Morire, abbandonarsi, essere vivi, essere nella luce. Cosa c’è in questa foto mi sembra evidente: una maschera bianca, bellissima, posata su un pavimento in terra antico leggermente usurato, scuro. E poi? Poi quel fascio di luce come se fosse lo spettro di Lord Voldemort che si insinua nella maschera per restituirle la vita.
Ho visto questa immagine che mi ha ipnotizzato, quasi un desiderio morboso di possederla, di essere lei, di lasciarmi cadere ed essere raccolta da una luce morbida strisciante benefica nel tentativo di recuperare una parte di vita che non c’è più.
Di chi è la foto? Forse a questa domanda pochi sanno rispondere.
Lo scatto, fatto ad Arles nel 1975, è di Eva Rubinstein vivente.
“Una fotografia è un monologo che vorrebbe farsi colloquio, un’offerta, un alibi, un saluto. Ci può assalire o accarezzare, può esprimere amore o oltraggio, dar testimonianza di un credo politico, approfondire il nostro concetto della vita e della morte. Se troppo inondata di luce, ci abbaglia; se troppo nascosta nell’ombra, ci smarrisce. Dice il poeta Stanley Kunitz ‘nel più profondo dell’animo so che vivo e muoio allo stesso tempo. Il mio compito è di trasmettere questo dialogo”. Sono parole di Eva Rubinstein che non vuole nemmeno chiamarsi fotografa e che protesta con la stessa parola artista riferita a lei.
Eva Rubinstein figlia di Arthur Rubinstein, uno dei più grandi virtuosi del pianoforte di tutti i tempi, ha scoperto la fotografia intorno ai 35 anni e sull’orlo di un esaurimento nervoso comincia a costruirsi una vita da sola. Senza l’obbligo di dover interpretare ruoli imposti nella danza o nella recitazione e senza dover dipendere da richieste di coreografi e registi.
Eva ha scoperto che con la fotografia può fare da sola: sufficiente una macchina fotografica e buone gambe. Nuova vita, nuova libertà. Donna intellettualmente evoluta ha subito trovato in diversi famosi fotografi degli insegnamenti preziosi come da Lisette Model, Jim Hughes, Ken Heyman, Diane Arbus. Fotografa tanto e tante situazioni.
Lei donna sempre in giro per il mondo scatta ritratti, scene di vita, interni di abitazioni e palazzi e costruisce scene adatte ad essere riprese. Esattamente come questa.
D’altronde lei è cresciuta in una casa dove si respirava musica e arte e si dedicava del tempo a visitare mostre. Ammette l’influenza che hanno avuto su di lei pittori come Jan Vermeer, per la qualità serena delle luci così come l’influenza di Andrew Wyeth e di Edwar Hopper con il loro senso di isolamento.
Un’anima insaziabile alla continua ricerca di sé, alla ricerca della ‘verità’. Ma quale verità se non la sua. Eva cresce e matura grazie alla fotografia. Svela particelle dell’anima che solamente con la costanza, la ripetizione, la ricerca attraverso le immagini riesce a portare a galla. La luce bianca tanto quanto la maschera ci rivela il suo inconscio. Conscio? Forse.
La luce d’altronde è un elemento predominante nella fotografia di Eva Rubinstein e mi sembra che questa immagine ne sia un valido testimone.
Che si tratti di una maschera come questa, di una scena notturna, di una particolare espressione umana, sono tutte cose che la Rubinstein ha “trovato”, cose che erano lì prima che lei le vedesse e alle quali lei ha restituito il tempo…. la memoria.
Verso la fine degli anni ’70 insegna in alcune classi di perfezionamento. Questa è forse l’attività che le ha dato più gioia e soddisfazione. Gioia che riesco a percepire per quanto io stessa creda nella formazione ai giovani.
Merita ricordare “un giorno mentre guardavo le fotografie di questi giovani appese al muro, mi sono resa conto tutt’a un tratto che, invece di vedere le fotografie, avevo una visione chiara delle persone che le avevano fatte. Ogni fotografia, si sa, è una specie di autoritratto…Fui colpita dal fatto che alcuni punti caratteristici si ritrovavano ripetutamente e costantemente in tutte le fotografie, anche se i soggetti e i titoli variavano. Ho pensato che non poteva essere una coincidenza ma ho pensato che era una cosa consistente che vuol dire qualcosa. Allora cominciai a fare domande …chiesi ad ogni studente di fare una descrizione dettagliata delle proprie fotografie …continuavo a fare domande … volevo sapere che impressione avevano guardando le proprie riprese …. fino a quando iniziarono a riconoscere cosa c’era dietro a quelle riprese che avevano fatto. Una volta decifrati questi messaggi nascosti nelle fotografie, molti si sentirono come liberati da qualcosa che da lungo tempo li aveva turbati. È stata una gioia indescrivibile per me. Io, che con il mio senso di insicurezza e diffidenza verso il prossimo, ora mi trovavo capace di condividere i dolori e le gioie altrui”.
Quanto vorrei fare a lei le stesse domande su questa immagine ma non riesco.
Riesco però a riconoscere nella maschera la mia paura, il mio terrore di perdere la bellezza di una vita, di essere abbandonata da quel fascio luminoso e cadere a precipizio nelle tenebre.
D’altronde è sempre la stessa Rubinstein che dice: “La fotografia, più lucida della scrittura a mano e più permanente dei sogni, può sollevare, e talvolta parlare, delle domande più profonde e fondamentali della nostra vita. Non ho dubbi che la fotografia, per la sua capacità di “prendere” informazioni in centesimi di secondo e poi di rimanere come testimone, sia uno strumento unico che ci permette di vedere oltre la superficie della nostra vita.”
DIDASCALIA Eva Rubinstein, Mask on floor, Arles, 1975, Silver Gelatine Vintage Print, 35x28cm, Copyright Artist, Courtesy Galerie Clara Maria Sels
BIOGRAFIA EVA RUBINSTEIN
Nasce nel 1933 a Buenos Aires, in Argentina, mentre i genitori Aniela Mlynarska e Arthur Rubinstein, famoso pianista, sono impegnati in un tour di concerti in Sud America. Quando la famiglia non viaggiava, viveva principalmente a Parigi. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale nel 1939, emigrarono negli Stati Uniti.
Eva Rubinstein fece carriera come ballerina e attrice a New York, a Broadway e fuori, tra cui la produzione originale del “Diario di Anna Frank”. Il matrimonio con il reverendo William Sloane Coffin e i tre figli avevano portato una consapevolezza del tutto nuova del mondo “reale”, in contrasto con la sua vita precedente, e dopo il divorzio non sarebbe più potuta tornare alla finzione. Vive e lavora a New York, USA.
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Dal 2015 mi dedico attivamente al progetto ArtPhotò con cui propongo, organizzo e curo eventi legati al mondo della fotografia intesa come linguaggio di comunicazione, espressione d’arte e occasione di dialogo e incontro. La passione verso la fotografia si unisce ad una ventennale esperienza, prima nel marketing L’Oreal e poi in Lavazza come responsabile della comunicazione, di grandi progetti internazionali: dalla nascita della campagna pubblicitaria Paradiso di Lavazza nel 1995 alla progettazione, gestione e divulgazione delle edizioni dei calendari in bianco e nero con i più autorevoli fotografi della scena mondiale fra cui Helmut Newton, Ferdinando Scianna, Albert Watson, Ellen von Hunwerth, Marino Parisotto, Elliott Erwitt e i più famosi fotografi dell’agenzia Magnum.
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