Il libro fotografico LA SOGLIA è un reportage fotografico nato da un interessante e straordinario esperimento all’interno della casa di reclusione di Saluzzo. Era il 2004, e portare un laboratorio di teatro all’interno del carcere come attività nella quale coinvolgere i detenuti era una iniziativa coraggiosa e di notevole valore umano ed educativo. Una scommessa, quella del direttore della casa circondariale dell’epoca, Marta Costantino, e dei fondatori dell’associazione Voci Erranti Onlus, che alla luce di quanto accadde appena pochi mesi dopo non poteva che considerarsi vinta. Affascinato e incuriosito dall’idea, Paolo Ranzani, da sempre fotografo di individui più che di oggetti o di paesaggi, decide di mettere su pellicola quanto accadeva tra le mura del carcere per costruire un racconto per immagini che avesse un unico scopo. Raccontare una storia. E la storia che ne venne fuori fu qualcosa di potente, rivoluzionario, perché sdoganava certi concetti, poneva interrogativi, rompeva gli schemi di una società che non vedeva luce all’interno di un carcere e, soprattutto, non credeva nella detenzione come strumento di educazione e riabilitazione ma esclusivamente di punizione. Quei corpi immobili, fermi e intorpiditi dalla monotonia di giornate perfettamente uguali, scandite da orari e tempi costanti e mai variabili, scoprono improvvisamente la forza della vita che ancora scorre nelle loro vene. La voce flebile diventa improvvisamente un urlo, il movimento lento e cadenzato si trasforma nell’irruenza di un gesto, nell’energia di una corsa, di un salto. È la forza di un corpo che si riscopre ma ancor più di un’anima che si risveglia, che lascia entrare luce nei pensieri, che si apre di nuovo ad un sentimento assopito o scopre, per la prima volta, la bellezza di un sentimento mai provato. Tre mesi, tanto è durato il progetto, durante i quali Ranzani, entrato in punta di piedi, si guadagna pian piano la fiducia dei detenuti che accettano di farsi fotografare nell’intimità dei propri sentimenti, nella rabbia di un grido, nella forza di un movimento o di un gesto che diventa liberatorio. Immagine dopo immagine, giorno dopo giorno, i corpi si spogliano di quello che sono stati e si vestono di vita nuova. Tante erano le storie di quelle persone che sono andate “oltre”. Con grande sensibilità e onestà intellettuale Ranzani non si chiede perché siano lì, quale soglia abbiano oltrepassato. A lui non interessava giudicare, sapere. Voleva invece raccontare quella Storia. Quella che si stava scrivendo attraverso il laboratorio e lo spettacolo che ne è derivato.
La Soglia, con la regia di Koji Mijazaky, e la collaborazione di Grazia Isoardi e Fabio Ferrero, è diventato così un reportage fotografico, un racconto che regala allo spettatore un frammento di quel percorso e al tempo stesso immagini conchiuse, che vivono di vita propria e non necessitano di legarsi ad alcunché. Non c’è dramma, non c’è enfasi nel lavoro dell’autore. C’è solo la volontà di riprodurre quanto accadeva nel laboratorio e di portarlo all’esterno, perché tutti vedessero. Da qui la scelta di rinunciare al bianco e nero, spesso utilizzato per gli scatti all’interno delle carceri, e di usare tinte tenui, colori desaturati per restituire la normalità di momenti comuni che diventano attimi di leggerezza e pura bellezza.
Uno spettacolo, dicevamo, che diventa anche un libro, “La Soglia, vita carcere teatro”, edito da Gribaudo, in cui Ranzani ritrae quello che Luigi Lo Cascio, che ne ha curato la prefazione, definisce “un tumulto espressivo”. Il teatro assume qui un ruolo nuovo. Non più luogo di rappresentazione e di posa, ma di libera espressione. Entità capace di entrare nell’animo dei detenuti a tal punto da restituirgli quella libertà che gli manca. “Un teatro della necessità, come lo definisce Grazia Isoardi, perché non superfluo, né superficiale. Un teatro della carne, non della chiacchiera, in grado di mettere in discussione l’attore quanto lo spettatore”.
