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…la post-produzione.

di Davide Laganà

Fondamentalmente, descrivere il mio rapporto con la post-produzione significa descrivere me stesso.

Quella che vi racconto è la storia (ricostruzione) di una storia (relazione).
E come nelle migliori storie, a volte ci si incontra per puro caso.

2004,
…o 2005?

una domenica pomeriggio come tante a casa di un caro amico: Reggina in tv, merenda e poi di corsa davanti alla PlayStation o al PC per ore.

Io ed “A.”, amici da una vita: lui, da poco assunto come grafico presso un’agenzia di comunicazione; io, aspirante webmaster e chissà quante altre cose…sicuramente smanettone, che sfogava i suoi istinti modificando Invision Board e i forum in generale (all’epoca, un tale Mark Zuckerberg scriveva codice in segreto nelle mense di Harvard e WordPress era appena un bebè). Mi approcciavo da poco alla fotografia, con una Sony Cybershot DSC-P52 da ben 3.2 MP (la mia prima macchina, regalo per i 18 anni).

Guardando delle fotografie, ad un certo punto “A.” esclama: “questa foto è troppo blu!”Apriti cielo. Cosa voleva dire “troppo blu”? Perché lo era? E soprattutto, come faceva LUI ad accorgersene mentre IO non trovavo nulla di strano? Sembrava una domenica pomeriggio come tante, invece un grosso tarlo mi si era appena installato nella testa: dovevo scoprire come “leggere” una foto.

Photoshop CS3 Extended (2007)

2007,

battute finali di un corso di grafica pubblicitaria. “D.”, il docente, mi chiede in un momento extra-lezione: “hai mai usato i file RAW?”

Apriti cielo, parte seconda. Cos’è questo “RAW”? Perché non riesco a visualizzarlo in Windows, e pesa così tanto? Ma soprattutto, perché questa finestra “Adobe Camera RAW” si mette sempre in mezzo fra me e Photoshop CS3? Ok, concludo il corso ma continuo a frequentare lo studio per guardare, ascoltare, imparare nuovi flussi di lavoro: i concetti di temperatura e tinta colore, gli slider positivi-negativi, una malleabilità non-distruttiva prima impensabile (rumore digitale permettendo). Inizio a comprendere, vagamente, perché quella foto potesse essere “troppo blu”…mi mancava la sensibilità per capirlo al volo. “D.” quindi mi offre dei RAW per fare pratica. Poi mi assegna alcune fotografie di matrimonio, per affiancarlo e lavorarci su insieme. Infine, mi delega un intero album da “sistemare” ed impaginare…il primo di una lunga serie.

Avevo 21 anni, e quello era di fatto l’inizio della mia carriera da post-produttore. Seguirono anni di corsi, workshop, tutorial, progetti, collaborazioni e…fasi: ricordo la fase “filtri NIK”, abusati nel torturatrattare i miei scatti in RAW (dal 2010 avevo finalmente la mia bramata reflex, una Canon EOS 500D); la fase “vintage”, nella quale 9 progetti su 10 avevano estremi tonali rigorosamente compressi fra 10 (neri) e 245 (bianchi); la fase “azioni”, che mi ha permesso di comprendere (a suon di tentativi) ed automatizzare vari flussi di lavoro…inconsciamente, stavo già iniziando a sviluppare forme di allergia verso il “precotto” (che fossero azioni o stili-preset-LUT).

DAVIDA Sposa e Cerimonia, ADV 2020 DAVIDA Sposa e Cerimonia, ADV 2020 (RAW)

2020.

Centinaia di progetti dopo, la post-produzione è diventata parte integrante della mia vita personale e professionale. È una disciplina incredibile, che può:

  • aumentare l’appetibilità e la fruibilità di immagini apparentemente “deboli”;
  • restituire informazioni che l’occhio umano cattura, ma restano fuori dai limiti di un sensore;
  • offrire interpretazioni creative irriproducibili in natura (come il bianco e nero);
  • uniformare sequenze dalla resa disomogenea (scene catturate da corpi macchina diversi);
  • “mettere una pezza” su errori in fase di produzione (non dovrebbero capitare, ma…capitano);
  • correggere inestetismi invisibili all’apparenza, oppure poco idonei al target dello scatto (dei granelli di polvere su un orologio di lusso, uno sfogo cutaneo imprevisto per un ritratto beauty);
  • generare immagini e linguaggi ex-novo, miscelando sorgenti di diversa natura (anche non fotografica: design 2D e 3D, digital art, ecc.).

Ma soprattutto, è una disciplina subdola: un buon risultato, infatti, deve risultare invisibile all’occhio di chi andrà a guardare quel lavoro! Se una post “si vede”, spesso ci si trova davanti a un bivio: o è una deriva creativa (ma va dichiarata prima), o è semplicemente fatta male (difficilmente si dichiara). A volte, una non esclude l’altra.

Post-produco quotidianamente, con alcuni strumenti (PC, Adobe Creative Cloud, tavoletta grafica Wacom e monitor EIZO regolarmente calibrato con i1 Display PRO) ma anche con i miei occhi: percepisco istantaneamente le variazioni in ciò che osservo e nel mondo che mi circonda, bilanciandole nella mia mente in un completo e silenzioso automatismo, fino a sfiorare il fastidio davanti ad imperfezioni o errori incontrollabili (guardare la TV a casa di amici equivale spesso a un festival della fluorescenza o delle dominanti = una tragedia interiore). A proposito, una dominante: ecco perché quella foto, infine, era “troppo blu”.

Sono passati più di 16 anni da quella domenica pomeriggio: nel più incredibile dei plot-twist, oggi “A.” è un brillante DevOps Engineer ed io mi ritrovo a scrivervi di post-produzione. E mi rendo conto che, fondamentalmente, descrivere il mio rapporto con la post-produzione significa descrivere me stesso.

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