“Era carina come una svastica”… scrisse Walter Winchell (giornalista del Daily Mirror di New York), della Riefenstahl… sbarcata in America tra il novembre 1938 e gennaio 1939, nell’intento di convincere i produttori hollywoodiani a distribuire il suo film.
Il viaggio finanziato dal Ministero della Propaganda tedesco non sortì molti frutti… l’accompagnavano Ernst Jäger, un faccendiere che ben conosceva l’establishment hollywoodiana (che restò in America come esule fino agli anni ’50) e Walter Klingeberg, direttore del Dipartimento dello Sport del Comitato Organizzativo delle Olimpiadi di Berlino, in organico ai servizi segreti di Hitler. Cinque giorni dopo l’arrivo della Riefenstahl a New York, i nazisti debuttarono nel primo Pogrom antisemita — la Notte dei cristalli del Reich —, avvenuta tra il 9 e 10 novembre 1938. La politica razziale nazista distrusse sinagoghe, esercizi commerciali, migliaia di abitazioni ebraiche, furono arrestate oltre 30.00 persone e uccisi un numero indefinito di ebrei… di lì a poco saranno promulgate leggi di esproprio dei beni ebraici e la successiva forzata emigrazione degli ebrei dalla Germania. Con una ineleganza tutta germanica, le SS buttarono nel rogo i libri scomodi… il monito di Heinrich Heine (1797-1856) si era avverato: “Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini”. Vivere una verità inventata nel sangue dell’innocenza è un abominio dell’intelligenza che invita a riprendere le armi della nostra adolescenza contro una stirpe di sanguinari che hanno consentito al fracasso degli stivali e al calcio del fucile di uccidere la felicità dei giusti nella lingua dei forni.
L’ambasciatrice del cinema nazista in America, porta con sé tre copie di Olympia da far vedere a produttori, esercenti, critici, storici… una delle quali Hitler non c’è nemmeno in controluce… la Riefenstahl è abile… gestisce le proiezioni private secondo la piaggeria del momento. Henry McLemore (sull’Hollywood Citizen News) scrive che Olympia “non è propaganda, ma una serie di riprese magnifiche del più grande meeting di atleti della storia del mondo”… altri come il Los Angeles Times dicono che il film è “un trionfo della macchina da presa e un poema epico dello schermo”. Walt Disney, il padre di Topolino, Paperino e Biancaneve e i sette nani… fumetti e film lodati e ammessi a circolare nell’Italia fascista… poi testimone nella “caccia alle streghe” comuniste di Hollywood a fianco del senatore alcolizzato Joseph McCarthy negli anni ’50… Disney, dicevamo era quasi commosso nell’incontro con la Riefenstahl… ma forse per il timore che le platee disertassero i suoi film, influenzate dall’ondata di proteste antinaziste nel “Grande Paese” (e non per il timore che le sue maestranze si rifiutassero di accendere il proiettore, come sostiene Disney)… il “padre di Topolino” e la Riefenstahl si lasciarono con rammarico di non aver potuto trovare un accordo per l’esportazione delle favole disneyane in Germania e la circuitazione di quelle naziste in America.
La ricerca degli accordi commerciali con l’industria del cinema hollywoodiano (ben stretta nelle mani di magnati ebrei) non andò bene nemmeno al figlio tutto cinema e intellettuali, anche scomodi, Vittorio Mussolini… il 20 ottobre 1937, il secondogenito del Duce degli italiani in camicia nera vola a Hollywood ma i padroni degli studi l’accolsero con ostilità se non disprezzo, in quanto nei medesimi giorni Mussolini aveva siglato con Hitler l’accordo dell’Asse Roma-Berlino (24 ottobre 1937) che portava uomini, aerei e bombe al dittatore Franco, per mettere fine alla Rivoluzione sociale di Spagna. Il ragazzo del Duce, spesso vezzeggiato dalla stampa italiana, anche quella di sinistra per le sue fascinazioni verso il cinema americano… dopo aver sceneggiato film edificanti (tra i quali, Luciano Serra pilota, 1938 di Goffredo Alessandrini, I cavalieri del deserto,1942 di Gino Talamo e Osvaldo Valenti, Un pilota ritorna,1942 di Roberto Rossellini), alla caduta del regime (25 luglio 1943), si rifugia nelle fauci di Hitler e si distingue per gli appelli radiofonici di un fantomatico governo fascista in Germania… partecipa alla Repubblica di Salò con grande dedizione, quando i partigiani volevano fargli la festa che meritava, fugge clandestinamente in Argentina… tornerà in Italia nel 1967, muore nella villa di famiglia nel 1997, senza essere morso da nessun tormento… nei suoi momenti migliori il fascismo fu sanguinario, come si addice a ogni regime veramente ispirato… e il ragazzo del Duce c’era e scriveva/faceva cinema… inabissato nella tristezza esultante della propaganda fascista e l’insincerità provinciale della fumettistica hollywoodiana.
