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Mia Lecomte – Sulla fotografia in forma di poesia – PARTE PRIMA

di Pino Bertelli

« — Sono venuto per farti domande, disse il discepolo.
— Da parte mia non aspettarti nessun insegnamento, rispose il maestro.
Abbiamo avuto la stessa luce da condividere: è questo il nostro povero sapere.
— Devo dunque abbandonarti così presto?, disse il discepolo.
Pazienza, rispose il maestro. Farò del mio meglio per darti una mano.
T’insegnerò poco alla volta a disimparare ».
Edmond Jabès

Mia Lecomte - fotografia- ©Enzo-Cei

Sulla fotografia-madeleine. La fotografia che non possiede il proprio rogo segreto, non vale nulla… poiché chi dimostra non mostra nulla del proprio sentire… l’intuizione dell’istante getta un’immagine nel mondo e aderisce alla poetica dell’amore che la sottende… non ha bisogno di vedere per sognare… è un linguaggio prometeico/dionisiaco che ruba la sapienza agli dèi per donarla agli uomini… è un’affabulazione del disincanto che apre gli occhi sulla realtà della vita, è un atto di coscienza che alimenta o uccide l’uomo in Dio o Dio nell’uomo… la farsa crolla… la presenza e il mistero dell’Apocalisse (il libro più serio della Bibbia), del resto, contengono significati mirabili e i beati che leggeranno questa profezia e metteranno in pratica le cose che vi sono scritte, scopriranno una Terra di pace e d’amore universale (la Chiesa di Roma ascolti!)… non è un caso se qualcuno dice che bisogna risalire all’Apocalisse di S. Giovanni per comprendere il malessere dell’epoca attuale… quando l’immagine s’illumina di poesia, risplende nella singolarità del vero e si sversa in un’estetica/etica dell’umano.

Ogni componimento poetico-fotografico di un certo lignaggio è nell’aforisma di Friedrich Nietzsche, Poeta e Uccello: «La Fenice mostrò al poeta un rotolo incandescente che si carbonizzava. “Non aver paura”, disse “è la tua opera!” Essa non contiene lo spirito del tempo e ancor meno lo spirito di coloro che sono contro il tempo: di conseguenza dev’essere bruciata. Ma questo è un buon segno: Ci sono molte specie di amore». Occorre conoscere per immaginare e disimparare tutto ciò che s’era imparato per sognare le acque vive della passione… il canto originario del prodigio che porta in sé la malinconia di chi ama senza nulla chiedere in cambio che il medesimo amore per la vita.

La poetica dell’immagine di Mia Lecomte è sorprendente… è una ricerca di confluenze tra poesia e immagine e, in maniera esteticamente asciutta, invita il linguaggio a superarsi… lavora su istanti metaforici in cui l’immagine crea l’umano… e poiché l’inconscio si esprime per immagini, Henri Corbin, diceva… ma a queste immagini dei miti, delle leggende, dei sogni, l’uomo alienato della società contemporanea ha guardato sempre meno… occorre ritrovare la vitalità d’una cultura del Sé e sviluppare la propria personalità oltre i fuggevoli o protervi fantasmi dei padri e delle madri, Carl Gustav Jung, sosteneva… imparare a pensare significa capire che la fotografia è una simulazione o l’umano troppo umano che trasforma il compreso nell’incompreso, il troppo facile nel distacco da tutte le verità sino ad allora credute, Nietzsche, ancora… allora è il bello, come rivelazione del bene, del giusto, del vero… si manifesta in ogni forma del comunicare che si può chiamare, d’arte.

