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La mia Prediletta – un labirinto emotivo

di Rita Filippone

La mia prediletta” è una di quelle opere seriali che non si limitano a intrattenere, ma spingono lo spettatore a esplorare i recessi più profondi della psiche umana.

La fragilità del legame umano

Affronta con profondità temi di gran spunto antropologico e sociologico, aldilà dei chiari riferimenti di abusi: la famiglia come istituzione e il ruolo del controllo e della manipolazione nei rapporti umani. Tutti i personaggi sono a loro modo al centro della storia. Le dinamiche familiari descritte mettono in luce un microcosmo di depersonalizzazione, obblighi, forzature, dipendenze, sacrifici, compromessi, in cui la libertà individuale è oscurata.

Un tema ricorrente così difficile da trattare, quello della prigionia, non solo fisica ma anche emotiva e psicologica. La bambina rappresenta la freddezza assoluta derivata dall’unico mondo che conosce, Jasmin con il suo sguardo fisso e le sue azioni mostrano una resilienza che contrasta con l’apparente debolezza. Un dualismo che suggerisce una riflessione profonda sulla natura umana: fino a che punto la nostra fragilità può essere una forza?

Coperta

Questo articolo sarà un po’ diverso, partiremo proprio dai frame, quelli che parlano da soli e non hanno bisogno di altro, di nessuna presentazione. Questa scena è visivamente potente e carica di significato simbolico. La coperta dorata, che la avvolge come un mantello regale, mentre l’ambiente circostante freddo e industriale crea un contrasto stridente, quasi a suggerire che la sua purezza, la sua centralità narrativa emergano in un contesto di disumanizzazione.

Tocco

Questo fotogramma è un inno alla semplicità e alla potenza della luce come metafora. Il fascio luminoso che illumina il volto della bambina, abituata ad una luce artificiale, ad un buio pesto, il tocco leggero con la sua mano lasciando attraversare i raggi ne enfatizza la bellezza e l’innocenza ormai spezzata.

Un mantra reiterato nel tempo: «Non sto sbagliando nulla. Mi sono ricordata tutto per bene. Sono una bambina grande.»

L’interpretazione di Naila Schuberth nel ruolo di Hannah dà vita a un personaggio complesso, a tratti profondamente disturbante sebbene in maniera inconsapevole. Lei non ha colpe: i suoi pensieri sono il frutto dell’ambiente socio-culturale in cui è cresciuta rappresentato da mura, da un carnefice, dal buio, da regole ben precise, da una madre rapita e da più madri sostitutive. Nonostante la sua giovane età, Hannah mostra tratti che vanno oltre l’innocenza infantile, rivelando una natura dispotica e fredda, scolpita da anni di prigionia e manipolazione. Il suo mantra «Non sto sbagliando nulla. Mi sono ricordata tutto per bene. Sono una bambina grande non è solo una dimostrazione di superiorità tramandata, ma un meccanismo di sopravvivenza, il risultato di una mente condizionata a trovare sicurezza nell’autoaffermazione assoluta. Questo comportamento si può interpretare alla luce della teoria sociologica del lavaggio del cervello, descritta per la prima volta da Edward Hunter negli anni ’50 e sviluppata ulteriormente negli studi sulla coercizione psicologica.

Hannah è stata costretta a interiorizzare un sistema di valori imposto dal padre-carceriere, in cui obbedienza, controllo e superiorità sono divenuti normali. Questo schema si ricollega alla teoria della dissonanza cognitiva di Festinger: poiché la sua realtà non le offriva alternative, Hannah ha dovuto adattarsi a giustificare la prigionia come una condizione “giusta” e funzionale. Crescendo in isolamento, la sua percezione del mondo esterno è distorta, poco conosciuta.

Hannah è, quindi, una proiezione del potere che ha osservato e interiorizzato, un ciclo che riflette il paradosso delle vittime che diventano, in parte, i propri aguzzini.

