“Per distruggere la fotografia italiana bastano una torcia e un Lazarillo de Tormes,
nessuno si accorgerà della sua mancanza, nelle fosse comuni della società dello spettacolo”.
Anonimo toscano
I. MISERIA DELLA FOTOGRAFIA ITALIANA
La storia della fotografia non è solo storia di prostituzioni mercantili o vaneggiamenti sull’arte come rivoluzione dell’esistenza. La storiografia delle immagini fisse (non importa se analogiche o numeriche, cioè digitali) ha mostrato che una fotografia contiene il ritratto di un’epoca o è il prodotto dell’industria disseminato nei supermercati della civiltà dello spettacolo. Siccome ciascuno è figlio delle proprie opere, non è difficile sostenere che la fotografia italiana, nella quasi totalità, è soltanto un salotto di edonisti che si incensano gli uni con gli altri e sembrano prendere sul serio gli inqualificabili lavori che espongono di mostra in mostra, sin dentro i gabinetti della classe operaia, passando s’intende, dai sofà della buona borghesia. Tutta roba d’arredamento. Paccottiglia edulcorata. Un umanesimo astratto per entusiasti e “non c’è nulla al mondo che l’entusiasmo del-l’imbecille non riesce a degradare” (NicolásGómez Dávila). Il pane della conoscenza è amaro, quanto il sale della ragione. Nessuno può insegnare nulla se non ciò che è già albeggia nella nostra coscienza. La miseria della fotografia italiana è legata allo spettacolo della miseria che fuoriesce da ciò che circola nei “luoghi” della cultura specializzata e la carta stampata, la televisione, la quasi totalità degli operatori del settore… sono veicoli di cose che nulla o poco hanno a che fare con la Fotografia. Siccome “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (Guy-E. Debord), la fotografia italiana, compresa nel suo insieme, è allo stesso tempo il risultato e il progetto del modo di ri/produzione esistente (non solo delle immagini). Se dal fondo del barile della fotografia italiana togliamo via alcuni autori, non proprio celebrati dal consenso generalizzato (potremmo fare tre o quattro nomi ma non ci salgono al cuore che fuoriusciti, gente che è morta di fotografia o che si è messa a frequentare “cattive compagnie”, piuttosto che intrupparsi in spettacoli circensi o incontri internazionali della fotografia feticista ridotta a merce soltanto), non vediamo altro che protezionismo e protervia, che sono i marcescenti valori di una società (anche fotografica) non solo decadente ma in putrefazione. Ando Gilardi, maestro e amico, magnifico randagio di un pensiero belligerante e libertario, ha scritto (in Wanted!, affrancandosi a Susan Sontag), che “nessuno mai nella storia del mondo ha dato a tante persone l’illusione della conoscenza invece della conoscenza”, come la fotografia (gli altri mezzi di domesticazione delle folle hanno fatto il resto, cioè hanno compiuto il più grande genocidio dell’intelligenze mai apparso sulla terra, solo le armi hanno fatto peggio). “L’adulto moderno soffre d’impotenza ludica incurabile, e la morfina televisiva data ai bambini è un frutto di questa buia impotenza. Il teleschermo è un orco, che se li mangia un pezzo alla volta. Orfani di ogni correzione, li invade la paura” (Guido Ceronetti) e già appena nati sono subito “masse”, oggetti e consumatori di fotografia. Nel mortaio raffinato della fotografia italiana ci pestano in tanti, i più non sanno distinguere una prostituta di E.J. Bellocq da un santino della Madonna del Sacro Cuore di Gesù. Del meraviglioso della fotografia abbiamo conosciuto (quasi) soltanto la sua ombra, la strega piuttosto della fata. Il giullare di corte e non il cavaliere errante della luna. Dentro e fuori la fotografia non si riconoscono altre regole se non quelle che contribuiscono al progresso dell’esistenza di uomini liberi tra uomini liberi. Una società dà la misura della sua bellezza quando cancella dalle proprie leggi la parola guerra. Non ci sono guerre giuste, né guerre sante o umanitarie. La guerra bruttura l’uomo. La pace lo rende un angelo dell’accoglienza, della fraternità, del rispetto di se stesso e per l’intera umanità. Dopo Auschwitz non c’è più bellezza nella politica, nella cultura, nelle fedi. Abbiamo imparato a vivere imparando ad uccidere e anche la fotografia sovente è salita sulla gogna insieme al boia, non tanto per fissare nella storia un martire, un eroe o un pazzo, quanto per celebrare un assassinio.
I profeti, i santi e i menestrelli della fotografia italiana sono in bella mostra in ogni vetrina dove si smercia fotografia. Sono davvero pochi gli sguardi radicali, trasversali, eretici che realmente si sono occupati di fotografia del sociale e hanno raccolto la lezione etica di Lewis Hine, August Sander, Dorothea Lange, Diane Arbus, Tina Modotti, Roman Vishniac o Sebastião Salgado. I più e i più chiacchierati fotografi in circolazione in Italia, sono piuttosto bravi a fare paesaggi colorati, nudi per i calendari dei camionisti o giochetti estetizzanti (di computer o camera oscura) che fanno sorridere perfino l’ultimo degli coglioni che si occupa di transavanguardie fotografiche o pitali immaginari qualificati come “arte”. I fotografi italiani (compresi gli stolti del deserto amatoriale) sembrano non sapere che nel fascio dei linguaggi massmediatici, la fotografia (come la parola, il cinema, la telefonia, la radio, la carta stampata, il computer, le preghiere delle religioni monoteiste — cattolica, ebraica, musulmana —) lavora per conto dell’organizzazione dominante della vita. Non si tratta di mettere la fotografia al servizio della disobbedienza, ma piuttosto di fare della poesia il principio di tutti i rovesciamenti di prospettiva di una società omologata nell’apparenza, nella violenza e nella sottomissione. Non c’è superamento della fotografia senza realizzazione della sua caduta mercantile e non si può superare il delirio museale o mondano della fotografia senza realizzare la fotografia come “arte” in favore dell’uomo planetario. La fotografia ereticale della bellezza è tutto ciò che vive nella poesia a venire della Fotografia.