Mia Lecomte nasce a Milano nel 1966. Dicono le sue carte: «Poetessa e scrittrice di nazionalità francese e di lingua italiana che risiede in Svizzera. Tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano: la silloge poetica Lettere da dove (InternoPoesia, 2022) e il libro per bambini Gli spaesati/Les dépaysés (VerbaVolant, 2019). Le sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, pubblicate all’estero in raccolte, fra cui For the Maintenance of Landscape (Guernica, 2012) e Là où tu as ton corps (Apic, 2020. Prix Vénus Khoury Ghata 2021), e in numerose riviste e antologie. Traduttrice dal francese, svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della letteratura transnazionale italofona, a cui ha dedicato alcune antologie e il saggio Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona. 1960-2016 (Franco Cesati, 2018). È redattrice del semestrale di poesia comparata Semicerchio, del periodico letterario indiano online The Antonym. Collabora all’edizione italiana de Le Monde Diplomatique. Nel 2017, con altri studiosi e scrittori attivi tra Francia e Italia, ha fondato l’agenzia letteraria transnazionale Linguafranca. È ideatrice e membro della Compagnia delle poete». Mia Lecomte è anche fotografa (mialecomte-ph)… lo diciamo subito… in molte delle sue immagini, bellezza e sincerità sono la medesima cosa… detto meglio… sono la coltivazione di un’idea di tenerezze evocative, dissigillate da una misura, un’armonia del gusto… a volte chiamano anche il sorriso, più spesso, infondono a riflettere sulla condizione umana.

Nello scritto autoriale di Massimiliano Damaggio su Mia Lecomte fotografa… c’è già tutta la fecondità, la chiarezza, l’intimità del fare-fotografia di Mia… la sua fotografia, infatti, è legata alla sua scrittura e viceversa:

«In lei poesia e immagine sono entrambe risultato dello sguardo, del modo che ha di restituirlo allo sguardo del mondo […]. In Lecomte, la fotografia è ulteriore angolazione e lente d’ingrandimento. Non tanto su un “particolare”, ma su un “non particolare” di vuoto e assenza che la sua poesia spesso provoca quando la scrittura, improvvisa, brusca, si ferma, finisce, s’interrompe e chi legge sente chiaramente che dopo c’è qualcos’altro – che non è dato leggere. È la mancanza, le mancanze che la fotografia dell’autrice sembra cercare. L’inquadratura del “bianco” di cosa non è detto. Gli smottamenti di “nulla” fra i versi. Asciuttezza, assoluta assenza di foschia, nella fotografia come nella parola, per percepire tutto il detto, il non detto e il forse […]. Nelle fotografie, come nelle poesie di Lettere da dove – in particolare nella prima delle cinque sezioni in cui è suddiviso il libro – molto, se non tutto, è passato, è stato, è andato. Non è rimasto. Molto non è mai stato. Una stanza vuota piena di un letto vuoto. Una figura senza volto, a metà coperta da una tendina, dietro la finestra di una cucina. Una battaglia immobile fra soldatini a cavallo che corrono verso un nemico fuori dell’obiettivo. I segni lasciati sul muro da ciò che una volta potevano essere i gradini di una scala. La prospettiva glaciale di panni stessi su fili perfettamente paralleli, e un tavolo di fòrmica, e un grembiule viola attaccato al muro, vuoto, liscio, senza il minimo ricordo del corpo che l’ha indossato. Immobilità, “trattenersi” in un luogo e in un tempo dove ciò che non c’è più si fa “trattenere” in tutta la sua assenza […]. Poesia, fotografia, sguardo. Il momento in cui la luce penetra l’occhio e crea, ricrea, ricostruisce, mette a dimora un seme destinato a sbocciare quando sul bianco della pagina si apre e richiude l’obiettivo, e la forma si congela in un’immagine immobile, fotografica, e in una evanescente, scritta. Due pesci morti che nuotano insistentemente sul ghiaccio del bancone, gli occhi vivissimi, cristallo perfetto che ancora riflette, nella sua definitiva fissità, tutto il movimento che manca […] Come nelle immagini della Versilia a fine stagione, quando “sono andati via tutti” e regna un sentimento di sospensione a tempo determinato che solo i luoghi in “disuso” riescono a dare, dove anche il mare con le ombre dei bagnanti è già ricordo, anticipazione del ricordo. “Goloso anticipo della morte”, citando Carlo Bordini. È un’immagine bellissima, che Lecomte reitera spesso nella sua scrittura, nel suo fingere (sembra) di non essere l’unica rimasta, l’ultima a testimoniare la pensilina vuota dopo la partenza: chi desidera far parte del quadro, del ricordo, dell’assenza, e infine del vuoto che lei stessa ritrae. La voglia fortissima di non essere chi rimane […] Anche l’inquadratura fotografica, così come la parola, è rigorosa, precisa: un modo per avere sotto controllo tutta la scena, esaminarla e ricomporne le tessere sulla carta. Angolazione perfetta, geometrica, punto di fuga all’infinito, impalcatura essenziale delle cose, lessico scarno, colori algidi che tendono a sbiadire. Come il ricordo. Fotografia fredda, indagatrice, poesia frontale: un’eco di Ghirri e l’iperrealtà di una realtà imprigionata in momenti di impossibile immutabilità, poesia che non cede mai – o non vuole – alla carnalità di uno Jodice, ad esempio, dove la pietra della statua non è pietra ma altro […]». 