La gestualità rituale: il mostrare le mani

Il gesto rituale di mostrare le mani a chiunque entri nella stanza è un simbolo potente che richiama la disciplina e il controllo totale instaurati dal carceriere. Questo atto ha una duplice funzione: da un lato, rappresenta una dimostrazione di sottomissione e trasparenza imposta, dall’altro, è il risultato di una condizione psicologica plasmata dal controllo assoluto. Nel contesto della serie, questo rituale diventa il segno di una routine quotidiana che spoglia i personaggi della loro individualità, trasformandoli in strumenti di una struttura di potere rigida e claustrofobica.

Da un punto di vista antropologico, la ritualità di questo gesto si collega ai riti di passaggio e ai comportamenti obbligatori che regolano le gerarchie sociali in contesti chiusi. Il rituale delle mani funge da mezzo di controllo psicologico, eliminando ogni possibilità di opposizione: le vittime imparano ad associare l’obbedienza ai gesti imposti come una condizione necessaria per la sopravvivenza. Questo riflette ciò che Erving Goffman definisce nella sua teoria delle istituzioni totali, in cui ogni aspetto della vita di un individuo è rigidamente regolato, privandolo di autonomia e senso di sé.

Jasmin: Il conflitto interiore e la lotta per la propria identità

Kim Riedle offre una performance straordinaria nel ruolo di Jasmin, rendendo indimenticabile il suo personaggio grazie alla sua capacità di incarnare due versioni opposte di sé stessa. Da una parte, vediamo una donna distrutta, segnata da anni di lavaggio del cervello; dall’altra, emerge il ricordo della persona forte ed emancipata che era prima del rapimento. Le scene in cui Jasmin si confronta con sé stessa davanti allo specchio rappresentano il cuore emotivo della serie, mostrando la sua lotta per recuperare la propria identità e riconnettersi con la sua forza interiore.

La sua crisi può essere interpretata attraverso la teoria del sé diviso di R.D. Laing, secondo cui il trauma porta a una frammentazione dell’identità. Jasmin vive un conflitto tra la donna che il rapitore ha plasmato e la versione autentica di sé che cerca di riaffiorare. Lo specchio diventa il simbolo della dualità, un riflesso non solo fisico ma psicologico: guardarsi significa confrontarsi con il proprio passato e il proprio presente, con le paure e le speranze.

Queste scene sono anche un potente commento sulla resistenza femminile. Jasmin rifiuta di rimanere una vittima, cercando di ridefinirsi attraverso la propria volontà, nonostante le cicatrici indelebili del trauma.

La voce interiore dell’abuso: un nemico invisibile

Il condizionamento subito dalle vittime di abusi non è qualcosa che si spegne una volta finito il trauma: al contrario, il trauma vive dentro la vittima come un’eco perpetua, trasformandosi in una voce interiore che non tace mai. Questa voce non è altro che la proiezione di chi ha inflitto il danno, interiorizzata come un imperativo categorico. È come un parassita mentale che si insinua nel pensiero, contaminando ogni decisione, ogni azione.

Per chi è stato costretto a vivere nell’abuso, questa voce diventa un costante promemoria delle regole imposte. È una voce che giudica, che punisce, che detta la strada da seguire anche quando il pericolo è ormai passato. Liberarsi di questa presenza richiede uno sforzo immenso: significa, in un certo senso, dover combattere contro sé stessi. La vittima deve trovare un modo personalissimo per far tacere quella voce, spesso attraverso un percorso lungo e doloroso di riconquista della propria autonomia.

Introiezione: un meccanismo attraverso cui le vittime interiorizzano le regole, i comportamenti e le paure del loro carnefice. La voce dell’abuso diventa un filtro attraverso cui il mondo viene percepito, rendendo ogni passo verso la libertà un atto di ribellione contro una parte di sé. Questo spiega perché la guarigione dal trauma non è mai lineare, ma un viaggio fatto di conquiste e ricadute, di tentativi di riconciliare un sé frammentato con un mondo che sembra sempre ostile.

La figura dell’uomo mascherato e le dinamiche che lo circondano e delle quali “si fa portavoce” offrono una critica sottile ma incisiva al concetto di potere. Il controllo che egli esercita non è solo fisico ma anche psicologico, trasformandolo in una presenza onnipresente. In un contesto più ampio, questo elemento riflette le dinamiche di potere che esistono nella società, dove le gerarchie sono spesso mantenute attraverso la paura e la manipolazione.