Il lavoro di Paolo Ranzani è uno strumento di risveglio delle coscienze, di denuncia sociale, di racconto inedito. Un mezzo per combattere una battaglia, per proporre al mondo nuove visioni o nuovi punti di vista dal quale osservare il carcere e la vita dei detenuti. In quelle fotografie non ci sono solo persone che hanno infranto la legge. Ci sono uomini che hanno colto un’opportunità, che si sono messe in gioco e, attraverso il teatro, hanno scoperto un nuovo modo di pensare, di relazionarsi, di agire. Hanno compreso che una nuova vita è possibile o hanno scoperto per la prima volta un nuovo modo di vivere. Perché, come sottolinea Ranzani, non tutti hanno potuto scegliere. Ma tutti, al contrario, possono decidere di abbracciare una nuova filosofia, di aprire il cuore ad un’altra vita. È quello che è accaduto ad uno dei protagonisti degli scatti esposti. Bakary Berte, originario della Costa d’Avorio, uscito dalla casa circondariale di Saluzzo ha continuato a vivere nei dintorni, ha trovato lavoro e ha messo su famiglia. Grazie al teatro ha scoperto un nuovo se stesso.
Vittorio Faletti
Con questa mostra, lo spazio “Coriolano Paparazzo” dimostra una volta di più di essere un contenitore culturale attento e sensibile ai temi di stretta attualità e che più necessitano di conoscenza, approfondimento e dibattito. In questo caso, la condizione carceraria in Italia con la drammatica appendice di suicidi che tra quelle mura si consumano. Non a caso “Soglie…” gode del patrocinio della camera penale di Catanzaro “Antonio Cantafora” che è stato presente all’inaugurazione con il suo Presidente, l’avvocato Francesco Iacopino.
Il report di Francesco Iacopino sul fallimento della funzione rieducativa della pena in occasione della mostra fotografica “Soglie” allo Spazio Paparazzo. Perché si applaude a un funerale? Ormai è un’abitudine, con qualche sparuta, lodevole eccezione. Eppure il momento, il luogo, la circostanza, tutto insomma imporrebbe tutt’altro, perché l’appaluso è figlio del plauso, del consenso su ciò che accade, si osserva, si ascolta. Lo stesso interrogativo, che non sarà angoscioso ma indubbiamente curioso e degno di un qualche ragionamento interiore, si può dire dell’applauso a un pronunciamento gravoso che arriva a colpire nel profondo la coscienza dell’ascoltatore. Come ieri sera, subito dopo che Francesco Iacopino, ospite di Francesco Mazza allo “Spazio Coriolano Paparazzo”, verso la fine del suo lungo appassionato report sull’inferno nelle carceri, aveva rivelato come la maggior parte dei suicidi in cella avvengano in prossimità della fine del periodo di detenzione.
Togliendo di mezzo ogni residua convinzione sulla funzione rieducativa della pena, anzi delle pene perché tali le riferisce e le riconosce la Costituzione, e conferendo il sigillo del fallimento alle limitate possibilità di reinserimento sociale del condannato. È sempre il caso di riportare le due frasi dell’articolo 27 che si tende a considerare ininfluenti, inutili orpelli consolatori rispetto alla cruda realtà fattuale: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Certamente l’ha dimenticato, più probabilmente, semplicemente, non lo sa, l’operaio dell’episodio raccontato da Iacopino per introdurre l’argomento.
Francesco Iacopino è il presidente della Camera penale “Antonio Cantàfora” di Catanzaro, la Camera penale essendo l’associazione degli avvocati penalisti. La Camera di Catanzaro, nell’ambito delle numerose iniziative volte a sensibilizzare sul tema, a maggio ha organizzato la Maratona oratoria a staffetta “Fermare i suicidi in carcere” coinvolgendo decine di esponenti delle professioni e delle associazioni che si sono alternati al microfono. In Piazza Matteotti, davanti al Palazzo di giustizia, dove erano in svolgimento dei lavori di manutenzione. “Ah, quelli… Devono tutti morire in carcere e buttare via le chiavi”: questa la risposta dell’operaio una volta richiesto da Iacopino di volere sospendere la parte più rumorosa del lavoro. L’operaio “giustizialista” è l’esponente di una larghissima parte dell’opinione pubblica che la pensa così, a ciò portata dalla narrazione univoca e preponderante, frutto della spettacolarizzazione della giustizia e del circuito mediatico corrispondente.
