La RAGAZZA AFGHANA è in ITALIA: vi raccontiamo una storia che forse non tutti conoscono.
Nel novembre del 2021 la celebre donna dagli occhi verdi fotografata da Steve McCurry è arrivata a Roma, già proprio lei, la più famosa dei non famosi. Una storia incredibile. Sharbat Gula è il suo nome ma quasi nessuno lo conosce, il suo viso certamente sì: aveva dodici anni quando, nel 1984, fu ritratta dal celebre fotografo americano.
Diciassette anni dopo, nel gennaio del 2002, il fotografo americano insieme al National Geographic organizzò una spedizione per trovarla. Le ricerche di quella che era stata ribattezzata la ‘Monna Lisa afghana’ durarono mesi, fino a quando il suo nome venne svelato.
A quel punto McCurry scattò una nuova foto: Sharbat Gula nel frattempo era diventata una donna, il suo volto provato dalle enormi difficoltà che la vita le aveva messo di fronte, gli occhi, però, sono sempre gli stessi.
Nata all’inizio degli anni ‘70 nella provincia orientale afghana di Nangarhar, da giovanissima era fuggita insieme ad alcuni familiari dal villaggio bombardato dai sovietici. Con tre sorelle, un fratello e una nonna ha attraversato le montagne fino a giungere in un campo profughi pakistano.
La notorietà internazionale suscitata dalla sua immagine in copertina non la sfiora: a 13 anni si sposa, ha cinque figli, di cui una muore subito dopo la nascita; l’epatite C le porta via il marito, e colpisce anche lei.
Nl 2021 Sharbat Gula Shinwari mette piede in Italia per la prima volta, lasciandosi alle spalle un Paese da poco caduto nelle mani dei Talebani. Simbolo, oggi come 38 anni fa quando la sua immagine fu catturata nell’obiettivo del fotografo americano Steve McCurry, di un Paese distrutto e di un popolo costretto alla fuga.
Con la sua fama, questa signora di 50 anni, per sempre intrappolata nell’immagine di una bambina dagli occhi spalancati, sarebbe potuta arrivare ovunque, compresi gli Stati Uniti e invece ha scelto l’Italia grazie al programma di evacuazione dei cittadini afghani.
Perché ha scelto di venire in Italia? Perché non negli Stati Uniti, dove ha sede il National Geographic? A questa domanda Sharbat Gula preferisce non rispondere direttamente. “Ho avuto la libertà di scegliere – ammette – quando sono arrivati i talebani ho capito che sarebbe stato difficile per me restare: sono troppo conosciuta in Afghanistan. Diversi governi ci hanno offerto aiuto: ho scelto l’Italia perché avevo sentito parlare molto di questo, del posto ma anche della gente. Tutti dicevano che voi italiani siete gentili e accoglienti. Sapevo solo che l’Italia ha fatto molto per l’Afghanistan e ho deciso di provarci.
“Speriamo di non avervi deluso troppo“, ha sussurrato e poi confessa: “Finora quasi nessuno sa chi sono e per me va bene così. Vi dico una cosa, la prima volta che sono andato al all’ospedale, alcuni medici e infermieri mi guardarono, volevano sapere se ero io la bambina della foto. Alla fine decisero che non ero io e ne ero contenta Solo la mia insegnante di italiano, il mio medico e pochi altri conoscono la mia storia, e per me va bene”.
Sharbat Gula ha deciso di rompere il silenzio per due motivi: per ringraziare chi l’ha accolta qui e per fare ancora una volta della sua storia un simbolo, ma questa volta di resilienza. E, a differenza della precedente volta nel 1984, questa volta è stata una sua scelta. Sulla porta i figli più piccoli si stringono attorno alla madre, la figlia maggiore resta un passo indietro, accanto al marito. Sono belli ma nessuno di loro ha ereditato gli occhi della madre.
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PATRIZIA SAVARESE – Dal Rock alle Metamorfosi Vegetali
Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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