La fotografia in forma di poesia è un’erranza creativa che «non rimuove il suo non sapere, resta fedele alla sua inconoscenza […] è un evento. Non un fatto […] La poesia, la parola [l’immagine primigenia, anche] è la sola cosa che ci è rimasta di quando non sapevamo ancora parlare, un canto oscuro dentro la lingua, un dialetto o un idioma che non riusciamo a intendere pienamente, ma che non riusciamo a fare a meno di ascoltare [di vedere]» (Giorgio Agamben), i poeti, gli uomini e le donne ragguardevoli lo sanno… solo ciò che è divergente dalla lingua incensata, è poesia.
Estraiamo dal portolano iconografico di Mia, un pugno d’immagini che, a nostro avviso, contengono la fotografia in forma di poesia che ci è cara… con l’insolenza libertaria che ci è propria le titoliamo a nostro piacere e nemmeno c’importa se sono state pubblicate da Vogue o riviste d’alto lignaggio (serventi all’industria della soperchieria, protervia o cortigianeria) o libri più o meno conosciuti o se sono state del tutto lasciate alla protezione di un cassetto importante della propria vita:
I. La finestra sul mondo.
Ho sempre letto, scritto nella strada, nei bar, nella mia tana, principalmente, mai nelle biblioteche… lì i libri mi sembrano morti e morti mi appaiono quelli che li leggono in compito silenzio… come in chiesa quando il prete infila nelle bocche aperte l’ostia… credono di ingoiare Dio

e invece fanno indigestione di preghiere che alimentano una curiosità impersonale… ed è stata la fotografia fatta nella strada che mi ha fatto conoscere la finzione accettata della cultura dominante… un’invenzione gravida di fatalità, ineluttabilità, di destino che mi è parsa più finta delle storie dei santi… così mi sono interessato a fotografi dei Marginalia… quelli che fanno fotografie a margine della vita, ma non sono per niente marginali… spiriti inquieti o liberi che non hanno bisogno di sapere per sapere cosa fare davanti a qualcosa da fotografare… tantomeno perché quell’immagine l’hanno fatta… poiché ogni persona, come ogni tempo, si riconosce nella realtà solo grazie ai propri desideri, ai propri sogni o ai propri deliri… m’interessa sempre più non ciò che un fotografo ha fissato nella fotocamera, ma ciò che avrebbe voluto figurare… non l’atto, ma il senso della vita che vi mette dentro… sono un fervente estimatore dell’opera imperfetta, anche lasciata a mezzo o impossibile da compiere… confesso che ho bevuto molto e in allegrezza, prima di giungere a queste considerazioni sulla fotografia… essere un fotografo compreso è una vera calamità per un autore di taglia internazionale… una sorta di attentato all’intelligenza… che m’impedisce d’avere la smania di spiegarsi. Non sono mai stato a corto di utopie… nemmeno sono stato estraneo al gusto del fallimento… è un lusso che davvero pochi artisti si possono permettere… Emily Dickinson, Edgar Allan Poe o Oscar Wilde mi hanno insegnato a ragione al rovescio… come Charles Baudelaire… e mi hanno sospinto fuori dalla rassegnazione… meglio un bel suicidio privato al suono del Bolero di Ravel che far parte del monopolio della verità istituzionalizzata.
Una fotografia che lascia il lettore uguale a com’era prima è una fotografia sbagliata. La fotografia si “ascolta”, non si legge… s’entra nella sua passionalità o commozione attraverso il timbro della sua visione, la melodia delle sue forme e la biografia che ne consegue… non si capisce nulla di fotografia se non si rinnega il sistema di speranze sulle quali si fonda e da perfetti imbecilli non si rovescia o decontestualizza il linguaggio dei suoi codici e valori… sin dalla nascita della “fotografia civile”, alcuni randagi (Hine, Riis, Atget, Bellocq, Carroll…) hanno portato l’attenzione sulle diseguaglianze sociali e sull’urgenza di porvi rimedio, sottraendola a discussioni di minorati mentali… l’utopia era quella di restituire dignità, rispetto e bellezza alle genti, senza nulla chiedere in cambio che un’oncia di giustizia… sapevano che il potere è una cosa terribile ed è terribile come un fotografo riesca a diventare famoso.