C’è tanto vero della fotografia di Mia in ciò che dice Damaggio… non crediamo tuttavia che nelle immagini di Mia sopravviva la eco estetizzante di Ghirri e nemmeno la carnalità di Jodice… le fotoscritture di Mia non alzano lo sguardo sulla sfumatura colorata né scendono nella documentalità pittorica… sono piuttosto immagini-metafora di uno stato interiore, un’alba di coscienza che diffida dei discorsi, quanto delle immagini, e s’appoggia a canti inattuali che debordano dalle fotografie-madeleine…. un offertorio immaginale che si chiama fuori dalla tristezza della realtà: «Ciò che esiste non è mai altro che l’istante che viviamo. Non ne possiamo vivere altri. Ma in esso possiamo vivere estraneità e sorpresa, meraviglia e protesta, tutte cose che sono nello stesso tempo passato e futuro, riconoscimento e progetto» (Gaston Bachelard). Sì, le fotografie-madeleine di Mia evocano un colore, un sapore, un profumo del passato che si riversa nella percezione del presente, appeso a delicati filari d’istanti che ci conducono alla libertà di essere ciò che siamo. 

In molta iconologia di Mia c’è il colore, il gesto, il profumo, financo il sapore delle Madeleine di Proust o  la filosofia-libertaria di Alice che insegue Bianconiglio perché ha voglia di curiosità, di desideri, di canti d’amore… e la trova in quel Paese delle meraviglie dove incontra lo stupore dell’altro e la favola si trascolora in realtà. La realtà sovrasta, supera, sbalordisce, ma è necessaria la fotografia per definirla. Fotografare è superare i limiti del proprio cosmo. Per conoscere l’immagine fotografica non basta aver letto qualche storia della fotografia… è necessario entrare profondamente in relazione con la cosa fotografata… la fotografia è insolente di fronte a un silenzio insolente che la degrada a merce. Non importa tanto fare la fotografia, quanto l’uso che nega la sua spettacolarità… la fotografia non pensa quel che sa… può pensare soltanto quel che ignora e la sua nudità sanguina d’ingombranti illuminazioni o di cattività indecenti. È impossibile meditare sulla fotografia da riviste di moda, senza provare nei suoi confronti una sorta di sarcastico orrore.

La rivoluzione della bellezza illuminata. “La bellezza salverà il mondo” (Fëdor Dostoevskij, diceva, con non poca salace ironia). Bellezza e giustizia sono la stessa cosa! E ogni forma d’arte dove non è presente la giustizia, è poca cosa o non è niente! La giustizia non è separabile dalla bellezza. La bellezza si vive, non si dimostra! È bello ciò che è rappresentato senza preclusioni e il vero è donato come piacere del disappunto. Non conosco nulla sulla Terra che abbia tanta bellezza (e possanza, e nobiltà, e amore) quanto un’immagine o una parola svincolata dalle abbacinazioni delle mode più o meno prezzolate della civiltà dello spettacolo… a volte ne faccio una di fotografie o infilo una collana di parole in sorrisi solitari e le guardo, a lungo, le immagini e le parole in libertà, lì, tra il confine della reminiscenza e l’incanto del pericolo, fino a quando non cominciano a splendere (da e con Emily Dickinson) di bellezza e di verità… e mi aiutano a respingere dappertutto l’infelicità. 

Sulla fotografia in forma di poesia. La fotografia in forma di poesia “legge” ciò che è stato e “vede” quello che ha ascoltato… poiché l’immagine fotografica “scrive” ciò che la parola onora o crocifigge… ogni fotografia, come ogni poesia, è la scrittura di una vita… verità e bellezza s’abbeverano alla stessa fonte… la fotografia in forma di poesia fiorisce dietro i muri delle indifferenze, per coglierla, occorre rompere le gabbie delle convenzioni… la libertà della fotografia, tutta… vive fuori di sé… risiede nell’atto che ci fa liberi… non sei libero là dove di esponi al successo o al consenso… sei libero soltanto là dove ti opponi alle grossolalie della fotografia insegnata… per poter ghermire la poesia nella fotografia, occorre voltare le spalle al gazebo delle vanità.