Sopravvivere a ogni costo: quando la realtà si sgretola

Quando le regole per sopravvivere ti vengono ripetute fino alla nausea, la tua mente si plasma su quelle regole come su una legge di gravità. La ripetizione, elemento cardine di ogni forma di condizionamento, diventa un mantra capace di sostituire la realtà con un’altra più angusta, ma necessaria per rimanere vivi. In questa dinamica, l’istinto di sopravvivenza non è più una scelta consapevole: è una risposta automatica, un adattamento estremo alle circostanze.

In un contesto di prigionia, il tempo si dilata e la quotidianità viene scandita non più dalle normali attività di una vita libera, ma da regole assurde che diventano normali. Questo spiega come l’attaccamento ai compagni di prigionia diventi una forma di resistenza: loro sono gli unici testimoni di quel microcosmo deformato, i soli a condividere un orizzonte di senso. Tuttavia, proprio questa adesione totale al mondo della prigionia comporta una perdita progressiva del contatto con la realtà esterna. La prigionia non si limita più alle catene fisiche, ma si estende fino alla mente. I confini tra ciò che si è e ciò che si deve essere per sopravvivere diventano confusi, al punto che la stessa identità sembra dissolversi.

Dubbi profondi iniziano a insinuarsi: chi ero prima di questa prigionia? Sono ancora quella persona? Oppure sono diventata una proiezione di quello che il mio rapitore desidera? Questo stato mentale non è altro che il prodotto di un meccanismo psicologico chiamato “sindrome di adattamento”, in cui l’individuo si sottomette alle regole di un contesto traumatico per ridurre la tensione esistenziale. È una forma di sopravvivenza che ha un costo altissimo: il prezzo è la perdita di sé stessi.

La depersonalizzazione è un processo psicologico e sociologico attraverso il quale un individuo perde progressivamente il contatto con la propria identità personale, fino a trasformarsi in una figura che aderisce a ruoli o schemi imposti da un contesto esterno.

Uno dei principali contributi teorici a questo tema proviene da Michel Foucault, che analizza i meccanismi di controllo sociale nei suoi studi su carceri, ospedali e istituzioni militari. Foucault sottolinea come il potere si eserciti non solo attraverso la forza, ma anche attraverso la normalizzazione dei comportamenti: i rituali, le routine e le regole diventano strumenti per plasmare e annullare la personalità individuale, sostituendola con una “personalità funzionale” al sistema. Questo processo non è privo di precedenti storici: nei contesti militari, ad esempio, la depersonalizzazione veniva utilizzata per creare soldati obbedienti e privi di capacità critica.

Charlie Barnao, nella sua ricerca sul corpo dei paracadutisti della Folgore, offre un esempio illuminante di come la depersonalizzazione venga attivamente indotta per ottenere conformità. Attraverso rigidi rituali, disciplina ferrea e l’annullamento delle differenze individuali, i soldati sviluppano una nuova identità collettiva. Le pratiche quotidiane—marce interminabili, addestramenti massacranti, privazioni fisiche e psicologiche—non sono casuali, ma progettate per spezzare i legami con il passato e ricostruire una nuova immagine del sé, interamente dedicata alla causa militare.

Questi rituali eliminano ogni punto di riferimento individuale, costringendo i soggetti a ricreare un sistema di senso basato esclusivamente sul gruppo e sui valori imposti dall’istituzione. Il risultato non è solo la costruzione di soldati disciplinati, ma anche la potenziale nascita di personalità autoritarie, che interiorizzano i principi di obbedienza e controllo come valori assoluti. Questo fenomeno si collega alla teoria della “personalità fascista” descritta da Adorno e Horkheimer: la conformità totale al potere e l’identificazione con un’autorità superiore diventano tratti caratteristici di un’identità depersonalizzata.

Il caso di Jasmin

Nel caso della serie analizzata, il processo di depersonalizzazione è applicato in modo particolarmente perverso: non è solo una tecnica di controllo, ma uno strumento per trasformare Jasmin in un’altra persona, Lena. Il rapitore, nel tentativo di sostituire la donna perduta, anche essa vittima di un rapimento e di uno strupo, sottopone Jasmin a un condizionamento mentale e fisico che mira a cancellare la sua identità originaria e a sostituirla con quella di Lena. Questo processo riflette pienamente le dinamiche di depersonalizzazione: isolamento, ripetizione ossessiva di regole, e imposizione di rituali che disorientano e destrutturano la mente della vittima.

