Parte della mia ricerca fotografica si avvale dell’utilizzo della pellicola.
Scatto in pellicola in momenti determinati, quando perfino il mio corpo è a chiedermelo: per un’esigenza psicofisica.
Scatto in pellicola quando mi accorgo che il mondo intorno a me diventa troppo veloce ed io, al contrario, ho solo necessità di rallentare.
Scatto in pellicola per respirare meglio, per vedere “nuovamente” quello che davo per scontato; per tentare di far cadere il velo dei pregiudizi dalle cose già viste: dai monumenti ai fili d’erba. Potrebbe sembrare un pensiero astruso, proverò a spiegarmi: utilizzo prevalentemente pellicole in formato 120, quelle in rulli, definite “medio formato”. Queste pellicole le utilizzo con una vecchia Hasselblad 500 a pozzetto, montata sul treppiede. Così, mentre cammino con treppiede e macchina in spalla, ad un certo punto mi fermo attratto da qualcosa. Sistemo il treppiede e la macchina fotografica e mi chino a guardare nel pozzetto. La pellicola, dunque, al di là delle sue proprietà tecniche intrinseche, rappresenta per me, in primis, il pretesto per utilizzare una vecchia macchina a pozzetto che, a differenza delle macchine fotografiche elettroniche, richiede una qualità di presenza differente; diventa un medium per azzerare gli automatismi (sia elettronici che mentali) e tornare in ascolto del contingente e del necessario.
Mi richiede quella lentezza che la tecnologia risparmia a chi ricerca la velocità a tutti i costi.
Ho scoperto, nel tempo, che essere lenti nello sguardo permette di rimanere indietro quel poco che basta per contare un filo d’erba in più. Scattare in pellicola mi permette di praticare l’esercizio della contemplazione con maggiore facilità. “Contemplazione” contiene la parola “templum” ed il templum, era quel quadrato o rettangolo che gli aruspici formavano col bastone nel cielo per trarre le loro interpretazioni a seconda del movimento che le aquile compivano dentro la cornice [1].
Così contemplo ciò che ho davanti e l’immagine speculare presente nel pozzetto. Mi chiedo se ciò che vedo sia <<specchio della realtà o finestra sul mondo>> [2]: non mi rispondo.
Ricerco una qualità della presenza differente: contemplare rallenta persino la frequenza del respiro ed i muscoli si stendono. Con questo “essere ed esser-ci” percepisco che l’immagine che vedo non è del tutto bilanciata: mi sposto un poco, mi avvicino di più al soggetto. Ecco: adesso, per dirla alla Shore, l’immagine è <<risolta>> [3].
Bibliografia
- Arasse D. Storie di Pitture, Piccola biblioteca Einaudi,2014
- Ghirri L. Lezioni di fotografia, Quodlibet, 2010
- Shore S. Lezione di fotografia, La natura delle fotografie , Phaidon, 2010
Altri articoli di questo autore
Una lettura chiarificatrice: “Lezione di fotografia” di Stephen Shore [Nicola Buonomo]
La camera oscura: un racconto emotivamente coinvolto
Nicola Buonomo
Mi chiamo Nicola Buonomo e sono nato nel 1985. Vivo in Sicilia. Ho conseguito una laurea in medicina e la specializzazione in neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza. Parallelamente agli studi medici ho studiato recitazione e preso parte a diverse performance di teatro sperimentale in cui il primum movens della ricerca era tendere verso una verità della forma e dell’emozione, rifiutando ogni tipo di cliché formale. Da alcuni anni ho approfondito l’arte fotografica, inizialmente da autodidatta e, successivamente, attraverso un percorso individuale con un fotografo professionista che mi ha permesso di affinare la tecnica ma, soprattutto, di comprendere le radici storiche e culturali dell’Immagine. Oggi, la fotografia e il campo della neuropsichiatria, sono per me terreni che si nutrono a vicenda, diventando strumenti di comprensione delle “cose” del mondo. Un pretesto per restituire un senso all’apparente caos del quotidiano. Mi piacciono le immagini intrise di un certo grado di ambiguità, quelle che lasciano spazio a più possibilità interpretative: “Qualcuno” ha detto: “Il totale è qualcosa di più della semplice somma delle parti”. Mi piacciono le immagini che pongono domande: oggi, la mia ricerca, si muove su binari su cui scorrono immagini che richiedono la presenza di uno sguardo lento; lontano dal chiasso dello stereotipo della figura, ma vicino al silenzio delle cose periferiche.
No comment yet, add your voice below!