Nel ventre delle fotografie di Mia ci sono graffiti del suo fare poesia… come scrive in maniera folgorante Ugo Fracassa, nella nota al libro di Mia, Lontano da dove: «al di là di ricostruzioni aneddotiche a sfondo biografico, l’indicazione è preziosa perché svela l’intima pulsione letterale della scrittura poetica di Mia Lecomte. Proprio laddove più surreale pare delinearsi lo scenario – “Il cervo sulle spalle / solca la neve con le corna / gigantesco il peso informe / non riesco a sollevarlo intero / strascica il muso una scia di sangue”–, c’è da scommettere su un’occasione, riconoscibile sebbene trasfigurata, nel vissuto dell’autrice. La stessa tendenza a orientare la scrittura verso modalità collaterali o periferiche rispetto al distillato della poesia[…] se è vero che al filo della memoria la poeta ha steso panni familiari, i panni della poesia non si lavano in famiglia. La famiglia dei lettori, infatti, si allarga ben oltre la cerchia dei congiunti. Ecco allora che poche scritture paiono esigere un lettore tanto quanto questa che, nel porgere la voce, mantiene qualcosa di puerile, una disponibilità cogente, un invito ineludibile: più incisivo del grido, più seducente del sussurro». Tutto vero. In seno alla sua incompiutezza, la fotografia aiuta tenere gli occhi aperti e quando è in forma di poesia ci permette di continuare a tenerli aperti.

C’è una sorta di filo rosso tra il fotografare di Mia e le sue poesie… e sembra avvertire che l’anima sta all’uomo come il dentifricio al tappo, mai perdere il tipo della propria anima: pena? La celebrità! Perché con l’anima Dio non c’entra, e nemmeno il Diavolo… come scriveva Edgar Lee Master, il poeta dei destini, sulla tomba di Fletcher McGee: «Mi prese la forza minuto per minuto,/mi prese la vita ora per ora,/mi risucchiò come una luna febbricitante/che frega il mondo nel suo gito./I giorni passarono come ombre,/i minuti rotarono come stelle./Mi prese dal cuore la pietà,/e la trasformò in sorrisi». Quando uno vede la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera Bellezza, mette le ali, Platone diceva… non c’è identità senza uno stile e uno stile presuppone padroneggiare il diverso… lo stile è un’unicità che frammenta, esplode e divide, Michel Onfray diceva… e porta alla creazione/scultura di sé. La poetica dell’anima come liberazione di sé implica il dispendio e la profusione di un temperamento… una cartografia della presenza in cerca di una società prodiga.