Ciò che rende il personaggio di Jasmin particolarmente potente è la sua resistenza a questo processo. Nonostante il condizionamento subito, Jasmin non accetta mai completamente la sua trasformazione. Le scene in cui si guarda allo specchio e combatte con sé stessa rappresentano una metafora visiva della sua lotta interiore: da un lato, c’è Lena, la figura imposta dal rapitore; dall’altro, c’è Jasmin, la donna forte ed emancipata che era prima del rapimento.

Spettro della femminilità

Si esplora e si rappresenta l’intero spettro della femminilità, mostrando donne in diverse condizioni e ruoli: dalla bambina manipolata e tirannica alla madre distrutta e in cerca di redenzione, fino alla figura della vittima che lotta per riappropriarsi della propria identità. La serie celebra la complessità del mondo femminile, senza limitarsi a stereotipi.

Questo “spettro” della femminilità si collega a una visione contemporanea della donna come figura poliedrica, in grado di sopravvivere, adattarsi e, in alcuni casi, ribellarsi a condizioni disumane. Ogni personaggio femminile diventa un simbolo di lotta, resilienza o fragilità, mettendo in luce non solo la sofferenza, ma anche la capacità di resistere e trasformarsi.

Il caso Fritzl

L’ammissione di Hausmann di essersi ispirata al caso di Elizabeth Fritzl aggiunge un ulteriore strato di inquietudine alla serie. La storia reale di Elizabeth, segregata e abusata per diciotto anni dal padre, è uno degli episodi più orribili della cronaca recente. La serie attinge da questo orrore per costruire una narrazione che non si limita alla denuncia, ma cerca di esplorare le conseguenze psicologiche della prigionia.

La trasposizione di eventi reali in una storia fittizia sottolinea come la violenza e la manipolazione non siano solo atti fisici, ma abbiano un impatto devastante sul piano psicologico e sociale. L’opera di Hausmann invita a riflettere sulla disumanità che può celarsi in contesti apparentemente normali.

La “prediletta” del padre: il legame tra vittima e carnefice

Il titolo stesso della serie, “La mia prediletta”, rivela l’essenza del rapporto malato tra il padre-carceriere e la figlia. L’essere la “preferita” non è un privilegio, ma una condanna: significa essere il fulcro di un’attenzione morbosa e totalizzante che annulla l’individualità e trasforma l’affetto in possesso. Questo legame tossico riflette dinamiche di potere e controllo che spesso caratterizzano le relazioni abusanti, in cui l’aguzzino usa il linguaggio dell’amore per giustificare la violenza.

Hannah, come “prediletta”, non è solo una vittima, ma anche un’estensione della volontà del padre, un simbolo del suo potere. Questo rapporto evidenzia la complessità delle relazioni di abuso, in cui le vittime possono essere manipolate al punto da interiorizzare il ruolo imposto loro, perdendo il senso del proprio valore e della propria autonomia.

La fotografia della follia: il mostro e il suo passato

C’è una scena nella serie che parla più di mille dialoghi: una semplice foto di famiglia. In quell’immagine (che non inseriremo in quanto potenziale spoiler palese) statica e ordinaria, si trova il seme della follia. La foto non è solo un elemento narrativo, ma un simbolo: rappresenta un passato che ha generato il mostro, un disturbo che si è radicato nel quotidiano fino a diventare il motore di un orrore inimmaginabile.

La fotografia ha un potere unico: cattura un momento e lo cristallizza, rendendolo eterno. In questo caso, però, l’eternità è un’illusione. La normalità apparente della foto contrasta con ciò che sappiamo del villain della serie. Dietro quei sorrisi e quelle pose ordinate, si nasconde un abisso di traumi irrisolti, di dinamiche familiari tossiche e di sofferenze che si sono tramandate come un’eredità maledetta.