L’immagine di una finestra nell’inquadratura di Mia rimanda a un mondo, quello interiore, soprattutto… i fiori neri, le cornici nere che sembrano croci, il velario dello sfondo che rimanda a un sudario… raccontano il coraggio, la paura, la rivelazione gentile di un dispaccio della vita… il respiro d’amare e d’essere amati per quello che siamo… non so… una luce dell’accoglienza unita al calore del cuore. Cè in questa fotografia il corpo e il sangue della fotografa… una nudità di emozioni che incrociano la casa come una prigione e una liberazione al contempo… ciascuno vive i timori dei padri, delle madri, degli ambienti nei quali si è trovato in sorte, e a loro volta quelli dei loro padri e delle loro madri, e così risaliamo all’inizio dei secoli… amore, disamore, cultura, ideali, sogni, speranze… tutto un florilegio di definizioni che ognuno si porta addosso… il fanciullo non sa perché trema, sa che un abbraccio, un bacio o un sorriso regalato al sorgere dell’amore protegge da tutti i domani indifesi. La finestra di una stanza è una metafora che sconfigge la paura del mondo… una forma di signoria della vita che conosce le ombre e le luci di universi convenuti, e li sradica nella fiducia di sé con l’elegia della bellezza che va alla sorgente del proprio coraggio a vivere, come a morire. Abbrancare la propria identità significa fare del desiderio d’amore, il legame che ci porta da amare e comprendere anche le asperità, le incomprensioni, le difficoltà personali, perché ciascuno è quello che desidera. La fotografia custodisce lo sguardo, come il poeta la parola… l’uno e l’altro sono depositati in lacrime di stelle. C’è un tempo per seminare l’amore e un tempo per raccoglierlo, lo stesso tempo.
II. Un uccello in volo nel bianco.
La fotografia, qualsiasi fotografia, è sempre un autoritratto… non si può spiegare la fotografia, la si può vivere… con la fotografia si nomina la parola che la sottende… basta un sorriso per fermare una lacrima, basta una lacrima per infrangere, per sempre, un sorriso, Edmond Jabès, diceva… la fotografia è innocente, il fotografo, mai… è vero… ogni fotografia contiene gioie e ferite, quando è poesia precede il pensiero o lo anticipa lungo portali di cosmogonie lucenti… là dove passa la poesia dell’immagine, lì lo sguardo diviene visione di ciò che emerge e si offre alla lettura dell’inconsueto o del differito. L’istante coglie la fotografia, l’amore di sé per l’altro lo sorprende e consente a ogni speranza realizzata di fa tremare i propri limiti.
La fotografia figura non solo ciò che si è desiderato, ma l’eternamente desiderabile di ciò che contiene il desiderio… non importa tanto formulare il senso della fotografia, ma il valore d’uso che contiene… la fotografia è la culla di una stella che ci porta a conoscere l’inconosciuto, prende forma in un immagine e riceve in cambio la luna… poiché la fotografia è il frutto della sua decifrazione… affabula una lingua… sì, una lingua che è poetica di una prossimità artistica che sguscia dalle unghie… quando è grande, è sovversione dell’ordine mercatale della fotografia… sovente è una lingua ferita o un sorriso approssimato… qualche volta affida all’interrogazione i propri vocaboli/immaginari e si apre alla riscrittura d’una vita.
Mia fotografa un uccello nero in volo su un crinale di neve… altri uccelli neri (seminascosti tra il bianco e il bianco) sembrano guardare quel volo libero nel bianco… bianco della neve, bianco del cielo, contrapposti al nero degli uccelli e allo sguardo bianco della fotografa… il piccolo buco nero di una caverna al lato dell’immagine non è però un riparo dal freddo, sembra piuttosto un “buco nero” dell’oltretempo… il segno astratto di una realtà quasi sospinta fuori dall’inquadratura… Mia è a cavalluccio di quell’uccello che vola verso un non-dove, verso un sentiero del cielo che non è indicato da nessuna mappa… e non lo vuole agguantare, sembra voler fare un volo di libertà fuori dal precostituito. C’è un’udibilità del silenzio in questa immagine… un principio a vivere fuori dalla fotografia… una rottura della solitudine, un parlare a voce altra

nella eco del proprio sentire. Qui Mia ferma il tempo… lo libera dalla consacrazione primigenia dello sguardo… morde la libertà e la dissemina nell’infinito… vive ciò che ha fotografato… sa che il fondo del cielo è disseminato di sogni e popolato di parole che gli ruzzolano in testa… restituisce la libertà alla sua naturale essenza. Le fotografie vere non sono soltanto fotografie… sono anche la brace sotto la cenere e divampa in un fuoco creativo che diventa il primo mattino del mondo. Diffida dell’immagine (o della parola) ch’è detta con chiarezza… perché la chiarezza altro non è il lato menzognero dell’ombra.