Non tutti i magnati americani si mostrano invisi alla regista di Olympia… il papà dell’automobile per tutti, basta che sia nera, disse, Henry Ford… invita la Riefenstahl nella sua fabbrica di Detroit… l’intesa fu intensa… a fine incontro Ford rivolse una supplica alla Riefenstahl, questa: “Al suo ritorno, appena rivedrà il Führer, gli dica che ha tutta la mia ammirazione e che spero di poterlo conoscere al prossimo congresso del partito”. Gli apostoli del potere si capiscono sempre… la chiacchera, lo sproloquio, il cattivo gusto non gli mancano… la plebaglia — quando non è inginocchiata al proprio interesse — è sempre sospetta di attività cospirative… gli onnipotenti mirano alla posterità come la merda della vacche al prato! Peccato che la cacciata degli usurpatori dalla santità avvenga in epoche saltuarie… quando si spezzano le catene, crollano anche i giganti d’argilla che le hanno forgiate.
Di Olympia. Il film della “ bella maledetta” esce nel 1938 (non qualche giorno dopo la fine delle olimpiadi come avrebbe voluto Goebbels)… occorrono due anni d’intenso lavoro della regista e gli assistenti per scegliere e montare il definitivo dai 400.000 metri di pellicola girata. L’impresa è di quelle titaniche… la Riefenstahl riesce a filmare quanto più possibile tutte le discipline sportive… le furono messi a disposizione una trentina di operatori, direttori della fotografia, tecnici delle pellicole Agfa, Kodak, Perutz e 2.350.000 Reichmark del Ministero della propaganda, concessi dalla Film Credit Bank alla Olympia Film GmbH (casa di produzione della Riefenstahl, ma a tutti gli effetti dietro c’era l’imprimatur di Goebbels)… i tedeschi affluirono in massa nei cinema e Olympia, oltre a magnificare le Olimpiadi di Hitler, incassò milioni di Reichmark… la stampa internazionale esultò al capolavoro! Perfino l’Enciclopedia delle donne ne tesse ancora gli elogi, così: “Il trionfo della volontà contribuisce soprattutto ad incensare il regime, Olimpia fa spazio anche ad un messaggio universale: qui l’amore per lo sport e la bellezza non sembrano risentire di preconcetti di razza o di condizione sociale. La spinta umana a confrontarsi con i propri limiti, l’armonia di risultati ottenuti con fatica e tenacia si offrono allo sguardo come generatori di bellezza; per Riefenstahl è compito della regia esaltare questa bellezza attraverso montaggi dal rigore geometrico capaci di sottolineare l’emozione visiva.
Anche nella seconda parte della sua carriera Leni mantiene intatto l’entusiasmo vitale. Dopo aver affrontato il carcere e diversi processi come collaboratrice di Hitler – nei quali viene provata la sua estraneità ad atti di guerra o di sterminio – la regista viene allontanata dalla cerchia artistica internazionale, ma prosegue ugualmente nel proprio lavoro anche grazie ad alcuni sostenitori danarosi. Si avvicina alla fotografia a colori, raggiunge l’Africa e negli anni Sessanta documenta il mondo della popolazione Nuba. Più tardi, ultrasettantenne, l’artista ritrae con riprese subacquee la vita intorno alle barriere coralline”[1]. Lidia Piras, che ha redatto l’articolo non sembra abbia studiato bene la celebre e controversa vita della sua eroina Leni… forse non sa che “nella stupidità c’è qualcosa di serio che, meglio orientato, potrebbe moltiplicare il numero dei capolavori” (E.M. Cioran)… l’ebetudine ha sempre a che fare con l’arte da verbale di polizia… cara Piras… non importa essere donne per essere sceme e credere che dietro una puttana d’alto bordo come la Riefenstahl non ci sia l’approvazione all’ingiuria criminogena nazista! L’incubo dei forni non la riguardava… come del resto all’intera popolazione tedesca… i giovani delle rose bianche, venivano impiccati senza possibilità di essere ascoltati in loro difesa[2]… ai giudici nazisti — molti dei quali saranno integrati nella Repubblica Federale Tedesca, senza rimpianti —, non piacevano impertinenze e dissensi non violenti… perché potevano fomentare disordini che poi li avrebbero giudicati come becchini, quali erano e ancora sono. L’ingiustizia è solo per i poveri o gli ingenui, per i ricchi, i politici e i criminali c’è sempre uno avvocato e un giudice che sanno cosa fare… il sabotaggio della giustizia è la loro pratica quotidiana… restano comunque cimici in attesa di essere schiacciate!