Un luogo, una solitudine, una rêverie…  possono essere momenti d’ispirazione feconda… Nietzsche, il dinamitardo di tutte le morali, diceva che in Engadina (Sils Maria) si sentiva di gran lunga meglio che in qualsiasi altro luogo sulla terra… e qui scrisse la prefazione di Al di là del bene e del male, dove afferma: «la lotta contro la secolare oppressione cristiano-ecclesiastica – giacché il cristianesimo è un platonismo per il “popolo” – ha creato in Europa una splendida tensione dello spirito come ancora non si era avuta sulla terra: con un arco teso a tal punto si può ormai prendere a bersaglio le mete più lontane. Indubbiamente, l’uomo europeo avverte questa tensione come una condizione penosa: e già due volte è stato fatto il tentativo in grande stile di allentare l’arco, la prima col gesuitismo, la seconda con l’illuminismo democratico – come quello che, grazie all’aiuto della libertà di stampa e della lettura dei giornali, poteva arrivare realmente a far in modo che lo spirito non sentisse più così facilmente se stesso come “pena”! (I Tedeschi hanno inventato la polvere – bravissimi! ma hanno anche, per altro verso, pareggiato il conto – inventarono la stampa). Noi però, che non siamo né gesuiti, né democratici, e neppure abbastanza tedeschi, noi “buoni Europei”e spiriti liberi, “assai” liberi – noi la sentiamo ancora, tutta la pena dello spirito e la tensione del suo arco! E forse anche la freccia, il compito, e chissà? la “meta”» (Sils-Maria, Alta Engadina, giugno 1885). Gli artisti contabili sono assoggettati all’approvazione…  gli artisti autentici rimandano a orizzonti che non hanno ancora sconfinato nell’alburno della propria estetica trasversale… ogni pensatore del disinganno teme più di venir compreso che di venir frainteso (Nietzsche)… i Demoni di Fëdor Dostoevskij lo dicono: niente rinascimenti senza rivoluzioni dell’abisso… Nikolaj Vsevolodovič Stavrogin è il protagonista del libro di Dostoevskij, il solo tra i tanti “peccatori” che prende pienamente coscienza delle proprie azioni e si chiama fuori dalla vita… «muore impiccato, separato dal suolo, come avviene per Matrëša, perché […] nemmeno il male assoluto lo ha liberato dal suo profondissimo vuoto», scrive Dostoevskij. A ragione, il filosofo rumeno E.M. Cioran considerava I demoni «il più grande libro dell’Ottocento. Anche il più grande romanzo in assoluto. E Dostoevskij il più grande scrittore di tutti i tempi, il più profondo». Il senso del vuoto contiene anche quel grumo di pienezza che avvia a una sorta di liberazione… sciogliere l’individuo da tutto ciò che lo attanaglia a valori, codici, morali che gli uccidono lo spirito… quando si è veramente tagliato le catene con tutto, si è superiori a tutto. Creazione e ribellione sono un’unica e identica cosa.

Va detto. Del rizomario fotografico di Mia Lecomte… ci siamo avvicinati e affrancati a un certo numero di fotografie che crediamo importanti, in quanto vi abbiamo scorto filamenti di un linguaggio poetico/metaforico che testimonia una sottesa interrogazione della vita… immagini personali, quasi private, che dilatano i confini della parola… appunti di taccuino che inseguono lo sconcerto della fotografia come i bambini le farfalle col retino bucato… tasselli figurativi che rimandano a una filosofia dell’educazione o alla conoscenza naturale dell’essere umano come fratello/sorella in un mondo spesso sconnesso dalla persona come essere sociale, dallo spirito che conosce: «Poiché la libertà e l’essere cosciente costituiscono la personalità, il puro spirito è persona e, certamente, nella forma più elevata di personalità. — Il puro spirito è, dunque, persona, il suo modo di essere è attualità pura, in cui è racchiuso tutto ciò che troviamo negli esseri umani come “atti spirituali” limitati nel tempo e separati qualitativamente » (Edith Stein). La fotografia non sta là dove si glorifica, ma dove si libera dell’apparenza, della sottomissione e della confessione… bisogna amarla molto la fotografia, per volerla distruggere… la fotografia non è fotografia finché non ci ha bruciato di bellezza e di giustizia.

La scrittura fotografica di Mia è disseminata in forme, tagli, visioni “leggere”, ma ben incastonate nell’inquadratura… i richiami a un certo “realismo magico” (Chris McCaw, Harry Gruyaert, Fred Herzog o Joel Meyerowitz) espresso nei colori è presente, tuttavia lo sguardo di Mia non è mai proteso allo scoop giornalistico, anche quando fotografa un derelitto nella strada tra l’indifferenza delle gente e della polizia… il rimando all’immagine celebre di Meyerowitz non è casuale, tuttavia Mia resta più coinvolta nello scatto, non sembra badare all’inquadratura ma al soggetto fotografato… Meyerowitz coglie invece più il movimento della gente che non l’oggetto della fotografia… non si tratta che una fotografia sia più bella o riuscita dell’altra… vogliamo dire che l’immagine passa dove è passata l’idea… perché la commozione è senza difesa…  là dove la fotografia è solo forma, il contenuto appassisce… il pensiero fotografico si compie sono nel pensiero che lo confuta nel suo valore d’uso. Fotografare non è convincere né costringere, né convertire né benedire… non ti stupire di aver qualche volta fotografato il sangue al bordo della strada, poiché l’universo è di vetro e il tuo cammino è disseminato di schegge che la luce riveste di mille colori riflessi… l’adulazione ha un retrogusto che mente, la riservatezza del vero è nella risonanza dei sogni disincarnati dal realtà. Se la fotografia è Dio, la sua perfezione non può essere che nella sua negazione.