III. Un pesce che guarda la sua morte.
Non si giudica la fotografia, ma chi l’ha uccisa… quando siamo conquistati dalla sua ebbrezza narcisistica o mercatale, le togliamo la vita… i confini della fotografia sono le sponde che ci appartengono… di qua c’è il pensiero del poeta, di là l’utilitarismo del mercante… non c’è similitudine se non al prezzo d’una soggezione, d’una rinuncia, d’una confessione in pubblico… l’impensato appartiene ai poeti, il vocabolario ai servi. La sapienza creatrice non vuole rifugi… prima fotografare, di filosofare si può fare anche a meno.

Le fotoscritture interessanti abitano un’intuizione o una ricchezza della ricordanza… la scoperta dall’altro ch’è in me… rifuggono i salari dell’acconsentimento per approdare sulle rive del dialogo nascosto che esonda nell’accadere fotografico… rivendicano un’altra visione del profondo e si trascolorano in immagini-pietre dove la libertà creativa si libera di tutte le burocrazie e si rivela là dove si espone… la fotografia che vale contiene un sovraccarico di silenzi troppo a lungo sopportati o di abissi estetizzati e cola la sua verità nello splendore di un’altra era ancora da dissodare… con gli occhi levati in alto ruba le ali sgualcite degli angeli del non dove e vola verso cieli inadempienti.
Mia fotografa la testa di un pesce bianco, appoggiata su fette di pesce rosse, tagliate, ben distribuite a fiore sul banco del mercato… a una prima lettura può sembrare una semplice immagine di vita quotidiana… a ben vedere si coglie nella verticalità dell’immagine anche altro… la testa del pesce bianco è una sorta di triangolo che s’innesta nel rosso del pesce affettato… l’occhio del pesce bianco è vivo, guarda la sua morte atterrito, forse… sembra gemere ancora vivo… la simbologia che ne fuoriesce è quella di un destino accettato/subito… ma non del pesce, quanto della vita… Mia vede nel pesce, credo, una sorte di prigionia umana che riguarda tutti… una mancata libertà di scelta… non so se sono andato oltre ciò che dice la fotografia… quello che so è che quando s’avverte la dimenticanza spirituale non c’è libertà… tagliare, sezionare, lacerare non appartiene solo a quel pesce… e siccome il linguaggio è uno strumento dei nostri corpi, è il volto delle nostre radici, anche… il pesce-volto di Mia assume la forma-carattere dei dadaisti, surrealisti, situazionisti che vedono nell’arte disvelata, il superamento della vita. Il pesce-volto di Mia, dunque… è il nostro volto-pesce messo alla porta da disagi sospesi, come entità di un regno di tenebre che viola l’immagine che annuncia… quella della terra promessa o del paradiso perduto… si tratta d’immaginare la possibilità di reagire a istituzioni, chiese, stati, più o meno tirannici, che decidono della nostra vivenza. Immaginare è pericoloso… certo… perché significa dare voce e volto agli uomini che destituiscono anzitutto l’imperio dell’egoismo. Forse mi sono inventato tutto, forse è tutto vero… il campo dell’immagine fotografica o è un’esecuzione fedele alla lingua, o è piuttosto il grimaldello creativo che la dissolve, insieme ai sui guardiani. La società volgare è una frantumazione della bellezza e della giustizia, poiché l’una e l’altra hanno la stessa fame di libertà.