La Riefenstahl è stata una pioniera del cinema, è vero… insieme a quella sparuta pattuglia di donne-registe tedesche (Olga Tschechowa, Rosa Porten, Lotte Reiniger, Leontine Sagan, Hermine Körner), il nome di Helene Bertha Amalie Riefenstahl (Leni)… non spicca solo di eccentricità artistiche ma anche per le stonature fideistiche al nazismo… non è per nulla vero cara Piras che i diversi processi che la infamavano come collaboratrice di Hitler l’hanno assolta, semmai confinata tra gli appestati che sono riusciti a farla franca in maniera nemmeno pulita… cara Piras lo vada a raccontare ai sopravvissuti dalla degradazione col numero tatuato sul braccio o alle famiglie di quelli bruciati sui fili spinati dei campi o a ciò che è rimasto di sei milioni di stelle gialle assassinate, se la filmografia della Riefenstahl è così sistematica, rigorosa, espressiva, emozionale. Come non vedere che ogni sintagma filmico di questa baldracca fulminata nella fede nazista (che non ha mai abiurato), è un tassello/marchio di un linguaggio del crimine che come quello dell’estasi porta al giuramento di fedeltà e venerazione al supremo capo del nazismo? È indecoroso fare la puttana di corte (almeno le signore della strada una storia di dolore ce l’hanno) o la ruffiana dell’osceno giustificato nell’arte… il cane assume sempre la vigliaccheria del padrone! altrimenti rompe il guinzaglio e morde alla gola il suo persecutore!
[1] Lidia Piras, http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/leni-riefensthal/
[2] La Rosa Bianca era un’organizzazione clandestina di giovani studenti. Il film La Rosa Bianca – Sophie Scholl (2005) di Marc Rothemund, narra in maniera veritiera la condanna alla ghigliottina di Sophie Scholl, suo fratello maggiore Hans e un altro membro della resistenza. Accusati di cospirazione contro il regime del Führer.
A noi pare che Olympia sia un grande documentario sullo sport e al contempo la divinazione del corpo nazista, ma niente più… secondo la nostra lettura partigiana (contro una parte, s’intende, quella della barbarie, quale che sia), Olympia non rappresenta la massima espressione artistica della Riefenstahl o almeno non raggiunge la lirica o epopeica o mistica del “grande spirito nazista” come in Il trionfo della volontà… qui le immagini di Hitler e dei suoi scagnozzi immolate tra ali di folla imbandierata, mani spianate verso il cielo e corpi in divisa eretti a prostrazione del mito… figurano davvero la potenza della volontà assassina che interpretano… non si è mai visto nelle macellerie cinematografiche nulla di simile, nemmeno in quelle degli indiani d’America di John Ford & affini… in fondo in fondo John Wayne aveva qualcosa di comico quando sparava negli occhi agli indiani per non mandarli nel cielo del Grande Spirito, e quella celebre camminatura dondolante e il fucile in mano lo relegavano a estimatore della frontiera americana, mica dei misfatti di politici, banchieri e governanti corrotti! In fondo fondo era un romantico… e basta un dollaro d’onore per fare dell’amicizia, dell’amore o della la famiglia perduta, Howard Hawks diceva in Rio Bravo (1959), per continuare a combattere e sognare al di sopra di tutti i precipizi del sopruso. Della negazione del male non si deve avere soltanto l’istinto, ma la grazia di non fermarsi tra il dilettantismo e la dinamite!