La fotografia in forma di poesia di Mia pensa, cerca, rovista in un fare-anima come immagine-ponte verso la conoscenza del Sé, la riscoperta dei bisogni innati, delle inclinazioni, delle vocazioni, anche se le condizioni esterne sembrano opporsi alla loro realizzazione, poiché tutti nasciamo con uno scopo: «la vocazione, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta» (James Hillman). La fotografia imperante è protetta dalla fotografia consumerista e non va a lezioni di bellezza… la bellezza della fotografia è senza difese. La lingua degli affari che governa la fotografia non ha alcun potere sulla poesia della bellezza che non si sottopone ai suoi statuti… la fotografia della bellezza è più antica della sua legge, perché nessuno può comprare il sorriso di un bambino… il solo che la può comprendere senza i prontuari dei professori.

Nella fotografia in forma di poesia, come nel cinema in forma di poesia di Pier Paolo Pasolini, lo stile ha un valore primario… non cerca l’apparire, il clamore, l’assenso che eleva i personaggi, l’ambiente, la loro storia a marionette della sussistenza… nel cinema di poesia, il protagonista è lo stile… si sente la macchina da presa… come John Ford, Orson Welles, Jean-Luc Godard, Luis Bunuel, Jean Vigo, Jean Renoir o John Cassavetes, ad esempio… ecco… la fotografia in forma di poesia fa a meno dell’ordinamento giudiziario… si esprime con tecniche semplici ed è in continuo contatto con tutto ciò che la circonda… la gente che passa, i loro volti, i loro gesti, i loro atti, i loro silenzi, le loro lacrime, le loro passioni, i loro sogni… come Lewis Hine, Jacob Riis, Ernest J. Bellocq, August Sander, William E. Smith, Diane Arbus, William Klein, Weegee, Brassaï… per fare qualche nome, insegnano… la fotografia in forma di poesia si rivolge al dizionario che ciascuno ha nella sua testa e, anche se imperfetto, inventa un linguaggio non convenzionale che corrisponde a una realtà visiva di un altro mondo sociale.

La fotografia graffiata dalla passionalità dei corpi, non è nei chiostri, né si lamenta dell’anonimia degli uomini o della loro caducità a volgere l’amore di sé e per l’altro fuori dalle coorti della solitudine o dell’amarezza o della dispersione collettiva… l’antologia delle passioni, dei desideri, dei sogni della fotografia passionale vive ai margini dell’esistenza (ma non è marginale) e prende coscienza di se stessa perché contiene la rara fortuna di conoscersi, conoscendo… forse è un’interrogazione, forse una curiosità o forse una naturale tendenza a un’educazione dello sguardo che diventa uno stile… è sovente un esercizio di pudore verso il debole, il folle, chi non ha voce né volto… una sorta di grazia lessicale che ritroviamo nel regesto di Pascal, di Voltaire, Saint-Simon e perfino di “Madame de Staël”… nei loro testi, lettere o diari cercavano di passare dal salotto alla strada e asserivano che anche una preghiera, un’invettiva o una dissertazione su qualsiasi cosa, dovesse avere uno stile e contenere soprattutto la pietà del vero.

La “fulgurazione figurativa” dei corpi nel cinema di Pier Paolo Pasolini è fare del cinema una lingua interiore non religiosa ma sacrale/creaturale che sussume l’immaginario dall’antropologia visuale delle periferie, quanto dalla pittura giottesca o del Mantegna o del Masaccio, e introdurre una diversa dimensione del realismo nel lessico cinematografico… un realismo creaturale che intreccia tenerezza e crudeltà, bellezza e figurazione della realtà spogliata d’ogni orpello figurale… la fotografia che s’innesta nel film e s’accorda con l’amore del regista per la forza del passato che s’innesta nel presente rivitalizzato nella creatività poetica dell’autobiografia, sempre… dà alle immagini quella realtà figurativa, quel realismo magico, che ha poco a che vedere (come è stato scritto) con la letteratura di Franz Kafka, Gabriel García Márquez, Luis Borges o Dino Buzzati… e ha molto a che fare col cinema di Carl Theodor Dreyer, Friedrich Wilhelm Murnau, Georg Wilhelm Pabst, Kenji Mizoguchi, Yasujirō Ozu, Luis Buñuel, Jean Vigo, Jean Renoir, il primo Visconti, il primo Fellini, il primo De Sica… la “fulgurazione figurativa” di Pasolini ha meritato l’odio che in vita gli è stato addossato dall’intero sistema politico, per poi, dopo il suo assassinio, recuperarlo agli annali dell’accademia, della politica, della chiesa… ma non hanno saputo cancellare la “fulgurazione figurativa” di Pasolini, con la quale ha disvelato le loro ipocrisie, tradimenti, infamie e tirannie a danno dei più deboli, degli indifesi, degli ultimi. L’aurora di una civiltà più giusta e più umana si vedrà soltanto quando si distruggeranno i suoi dèi.