4. La signora in rosso
La dittatura della mediocrazia, del capitalismo parassitario o della società dello spettacolo, mostrano che i mediocri hanno preso il potere e i loro fasti economici/politici sono la rappresentazione dell’ordine simbolico del terrore e dell’ordine generale della deterrenza… gli strumenti di comunicazione di massa (fotografia, cinema, carta stampata, telefonia, radio, internet)… sono responsabili della sparizione dell’arte, Jean Baudrillard, diceva… basta una banana attaccata con lo scotch a una parete, una signora che ti guarda muta in faccia per ore o un furbacchione che fa dei graffiti sui muri in maniera clandestina (ma non è vero)… e i saprofiti del sistema mercatale l’inneggiano ad artisti… c’è da ridere dal disgusto… il grado zero dell’arte ha successo… l’irruzione nella merce lo implica… la simulazione, anche… la piaggeria impera nella civiltà dello spettacolo che ne alimenta la lusinga e il servilismo. Quando tutto è arte, niente lo è più… lo sapeva persino l’asino della fattoria degli animali di George Orwell, l’unico che

sapeva leggere… l’ignoranza al potere produce mostri, trasfigurati da Orwell come maiali. Ciascuno ha il suo porcile e ci sguazza dentro foraggiato dai saprofiti vestiti Armani e il linguaggio che li unisce è quello della polizia. Sabotare lo stile della cultura asservita, attentare all’idea di un sistema che sarà stato tutto, tranne che intelligente, è un invito che ci è stato lasciato in sorte da Nietzsche, e dopo di lui si può dire tutto.
Nella fotografia di Mia, che noi, molto arbitrariamente, abbiamo chiamato La signora in rosso… ogni forma di vassallaggio è sollevata dalla sua estetizzazione, anche dalla sua museificazione… è una visione che ci libera dal reale fotografico per insinuare la surrealtà della vita. La figura in rosso di Mia è una giovane donna… attraversa un ponte… un passaggio.. un varco che viene dal nulla e porta chissà dove?… ha un cappotto rosso che si staglia fra il grigio della struttura e quello del cielo diafano… il passo è sicuro, svelto… un colpo di vento allarga il cappotto sulla gonna… l’inquadratura è decisa e intreccia la donna all’architettura modernista… quelli che parlano bene nei salotti milanesi, potrebbero dire brutalista… la bellezza dell’insieme è straniante… Mia fissa lo sguardo in un intreccio di segni… un incastro indefinito… una sparizione della realtà per catturare una realtà più sottile… quella di una bellezza franca che elimina la storia… anzi, la congela in un attimo sospeso tra l’accadere e l’accaduto… l’ombra, la luce, il movimento all’interno dell’inquadratura illumina l’inizio di qualcosa che è anche un addio… Mia qui discopre la fraternità in un sguardo, la discrezione che ascende sugli scalini del sacro… la struttura non ingoia la donna, semmai l’accompagna nella sua via… la vita scrive quel che la fotografia ha visto… cioè il senso di accoglienza che travalica il silenzio della lingua e come nel poesie di Tomas Tranströmer, trova nel mistero la parola: «Scena sulla piattaforma./Che strana quiete…/La voce interiore». L’effluvio di un’immagine colta ai bordi della strada è musica del puro pensiero… poiché ogni orizzonte di pena è costruito sulla sabbia, la smisurata fraternità della fotografia è un’infanzia ritrovata. La fotografia non è la fotografia, ma il “testo”… e poiché ogni storia ha bisogno di un testimone che ne comprovi la veridicità… l’involontario si fa corpo-testo di un modo di vedere… soltanto la fotografia è reale, specie quando fa della surrealtà il principio di mille interrogazioni che frantumano le formule del consueto… è l’infinito altrove dell’atemporale che vive in un’immagine e afferra sul posto la vita vera.
5. La società anomica.
La fotografia di strada, così come viene insegnata, esaltata o esibita come verità presa sul fatto… è un luogo abbandonato dove i gatti rovistano su cumuli di spazzatura e vengono a pisciare i cani senza padrone… anche quando è fatta su un campo di guerra, quale che sia, il fotografo — quasi sempre — ha in testa un premio internazionale, un calendario per una banca che traffica con i soldi dei mercanti d’armi o una passerella in televisione nei talk-show… che bello!… il cielo degli stupidi s’illumina d’immenso… il solo fotografo buono è quello morto!… davanti all’immagine della bellezza come giustizia, la storia della fotografia arrossisce di vergogna.
