“Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato la casa dei poveri nella reggia
del ricco, ricordati Pipetta, quel giorno ti tradirò, quel giorno finalmente potrò cantare
l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo, beati i poveri perché il regno dei cieli è loro.
Quel giorno io non resterò con te, io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente
a pregare per te davanti al mio signore crocifisso…Don Lorenzo Milani
I. La rivoluzione della gioia nel ’68
Il ’68 è stato un’eruzione libertaria generazionale che ha infranto l’ingiustizia che governava l’universo. Uno dei libri che hanno annunciato la rivoluzione della gioia nel ’68 in Italia, Lettere a una professoressa1, è opera di un prete un po’ burbero, un po’ diverso, un po’ sovversivo, don Lorenzo Milani (e dei ragazzi della scuola di Barbiana), esce nel maggio 1967 (don Milani muore per un linfoma a 44 anni nel giugno 1967), e da quella canonica sperduta nell’Appennino toscano, senza acqua, né corrente elettrica, né una strada per arrivarci (ci vivono nemmeno quaranta persone), il grido del parroco contro l’autoritarismo nella scuola è diretto, qualche volta feroce… è un testo scritto per i figli dei lavoratori, di fatto esclusi dall’università (che in massima parte accoglie i figli dei ricchi), e alla solerte professoressa fiorentina (non voleva i pidocchiosi in classe che non parlavano correttamente l’italiano, anche per la fame che avevano addosso) scrive: “Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia la lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro… Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso… Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio. Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e dobbiamo rimediare… La lotta di classe quando la fanno i signori è signorile. Non scandalizza né i preti né i professori che leggono l’Espresso… Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali”2. Tutto vero. Don Milani tocca qui le tematiche del proprio tempo e lo fa con la forza della sfrontatezza o dell’utopia, e affermava: «Io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi»3. Si capisce perché il Sant’Uffizio ordina la censura del suo primo libro, Esperienze pastorali4 e, successivamente, il prete di Barbiana viene più volte minacciato di sospensione a divinis… la seminagione dei suoi scritti tra i ragazzi del ’68 fu esplosiva, dilagante, atonale a quanto correva nella sinistra comunista e nei beghini democristiani… le parole di don Milani rinnegavano i titoli risolutivi della civiltà moderna e mostravano anche possibilità e disobbedienze contro tutto ciò che rappresentava l’assoluto della chiesa e dei partiti. Sotto ogni formula giace un’oppressione secolare e i politici, insieme alle gerarchie ecclesiastiche, sono gli assassini gentili di vittime predestinate.
Una delle letture più attente di Lettera a una professoressa è quella di Pier Paolo Pasolini, il libro lo impressiona, scrive che il «contenuto ideale violentissimo, addirittura, in certi momenti, meravigliosamente terroristico, dei ragazzi di Barbiana, si immerge però, prende forma, dentro uno schema, che è lo stesso schema della moralità contadina diventata piccolo-borghese della professoressa»… dice anche che si è trovato tra le mani uno dei più bei libri che abbia letto negli ultimi anni5. Pasolini aveva avvertito nella filosofia educatrice di don Milani quella fierezza delle sconvenienze che non s’impara a scuola ma nella strada… l’ostilità appassionata di una folgorazione del giusto, del buono, del bello che farà saltare in aria le illusioni degli dèi e le mediocrità delle caste istituzionali… i giovani irrequieti del ’68, e per un certo tempo, riusciranno a far provare la paura a chi l’aveva sempre inflitta e nella creatività dei loro eccessi, dismisure e sregolatezze, mostrare di che nullità erano fatti i partiti6. L’ostilità delle giovani generazioni verso coloro che sono ossessionati dal peggio incarnato dai politici… è frutto di una lucidità culturale e passionale che porta all’insubordinazione, e l’abdicazione — anche estrema — di qualsiasi tirannia, verrà sempre troppo tardi.
Nel disordine delle idee, la fotografia ereticale di Oliviero Toscani riporta allo stupore del cuore e dentro la pratica di una fenomenologia dei sentimenti struccati, insegna a decostruire l’ordine del discorso fotografico imperante e disseminare la felicità possibile nel rovesciamento di prospettiva di un destino imposto che non va aiutato a sopravvivere ma a crollare.
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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