comment yet, add your voice below!