I firmamenti non hanno più nulla da schiacciare… il sistema culturale/politico della società anomica (norme, valori, tradizioni, promesse, controlli, punizioni, celebrazioni, santificazioni) ha creato più illusioni, tradimenti, violenze delle religioni e delle ideologie… qui anche il paradiso appare troppo brutale… secoli di educazione hanno glossato la stupidità erudita… c’è tristezza ovunque, specie là dove si vuole arringare le masse alle “spoglie” elettorali… nessuno conosce più la malinconia dei poeti maledetti o dei bambini curiosi o dei folli incapaci ad essere

governati o governare in questo modo e a questo prezzo… come non sapere che “in un mondo senza melanconia gli usignoli si metterebbero a sputare e i gigli aprirebbero un bordello?” (Emil M. Cioran)… l’uomo anomico è soddisfatto delle proprie miserie o esuberanze o apparenze che l’accompagnano nel crepuscolo della bellezza vissuta come merce soltanto… l’uomo anomico non ha rimorsi né avventure, né immaginazione… sguazza nella mediocrità come le papere nello stagno e vive senza accorgersi che è già morto… in questa condizione d’incompiutezza affoga nell’incoscienza del presente.
Lo stato di anomia, c’insegna Émile Durkheim… è un coacervo tra educazione, morale e società che incidono nella personalità individuale e nei comportamenti… lo stato di anomia è latente nella struttura stessa della società moderna e rivela la violenza insita nel determinismo del progresso e della produzione industriale neoliberista… una minaccia che porta alla disgregazione della solidarietà, fino alla crescita dei suicidi… Durkheim suggerisce, infatti, a perseguire attraverso la cooperazione, la rivalutazione, rivitalizzazione della divisione del lavoro e una ricostruzione della vita sociale, per facilitare gli individui nel perseguimento della loro autorealizzazione verso un’effervescenza creativa da cui sorgeranno nuovi ideali, poiché la società ideale non è al di fuori della società reale, ma dentro il suo debutto sulla scena del mondo.
L’immagine anomica di Mia è di forte impatto visivo… neri profondi, luci tagliate, ombre-persone che si allungano nella strada… nessuno si guarda… tutti sono persi in se stessi… sulla destra dell’inquadratura una scalatura di grigi incornicia lo sguardo della fotografa verso la surrealtà… come in certe inquadrature del Neorealismo Italia, specie di Vittorio De Sica o Roberto Rossellini… i neri e i bianchi s’incrociano al movimento figurativo delle persone sparse nella strada… la fotografia sembra interrogare se stessa… non si congeda da ciò che rivela o viceversa… mostra che quando la delicatezza scompare, non resta che l’immensa violenza del proprio sparire di fronte alla vita che viene. Non è mica detto che tutto questo ci sia nella fotografia di Mia, oppure c’è molto altro ancora?… c’è forse ciò che resta del futuro in quelle ombre stagliate nello squarcio di luce… una grammatica visiva che rivela l’individuo e porta all’emozione… il presente che rotola in rovina… oppure un’estetica della verità che si occupa solo degli occhi ancora capaci di lanciare un grido di libertà… per quanto ci riguarda e con l’insolenza che ci è propria, una volta che la fotografia è fatta, si libera dell’autore e non resta che la sua veridicità o la sua sfrontata bellezza… il più delle volte la fotografia è la forma patologica dell’apparenza, l’immacolata concezione delle discariche… poiché la vita è arte, il fotografo è solo complice della mediocrità spettacolarizzata o testimone dell’agonia di una rosa nei giardini pubblici.
– Segue: https://www.phocusmagazine.it/mia-lecomte-sulla-fotografia-in-forma-di-poesia-parte-terza/
21 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, 1977
22 Giorgio Agamben, Quando la casa brucia, Giacometti Antonello, 2020
23 Alain Deneault, La mediocrazia, Neri Pozza, 2017; Zygmunt Bauman, Il capitalismo parassitario, Laterza, 2011; Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, SugarCo, 1996
24 George Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori, 2015
25 Tomas Tranströmer, Il grande mistero, Crocetti Editore, 2011
26 Emil M. Cioran, Il crepuscolo dei pensieri, Adelphi, 2024
27 Émile Durkheim, Il suicidio. L’educazione morale, UTET, 1969
28 Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, 1962
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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