Certo… sono molte e interessanti le invenzioni stilistiche in Olympia… le situazioni tecniche escogitate da Walter Frentz, Guzzi Lantschner, Hans Ertl o le inquadrature potenti volute dalla Riefenstahl non si possono disconoscere… carrelli avventurosi, visioni sottomarine, macchina da presa a mano, assoluta padronanza del montaggio… danno al film un carattere o un fascino contagioso… un Verbo che magnifica o divora ciò che afferma. Olympia è suddiviso in due parti, Fest der Völker (Festa dei popoli, 123 minuti) e Festa di bellezza (Fest der Schönheit, 94 minuti)… oltre a quella in tedesco, esistono versioni in inglese e francese… alcuni registi hollywoodiani sembra che abbiano ritenuto il film tra i dieci migliori mai realizzati… ma, come sappiano, i salotti della fabbrica dei sogni non sono mai stati parchi di frivolezze mondane e hanno fatto della “città degli angeli” il postribolo delle loro miserie da Oscar… e anche se maestri eversivi del linguaggio cinematografico come Erich von Stroheim, Orson Welles, Luis Buñuel o Jean-Luc Godard… hanno disvelato le loro mistificazioni e li hanno inchiodati nel falsopiano della gloria… strangolatori e strangolati del mercato hanno vinto, e sovente in bella calligrafia. Sono sopravvissuti al romanticismo e il cesso. Si erige un linguaggio cristologico o della liquefazione del cervello, quando s’inneggiano i simboli dell’immaginario convertito, in attesa che il pubblico ne decreti il successo e non la sua saliva indirizzata allo schermo! Si distrugge una civiltà della mistificazione, soltanto quanto si distruggono i suoi miti.
L’apertura di Olympia è un viaggio nel tempo in cui i tedofori si passano la torcia olimpica fino al braciere di Berlino… le vestigia dell’antica Grecia si trascolorano in statue, atleti nudi e ballerini scultorei (c’è anche la Riefenstahl che zampetta tra i veli)… avvolti dalla musica entusiasta di Herbert Windt, smielata sulla cerimonia d’apertura dei giochi… è una sorta di elegia filmica della perfettibilità greca di corpi che bene s’accorpa alla monumentale scenografia di Hitler e della sua corte sugli spalti dell’Olympiastadion… tra una gara e l’altra la Riefenstahl non disdegna nemmeno di amoreggiare con il re del decathlon e medaglia d’oro in quella olimpiade, l’americano Glenn Morris… una sorta di Tarzan (lo interpretò malamente in Tarzan’s Revenge, 1938, di David Ross Lederman) che l’abbagliò per la sua prestanza fisica e abusò di lei anche nelle docce dello stadio, si divertono a riportare le cronache rosa del tempo. Che peccato che, per arrivare a raggiungere l’elogio del tiranno, si debba passare attraverso la fede incondizionata. Le riprese dei momenti agonistici coincidono sempre col gesto atletico sublimato… i corpi delle donne/uomini sono avvolti in un’aurea quasi evangelica… una voluttà scultorea, una divinazione della supremazia… di là dalla disciplina sportiva che praticano gli atleti… la corsa, le vele, il pallone, le spade, il martello o il lancio del peso… tutto è un prontuario sulla potenza del corpo filmato con fin troppa eleganza e infeudato in un formalismo forzato che ne raggela la sfida, amplificandola. La Riefenstahl coglie gli atleti nei loro trionfi e anche nelle amarezze della sconfitta… e li deposita in una sorta di osmosi con la folla plaudente e inneggiante tanto al vincitore quanto ai sogghigni di Hitler, affinché la meraviglia sussista… lo spettacolo di Olympia, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del regime nazista che ne detta la ragione… è il modello ir/reale della vita socialmente dominata.
La chiusa di Olympia è un ventaglio iconico che attraversa l’immaginario collettivo e si fa nutrimento dell’accoglienza popolare… i tuffi dal trampolino si librano in una sorta di sinfonia visuale… gli atleti sono filmati come angeli (incrociati nel montaggio) e sembrano volare oltre il cielo nuvoloso… hanno spesso la medesima angolazione di Hitler visto come un dio che tutto vede e tutto giudica… il lungo nastro agonistico è sfaccettato tra applausi della folla, lacrime dei vincitori e primi piani incastonati nell’edificazione o nell’evocazione di un’ortodossia religiosa predestinata all’eccellenza organizzativa nazista. L’enfasi muore a mano a mano che l’eco affievolisce sulla condizione disumana che sottende. Gli ultimi fotogrammi cadono nella metafora… le bandiere dei Paesi che hanno concorso all’evento (le più importanti e non c’è quella nazista o è nascosta tra le pieghe di altre) sono sovrapposte a una fiamma o un braciere che si dissolve in nero. Manca di vedere il fumo dei forni e il significato della mascheratura crolla nelle ceneri della “soluzione finale” del popolo ebraico.
