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NO WAR

di Tiziana Bonomo

Corro velocemente giù dalle scale, il cuore balza così forte che sento solamente l’odore della polvere, mi volto senza vedere la mia famiglia, i pensieri accellerano le loro inspiegabili ipotesi di terremoto, scoppio di una bombola di gas, incidente aereo ….. Ecco adesso sono in strada, vestita con pantaloni grigi di una tuta morbida, una maglia aragosta ancora invernale, le ciabatte felpose grigie, senza trucco, senza borsa, senza documenti, senza figli, senza marito …. Cerco di mettere a fuoco intorno a me per vedere gente che scappa, militari su blindati, una casa crollata dall’altra parte della strada e sentire urla indistinte ….. Poi appena realizzo : la guerra! un’esplosione così forte mi sotterra senza possibilità di fuga. Eppure il cuore batte fortissimo, il panico mi blocca la parola, le lacrime mi riportano al risveglio brusco di un incubo.

Nella testa l’eco di NO WAR, NO WAR !

 

È fatta! Ho descritto un incubo e non un’immagine. Per raccontare la guerra quanto è già stato scritto e quanto è già stato fatto vedere: forse troppo e sembra mai abbastanza.

Robert Capa, l’archetipo del fotoreporter di guerra nel libro “Leggermente Fuori Fuoco” :”…misi a fuoco la mia seconda Contax. Aperto il portellone, fu calato a terra ciò che restava di un povero ragazzo …Il pilota si fermò all’improvviso gridandomi: ’Ehi, fotografo, sono queste le foto che ti aspettavi?’……In treno, tenendomi ben stretta la pellicola esposta, odiai me stesso e la mia professione. Questo genere di immagini era adatto solo ad un impresario di pompe funebri e a me non piaceva essere come uno di loro”.

 

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©Robert Capa Londra, luglio 1941, nel quartiere “cockney” nei pressi di Waterloo Road, una madre legge la lettera del figlio dal fronte _ Dal libro Leggermente fuori fuoco Robert Capa
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©Archivio Ivo Saglietti Albania, Kukes, 1999 Un uomo trasporta la piccola bara di suo figlio morto nell’ospedale

Ivo Saglietti, nel libro Lo Sguardo Inquieto ricorda: “Sul finire degli anni ’90 seguo praticamente tutta la guerra in Kosovo. Appena finito il conflitto, nel giugno del 1999, vengono uccisi Gabriel Grüner e Volker Krämer, giornalisti e fotografi che lavoravano per la rivista tedesca Stern, insieme al loro fixer.”

 

Quanti reporter sono morti e quanti continuano a morire?”

E le tante altre fotografie di reporter coraggiosi durante la seconda guerra mondiale come Dmitri Baltermans, il “Capa sovietico” che riprende la guerra nelle trincee, le madri che cercano di riconoscere sul campo di battaglia i loro figli e che trasportano i morti in mezzo al gelo. Atrocità che continuano e che altri intrepidi fotoreporter documentano come Warner Bishof sui danni della bomba di Hiroshima.

E poi quel personaggio spigoloso con una accentuata personalità politica come Philip John Griffiths che prima documenta il dramma dell’Irlanda del Nord e poi il Vietnam. Durante la guerra del Vietnam gli Stati Uniti hanno spruzzato 46 milioni di litri di Agente Arancio. L’Agente Arancio contiene diossina, una delle sostanze più tossiche conosciute dall’uomo. Oltre al suo effetto catastrofico sul fogliame verdeggiante del Vietnam, ha seminato i semi di una bomba genetica a orologeria che colpisce i bambini ancora oggi. Griffiths ha continuato a documentare gli effetti dell’Agente Arancio per 30 anni dopo la fine della guerra. Per lui: “Le foto non hanno l’obiettivo di cambiare il mondo. Però possono spiegarlo, aprire gli occhi e la mente”.

Henri Cartier Bresson scriverà di lui: “Da Goya in poi nessuno ha ritratto la guerra come Philip Jones Griffith”. Il suo libro “Vietnam” aveva scosso le coscienze americane. E oggi ? chi smuove le coscienze?

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© Philip John Griffiths Vietnam, 1967 Un soldato americano armato cerca di parlare con una donna vietnamita che tiene in braccio il suo bambino
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@Livio Senigalliesi Nyamata, 25 km a sud di Kigali, capitale del Ruanda. Uno dei luoghi-simbolo del genocidio compiuto dagli Hutu nel 1994.

Quanti sono i fotoreporter italiani che hanno testimoniato rischiando la vita? Tanti come Livio Senigalliesi. In Ruanda almeno un milione di Tutsi furono uccisi dagli estremisti Hutu in soli 100 giorni a colpi di machete. Nella foto Rwema Epimaque (50), sopravvissuto al genocidio, durante i giorni del massacro perse tutti i membri della sua famiglia. Nella prefazione del suo libro Diario dal fronte: “La guerra non è mai finita. Tuttavia non possiamo rinunciare alla speranza di pace”. Ma quanto è costato a Livio stare dentro ai fatti? Raccontare i drammi del mondo? È costato tanto, troppo perché la guerra la senti, la annusi, la vedi e più la senti, la annusi e la vedi e meno piace la guerra perché distrugge dentro di noi e fuori di noi.

E per Don Mc Cullin come per James Nachtwey la guerra è un monito, un invito a riflettere per procedere in una direzione opposta: gli eventi che ha registrato non devono essere dimenticati e neanche ripetuti. «Ho voluto diventare un fotografo per essere un fotografo di guerra. Ma ero guidato dalla convinzione che una fotografia che riveli il volto vero della guerra sia quasi per definizione un’immagine contro la guerra.»

E Alfredo Bosco giovane coraggioso testimone dei nostri tempi: “Solitamente mi concentro molto sugli interni nelle aree di conflitto, perché le trincee e le prime linee sono dove la guerra si fa. Però è nelle case dei civili bombardate o nelle strutture adibite ad altro, alla vita che riteniamo normale, di tutti i giorni, dove la guerra invece entra violentemente, senza chiedere il permesso. I banchi delle scuole frantumati, le tende squarciate, il ricordo di oggetti quotidiani, tutto ti ricorda la ferocia del conflitto e la sua potenza devastante”.

Potrei continuare per pagine intere ricordando che un fotoreporter polacco Krzysztof Miller si è tolto la vita per l’orrore che ha visto e ha sofferto come molti militari del disturbo da stress post-traumatico. Aveva appena finito il suo libro Fotografie che non hanno cambiato il mondo: “Questa raccolta di scatti deve essere come un verso della canzone siekiera, motyka, bimber, szklanka. Deve esserci ritmo e rima nelle fotografie che ho scattato. Il ritmo e la rima degli espressionisti tedeschi, degli anarchici polacchi e russi. Vorrei sconvolgere con le mie fotografie come loro hanno sconvolto con le loro bombe. Vorrei sconvolgere con rime e ritmi sporchi, che però raccontano meglio la sporca storia del tempo in cui stavo sbirciando. Questo è lo stile che adotterò in questo album. E se dovessi cambiare idea, lo rielaborerò. La costruzione di una raccolta è come un intervento chirurgico su un corpo vivente. Sul mio corpo e su quello dei personaggi presenti nelle foto. Anche se la maggior parte di essi un corpo vivo non ce l’ha più. L’unica prova della loro esistenza in quei tempi ed in quei luoghi è la fotografia che ho scattato.”

 

Please please NO WAR NO WAR

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