La poetica della bellezza è un’estetica della sensibilità… una promessa di felicità, anche… poche la bellezza contiene in sé qualcosa d’incompiuto… come la grande poesia, la bellezza della fotografia non è detto che rispetti regole compositive o proporzioni scolastiche… e non implica la richiesta di acquiescenza… non si tratta di dissertare sul vero o sul falso, sul giusto o sullo sbagliato… la bellezza in ogni forma d’arte è una disposizione, una sensibilità o un’accezione o una percezione della perfettibilità… la bellezza è vera quando tace, brutta quando parla troppo di sé… la bellezza è l’insolenza e il coraggio di Capaneo che osa sfidare il potere assoluto di Zeus  che lo fulmina sulle mura di Tebe… Capaneo è l’uomo che ha estrema fiducia in sé, avversa la parola dei dotti, ed è per questo che Dante lo butta nel canto XIV dell’Inferno, tra i bestemmiatori, i violenti, i superbi, i dispregiatori di Dio. La bellezza è una ferita aperta sulle certezze della storia: «In che direzione ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non precipitiamo continuamente? E all’indietro, ai lati, in avanti, da tutte le parti? C’è ancora un sopra e un sotto? Non vaghiamo come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non viene continuamente la notte e più notte? Non bisogna accendere lanterne di mattina? Non sentiamo ancora niente del chiasso dei becchini che sotterrano Dio? Non ci è giunto ancora il lezzo della putrefazione divina? – anche gli dèi si putrefanno! Dio è morto! Dio rimane morto!» (Friedrich Nietzsche). Di là dalle dossologie da scolarchi… Capaneo è la bellezza in azione, è una predizione di verità che denuncia la menzogna.

 Segue: https://www.phocusmagazine.it/mia-lecomte-sulla-fotografia-in-forma-di-poesia-parte-seconda/

1 Presenza e mistero dell’Apocalisse, testi di Franco Cardini, Valerio Mannucci, Mario Naldini, Nardini Editore, 1994

2 Friedrich Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Adelphi, 1978
3 Henri Corbin, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Laterza, 2005
4 Carl Gustav Jung, Opere. Lo sviluppo della personalità (Vol. 17), Bollati Boringhieri, 1999

5 https://www.nazioneindiana.com

6 Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, Edizioni Dedalo, 1973
7 Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto (Dalla parte di Swann o La strada di Swann),
Arnoldo Mondadori Editore, 1983-1993
8 Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie-Attraverso lo specchio e quello che Alice vi
trovò. Ediz. illustrata, Rizzoli, 2015

9 Fëdor Dostoevskij, La bellezza salverà il mondo, De Piante Editore, 2021

10 Mia Lecomte, Lettere da dove, Interno Poesia, 2022
11 Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, a cura di Fernanda Pivano, Einaudi, 1971
12 Michel Onfray, La scultura di sé. Per una morale edonista, Fazi Editore, 2007

13 Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, 1977
14 Fëdor Dostoevskij, I demoni, Sperling Paperback, 2003

15 E.M. Cioran, Un apolide metafisico. Conversazioni, Adelphi, 2004
16 Edith Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova, 2000

17 James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, 1997

18 Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, Voll- I/II, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Arnoldo
Mondadori Editore, 2001
19 E.M. Cioran, Antologia del ritratto, Adelphi, 2017

20 Pino Bertelli, Pier Paolo Pasolini. Il cinema in corpo. Atti impuri di un eretico, Libreria Croce,
2001

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