Olympia è stato definito un capolavoro della modernità… il plauso di critici, storici, accademici internazionali è stato unanime… sembra davvero che l’abbiano visto in tutta la sua lunghezza e non si sono serviti delle veline naziste… le recensioni sono tuttavia corollate da doverose premesse… la musa di Hitler è una persona poco simpatica, poco trasparente, mai pentita della sua adesione al nazismo ma… “ma le sue narrazioni filmiche sono, dicono, pietre miliari del cinema mondiale”… oppure che “i suoi film, anche se ci fanno rabbrividire per la densità nazista del loro stile e dei loro contenuti, sono, comunque, affascinanti e bellissimi” (Leonardo Quaresima). Il Time ha inserito Olympia tra i 100 film più belli degli ultimi 80 anni, e se lo dice il Time dev’essere vero… anche se occorre dire che questo giornale non fu mai avaro di plausi verso il nazismo prima che scatenasse la seconda guerra mondiale.
Nel 1938 Olympia fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia e riscosse consensi calorosi della crema intellettuale fascista e gli conferirono la Coppa Mussolini (ex.equo con Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini, un’ovazione al regime in salsa sentimentale, interpretato dal virile Amedeo Nazzari che fa il verso a Errol Flynn… tra gli sceneggiatori figura anche Roberto Rossellini). Di lì a poco il cinema italiano abbandonerà i telefoni bianchi e le camicie nere di Cinecittà, affonderà la realtà di cartapesta e la censura fascista e porterà la dignità calpestata di popolo a nuove stagioni di bellezza[1]. Ossessione (1943) di Luchino Visconti, Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, Il bandito (1946) di Alberto Lattuada, Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, Sotto il sole di Roma (1948) di Renato Castellani, Anni difficili (1948 di Alberto Lattuada, Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, In nome della legge (1949) di Pietro Germi, Cronaca di un amore (1950) di Michelangelo Antonioni, Achtung banditi! (1951) di Carlo Lizzani, Gli sbandati (1951) di Francesco Maselli, La strada (1954) di Federico Fellini, Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini… espressero una filosofia dei momenti unici, irripetibili, che liberarono il cinema dalla paura dei sarcofani, scardinarono i pregiudizi religiosi e morali del loro tempo, per proclamarne il fallimento. Mostrarono che il cinema — sotto un certo taglio etico/estetico — può essere anche è un’arma potente per la liberazione e la crescita delle coscienze.
[1] Pino Bertelli, La dittatura dello schermo. Telefoni bianchi e camicie nere, Edizioni Anarchismo, 1993
Ricordiamolo. Dopo il successo del cinema neorealista nel mondo… nel 1949 il sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti presenta una legge che rispettava la sua famosa frase: “I panni sporchi vanno lavati in casa propria!”… e viene ripristinata la censura preventiva. Per poter ricevere i finanziamenti pubblici, la sceneggiatura doveva essere approvata da una commissione statale (la medesima che aveva operato sotto il fascismo). La commedia italiana — anche nelle sue opere migliori — s’appresta a diventare la caricatura di una società avviata all’omologazione dei costumi e il linguaggio filmico approda nella serialità intellettuale di un cinema senza interrogativi… del quale e all’ingrosso, Totò, Renato Rascel, Walter Chiari, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi… sono i mattatori provinciali o principi della risata che non salvano la plebaglia dalla demoralizzazione, dalla volgarità e dai peccati d’ottimismo. Le folle amano la simulazione e la consolazione… poiché il cinismo della comicità (senza l’amaritudine dell’eresia) riconcilia sempre i padroni con i loro servi. La risata facile soffoca l’indignazione, il ghigno dell’eresia la suscita.