Le sfere di vetro: dualismo tagliente ma fragile

Le sfere di vetro, quei piccoli mondi racchiusi in una campana di cristallo, sono oggetti che ci riportano a un tempo sospeso, dove tutto è possibile. Ogni sfera è un universo in miniatura, un rifugio perfetto che racchiude un paesaggio incantato, un ricordo o un’immagine che sembra viva. Basta scuoterla per vedere la magia accadere: la neve cade, leggera come una promessa, coprendo tutto con un manto di calma e purezza. È un gesto semplice, ma capace di evocare stupore, lo stesso stupore che da bambini provavamo quando osservavamo il mondo con occhi pieni di meraviglia.

Quelle sfere non sono solo oggetti, ma finestre su un sogno. Il loro fascino risiede nella loro immobilità poetica: un mondo immutabile, eterno, dove il tempo non scorre e ogni dettaglio resta perfetto. Sono simboli di pace, piccole oasi di bellezza che ci permettono di fuggire dalla frenesia quotidiana, di immergerci per un attimo in una dimensione diversa, più lenta, più dolce. Guardarle è come concedersi una pausa dalla realtà, abbandonarsi a una contemplazione che ha il sapore di un abbraccio silenzioso.

Le sfere di vetro parlano al nostro cuore, risvegliano ricordi lontani. Forse ci riportano a un regalo ricevuto in un Natale passato, o al bagliore delle luci riflesse sulla neve, mentre fuori una tempesta imbiancava tutto. Sono oggetti che ci fanno sognare, che ci invitano a credere ancora in un mondo semplice e incantato. Eppure, la loro magia non sta solo nel paesaggio che racchiudono, ma anche nella loro fragilità. Una sfera di vetro è delicata, vulnerabile: basta un movimento brusco per romperla, per infrangere quel piccolo paradiso perfetto. Forse è proprio questa fragilità a renderla così preziosa, così carica di significato.

Ma cosa accade quando quel sogno si infrange? Nella serie, una sfera di vetro – così magica, così innocente – diventa paradossalmente un’arma. In una scena carica di tensione e disperazione, quella stessa sfera viene usata per colpire, per quasi uccidere il rapitore. L’oggetto, che prima rappresentava la pace e l’incanto, si trasforma in un simbolo di distruzione, in un frammento di violenza. Quel piccolo mondo perfetto, costruito per evocare sogni e serenità, si rompe in mille pezzi, e con esso si frantuma anche l’illusione di innocenza.

Quando la sfera si infrange, il momento è devastante. L’acqua al suo interno si riversa sul pavimento, la neve artificiale si sparge ovunque come polvere di stelle ormai spenta. Non c’è più magia, solo il rumore del cristallo che si frantuma e la consapevolezza di ciò che si è perso. È un’immagine potente, quasi poetica: il crollo di quel microcosmo diventa una metafora della fine dell’illusione, un ritorno brutale alla realtà. Quella sfera, così fragile e bella, non era fatta per la violenza, eppure diventa un mezzo di sopravvivenza. È il segno di una trasformazione: da simbolo di pace a strumento di lotta, da custode di sogni a testimone di un momento di disperazione.

Questo gesto estremo ci costringe a riflettere sulla dualità della vita. La sfera, così delicata e perfetta, rappresenta la nostra tendenza a rifugiarci in mondi immaginari, a creare spazi sicuri dove la bellezza è immacolata. Ma quando il mondo reale irrompe, quella bellezza non può resistere. La sfera si rompe, come si rompono i sogni quando incontrano la crudezza della realtà.

Alla fine, il suo sacrificio lascia un segno indelebile: la fine di un’illusione, ma anche l’inizio di una nuova consapevolezza. La sfera di vetro, con il suo piccolo mondo incantato, non è più lì per consolarci. Ma nei suoi frammenti c’è la testimonianza di una lotta, di una vita che non si è arresa. E forse, anche in questo, c’è un’altra forma di bellezza.

Un vuoto pieno di significati

Il senso di vuoto che lascia questa serie televisiva non è una mancanza, ma uno spazio in cui far risuonare le proprie riflessioni e paure. È un viaggio che, pur concludendosi sullo schermo, continua dentro ognuno di noi.

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