E, certo, l’operaio probabilmente non sa, e con lui larga parte delle persone, quali sono le condizioni in cui vivono i quasi 67mila detenuti nelle carceri italiane, quelle condizioni che nel 2013 portarono l’Italia a essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante, frutto in gran parte del sovraffollamento ma non solo. Dall’inizio del 2024 i suicidi sono più di 70, compresi anche sei agenti penitenziari, e si va avvicinando il numero record del 2022, quando si tolsero la vita 84 persone. È il sistema carceri che non regge più: “si è ridotto il carcere – ha sostenuto Iacopino – a una discarica sociale, il centro di raccolta delle periferie esistenziali del nostro tempo: 7mila malati psichiatrici, 20mila tossicodipendenti, quasi 20mila extracomunitari, altrettanti sono i poveri del nostro tempo, i disperati della storia” con “il diritto penale diventato il surrogato della politica sociale, il cui fallimento è sostituito dalla leva penale”.
Le condizioni sono alienanti: quasi l’80 per cento dei detenuti assume psicofarmaci, si trascorrono in cela ventidue ore su ventiquattro, Il sistema non regge neanche dl punto di vista utilitaristico: “un detenuto costa allo Stato 150 euro: quanta politica sociale si potrebbe fare con queste somme” chiede il presidente dei penalisti catanzaresi – quante persone si potrebbero togliere dall’emarginazione sociale da cui proviene la maggior parte dei detenuti prima che finiscano in carcere. Istituzione che diventa a sua volta una vera e propria fabbrica criminogena, come dimostrato dalla prova contraria del successo delle prove di reinserimento lavorativo nel periodo ultimo della pena a seguito delle quali il pericolo di recidiva è quasi azzerato”. Di fronte allo sfacelo, non è ampliando l’ipotesi di reato e aumentando le pene che si risolve il problema della sicurezza, non è neppure costruendo nuove carceri, sperando sempre che non si arrivi a valutare la possibilità di “esportare” i detenuti, come il governo ha deciso per i migranti irregolari nei Cpr – “lager del nostro tempo”, li definisce Iacopino – che, nella scala dell’esclusione, sono oggi al primo posto, reclusi fino a 18 mesi eseguendo una misura che non necessita neppure dell’avallo di un giudice togato.
Francesco Iacopino si è trovato a parlare allo Spazio Coriolano Paparazzo in occasione della mostra “Soglie”, esposizione delle fotografie di Paolo Ranzani, ritrattista basato a Torino che non ha potuto partecipare all’inaugurazione impedito da un fastidioso malanno. Ha però mandato un breve video, spiegando che la mostra, e il volume di immagini e testo intitolato “Soglia”, è il frutto del lavoro svolto al carcere di Saluzzo in occasione di un fortunato laboratorio teatrale tenuto al suo interno nel 2004. La soglia è uno dei tanti confini che talvolta è necessario superare per essere proiettati in una dimensione nuova, piacevole o negativa che sia. Ranzani ha seguito per tre mesi le prove del laboratorio nel quale una decina di detenuti hanno portato in scena versi e testi di autori contemporanei (Jean Genet tra gli altri). Qui Ranzani ha scoperto che in carcere non ci sta soltanto chi ha sbagliato, ma “chi ha sbagliato e non ha i soldi per uscire”.
Gli ultimi, i poveracci, quelli che non hanno avuto alta possibilità. Un giovane detenuto gli ha raccontato: “Mio fratello drogato, mio padre in carcere, mia madre prostituta… non è che potevo diventare notaio”. Era indirizzato, Ranzani, al bianco e nero. Poi ha pensato che la soluzione avrebbe aggiunto drammaticità a una realtà che di dramma ne ha già in sovrappiù. Ha pertanto scelto il colore, in verità un colore che non è proprio colore, ma sua proiezione acida e fortemente desaturata, espressione quasi monocromatica della vita che voleva rappresentare.
Hanno contribuito alla serata le letture di Aldo Conforto e Anna Maria Corea di alcune pagine tratte dal “Memoriale del carcere” di Saverio Montalto, scrittore calabrese da riscoprire che, nella sua tribolata vita trascorse anche cinque anni nel manicomio criminale di Aversa. La mostra “Soglie” allo Spazio Coriolano Paparazzo sul Corso Mazzini di Catanzaro, ingresso gratuito, prosegue l’opera di esplorazione dell’”Umano” tentata da Francesco Mazza e proposta con nuova lena con un programma di eventi multigenere che si può seguire sulla pagina Facebook francesco.mazza.944.
Raffaele Nisticò
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