Le attribuzioni, i paragoni, le convergenze sulla tecnica filmica della Riefenstahl, esportate o equiparate a visionari eversivi come Orson Welles o Stanely Kubrick ci sembrano un po’ generose se non forzate… cineasti come David W. Griffith, Friedrich W. Murnau, Georg W. Pabst, Fritz Lang, Carl T. Dreyer, Sergej M. Ėjzenštejn, Dziga Vertov, Vsevolod I. Pudovkin, Oleksandr P. Dovženko, Jean Renoir, Marcel Carnè, Luis Buñuel, Jean Vigo o Jean-Luc Godard hanno sperimentato, rovesciato o elevato il linguaggio cinematografico e dato al film lo statuto di opera d’arte, e la Riefenstahl ne ha abilmente e giustamente saccheggiato l’eredità poetica. Inoltre l’invenzione del carrello, il “dolly” o altre soluzioni tecniche attribuite alla Riefenstahl in Olympia, erano già apparse in Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone o Scipione l’africano (1937) di Carmine Gallone… in molto cinema muto e in Come vinsi la guerra (1927) e Il cameraman (1929) di Buster Keaton… l’impiego delle ottiche lunghe in Olympia (che ha deliziato gli aureolati della critica cinematografica), era conosciuto nei documentari antropologici di Robert J. Flaherty e in L’uomo di Aran (1934) raggiunge altezze espressive mai viste prima.
Ciò che conta e fare del linguaggio cinematografico un grimaldello che irrompe nella luce addomesticata della macchina/cinema e attentare all’unica realtà che esista, quella della vita quotidiana violata e orientata al servaggio della società mediocratica… l’autoritarismo dei media è il prolungamento dell’economia politica che lo sovvenziona per inebetire le masse e (in ogni epoca) è il vettore apologetico del potere. “La globalizzazione culturale è una forma di totalitarismo; la tv è totalitarismo, le persone che stanno quattro ore al giorno davanti alla tv sono vittime del totalitarismo…dimenticare lo sterminio fa parte dello sterminio… è ora di smetterla di fare film che parlano di politica. È ora di afre film in modo politico”, Jean-Luc Godard, diceva… l’analogia fra arte, pubblicità e prostituzione presuppone un rapporto tra puttane sfiorite. “Bisognerebbe dare onorificenze alla gente che fa plagi (Jean Renoir), almeno hanno le idee chiare e hanno capito che per fare del cinema bastano
fucili, ragazze e fare della realtà lo splendore del vero, come Roberto Rossellini. Raccontare l’imperialismo economico, estetico e politico del cinema significa affrettarne la fine… ma i vaniloqui accademici del linguaggio cinematografico/televisivo non sembrano tenerne di conto… a forza di dire d’aver molto studiato, si rischia di non capire nulla di ciò che si è studiato davvero!
La seminagione filmica della Riefenstahl però è stata ben assimilata da autori di una certa caratura mercantile come George Lucas, Steven Spielberg o Quentin Tarantino… che hanno cercato di copiarla o imitarla, persino di riconciliare il dispotismo con le sue vittime… la merce non guarda in faccia a nessuno, nemmeno alle carneficine della storia, e Guerre stellari, Chindler’s List o Bastardi senza gloria sono organismi della macchina/cinema hollywoodiana ben oliati per il botteghino, pacchetti confezionati per il sonno delle coscienze.
Per credere nella realtà dell’indignazione, bisogna innanzitutto credere in quella della caduta degli apparati che la provocano… ogni atto ereticale inizia con la percezione dell’inferno prima e del paradiso dopo… appaiati nella loro liquidazione. Anche se scrivono che “Leni Riefenstahl fa parte integrante della cultura del Novecento” (Gianni Rondolino), e chi non ne fa parte?… dipende da come farne parte del Novecento… i milioni di bambini passati dalle camere a gas o sparati alla testa o fracassati sul ferro dei carri armati non sono parte di un progetto culturale/politico del Novecento?… del talento cinematografico di questa estasiata del nazismo ne facciamo volentieri a meno… le preferiamo l’ultimo dei barboni, almeno non è naufragato nelle lusinghe di nessun potere e ha fatto della propria dissennatezza il principe di sé, umanizzato. Il cinema della Riefenstahl sarà stato tutto, tranne che ingenuo o non ammaestrato! Crediamo fortemente che nella storia del cinema non ci siano film di siffatta prodezza estetica che contengono la coscienza del male quanto in tutta la sua maledetta opera.
[Continua…]
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