II. FOTOGRAFIA DELLA MISERIA NELLA CIVILTÀ DELLO SPETTACOLO
La civiltà dell’immagine nasce con i campi di sterminio nazisti e la bomba atomica su Hiroshima. L’economia che trasformava il mondo traduceva i morti nello spettacolo e il massacro dei propri simili diveniva specchio di una delazione prolungata. Mano a mano che si allargavano i campi di morte delle guerre, si alzavano i dividendi delle banche e dei mercanti di armi. Alla mano della politica che accarezza, succede sempre la garrotta. Il saccheggio e la distruzione di una civiltà si fonda sulla convinzione che le guerre siano giuste o sante, alcuni sinistrorsi coi baffi alla D’Alema, hanno detto che la loro guerra (in Jugoslavia) era umanitaria. In politica, specie quella istituzionale, per risultare intelligenti, basta confrontarsi con avversari un po’ più stupidi.
Nella civiltà dell’immagine tutto è permesso. La politica estera dei Paesi ricchi è divenuta esperta in guerre e genocidi perpetrati contro i popoli più poveri del pianeta e l’intollerabile è che i mezzi audiovisuali del dolore hanno soppiantato le forme popolari del bello con la trucidità del “diritto di cronaca”, visto, ripreso e diffuso sugli stessi moduli (estetici ed etici) della volgarità illusionistica pubblicitaria o della propaganda politica (cartellonistica). Il cuore di un mondo senza cuore è la condizione mercantile nella quale anche la fotografia diventa gioco o menzogna e sono sempre più rari i fotografi del desiderio di trasformazione della miseria dell’umanità, in qualcosa di più giusto e più umano. Non è importante fotografare l’uomo che capita davanti alla fotocamera, quanto raccontare come vive questo uomo sulla terra. La fotografia della miseria rispecchia la merce come spettacolo e lo spettacolo è il momento in cui la merce entra a far parte della vita sociale. Non ci sono né complici né spettatori, solo clienti affezionati della dittatura del gusto sparsa nei tinelli dei proletari e nelle “Terrazze Martini” con le olive, dove qualche “nobile” mecenate finge di conoscere le ultime schifezze degli intellettuali più richiesti dalla platea satellitare. “I comunardi si sono fatti uccidere fino all’ultimo perché anche tu possa acquistare un’apparecchiatura stereofonica Philips ad alta fedeltà” (Raoul Vaneigem) o possa partecipare a gettare la calce sulle fosse comuni degli indifesi, dei senza voce, degli ultimi del pianeta, come atto umanitario. La civiltà della fotografia non si fregia né di ideologie, né di modelli, né di dogmi culturali sui quali dissertare, dissentire, rovinare, perché li contiene tutti ed è al loro servizio. La fotografia in forma di poesia è quella che non si straccia la seconda volta che si guarda. Ci commuove la scrittura fotografica che fa della bellezza ereticale, della dolente malinconia amorosa per il diverso da sé, la caduta o il disvelamento della disumanità dominante. Il resto è merda. La fotografia muore di fotografia. La pazzia per la “bella fotografia” nasce da una cattiva educazione all’immagine che il cinema, la televisione e i fabbricatori di pellicole e macchine fotografiche hanno disperso nell’immaginario collettivo. L’ignoranza dei fotografi (specie i più foraggiati dalle marche di fotocamere) è abissale. Credono di sapere tutto sul valore degli attrezzi di lavoro, sulle sensibilità delle pellicole, sull’avanzare del digitale nella presa del potere della fotografia da parte del popolo… e insieme a una marea montante di squinternati che si attaccano al collo, come un giogo, la macchina fotografica e imperversano a ogni angolo delle metropoli, delle campagne (o viaggi specializzati nel turismo sessuale sui bambini…), non si accorgono che la loro cecità creativa è una sorta di schiavitù e di genuflessione ai riti e ai dogmi della società dell’apparenza. La storia della fotografia non mostra l’inefficacia delle fotografie per la conquista di un’umanità migliore, ma è soltanto la somma delle vanità mercantili smerciate come “avvenimento” artistico. La caccia alla fotografia d’arte o d’impegno civile (fa lo stesso) è aperta. Quelli che fanno le fotografie d’arte per l’arte sono mezzi fotografi, quelli che fanno fotografie come dice l’industria culturale, sono degli stupidi che credono davvero che la fotografia possa essere il mezzo con il quale raggiungere la celebrità (visibilità) televisiva, che è il massimo dello squallore. Fino a venti anni tutti scrivono poesie o fanno fotografie, poi restano i cretini e i poeti, Benedetto Croce, diceva. Non è sufficiente bruciare i fotografi che hanno fatto della fotografia la sozzura o l’indecenza, il postribolo delle loro idee genuflesse alla merce, soltanto. Bisogna piuttosto ignorarli o restituirli alle cloache (della “bella borghesia” o del sottoproletariato sinistrorso) dalle quali sono usciti. Di alcuni imbecilli parleremo la prossima primavera di bellezza. Sia lode ora a uomini di fama.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 23 volte aprile 2004
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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