Il mio rapporto con la fotografia è cambiato molto negli anni.
Per me è stata come un amore burrascoso, uno di quelli che ci mette un po’ a trovare la sua reale dimensione: idealizzata, osteggiata e poi, finalmente, amata.



Ma per capire meglio dobbiamo fare qualche passo indietro.
Sono cresciuta in una famiglia di ingegneri, mentre io per disposizione caratteriale sentivo la necessità di esprimere qualcosa di più intimo e personale. Cosa e come mi era però ancora ignoto.
Mi appassionavo a poeti come Foscolo, che cercavano nell’arte e nella poesia la possibilità di essere immortali, o a pittori romantici come Friedrich, Blake o Turner, rapita dalla passione dei loro inconsci dipinti su tela.



La fotografia è stata la mia improvvisa messa a fuoco nel mondo: è bastato un clic con una macchina fotografica che mi aveva prestato mio cugino. Improvvisamente ho visto le possibilità che quel mezzo mi offriva nell’interpretare la realtà e nel poter mostrare la mia prospettiva sulle cose. Così ho cominciato a scattare e scattare e scattare, foto sottoesposte, sovraesposte, sfuocate o mosse che, prima del digitale, erano solo errori. Non avevo idea di cosa fossero i generi fotografici. Da lì a iniziare a lavorare come assistente di Mauro Galligani, fotoreporter di Epoca, che ha fatto la storia del foto-giornalismo Italiano, è stato un tutt’uno. Un salto nella consapevolezza del mio io.
Ma da brava ingegnere mancata volevo studiare ciò che sapeva così appassionarmi: saluto famiglia e colui che più avanti sarebbe diventato mio marito e mi trasferisco negli States a studiare all’International Center Of Photography di New York.



Data la mia vocazione per il sociale, le mie foto hanno iniziato a raccontare storie di emarginazioni e di sconfitte. La fotografia era il motivo per alzarmi la mattina, quella cosa davanti alla quale tutto il resto perdeva di significato. Come molti, forse come tutti, volevo fare le cose in modo diverso, mi annoiavano i reportage in 35mm, ho sempre creduto che ci fossero modi nuovi per raccontare storie e ho iniziato a fotografare scattando in diversi formati: Panoramico, 6×6, 6×7…
Così è nato “il Leone dell’Asia Centrale”, un progetto che mi ha visto fare avanti e indietro per due anni dal Kazakistan, in solitudine, io e il mio zaino di 15 kg e -40 di temperatura a farmi compagnia.



Purtroppo nessuna storia d’amore è priva di delusioni. Arriva il 2007 e con la crisi globale, inizia anche quella della carta stampata, una contrazione del mercato di cui ancora non si è vista la fine. Per risparmiare, uno dei più importanti quotidiani d’Europa dopo avermi mandato l’impaginato con le mie foto mi ruba la storia e la fa rifotografare a un altro. Ho visto ripubblicare mie foto senza consenso, ricevuto offerte economiche indecorose per servizi che costavano di più di sole spese vive.







Improvvisamente la fotografia mi aveva tradito, mi sentivo come se avessi sprecato anni di energie e fondi alla ricerca di qualcosa che non c’era e che solo io vedevo.
Se l’amore per la fotografia però non muore, quello per un marito sì. Il mutuo però non sembra interessato alle mie traversie sentimentali e decido così di cercare una cosa sin lì sconosciuta: una busta paga.
Un lavoro con uno stipendio e le ferie pagate, dopo dieci anni di partita iva. Banale? Serena.
Non so spiegare l’emozione che ho provato nel ricominciare a viaggiare per piacere e non più sola, nell’avere dei colleghi che mi facevano sentire una di loro e non una avversaria
La fotografia era lì, come una cosa che sentivo di dover fare ma che non mi andava più di fare a quelle condizioni.



E’ stato così fino a quando non è arrivato il COVID 19.
Ed è proprio mentre mi allontano dalle foto che le foto decidono di non mollarmi: esce il mio primo libro, un progetto a cui avevo lavorato per dieci anni, che è stato fonte di molte gioie e altrettante sofferenze. Questo mi ha ricordato chi sono, ma sopratutto ho potuto riflettere sul ruolo di tutto questo nella mia vita.
Mentre lavoravo a “Temporary Life” ho fatto un percorso psicologico che è durato circa lo stesso periodo e, secondo la mia terapista, il lavoro fotografico è stato lo specchio fisico della “ricostruzione” che stavo facendo sulla mia personalità.



Se ho capito una cosa in tutto questo tempo è la grande differenza che c’è nell’essere fotografa e nel fare la fotografa.
Essere fotografa per me è stato il mio modo di osservare il mondo, è stato trovare l’armonia nelle cose ed esserne felice.
Oggi per me la fotografia è un modo di esprimere i cambiamenti della mia personalità, un modo per crescere e comprendere le mutazioni della mia anima; è il mio modo per essere felice, anche se l’investimento (spesso) supera il guadagno finale. Perché la vera soddisfazione, per me, non è stata vedere una mia immagine sul New York Times, ma provare quell’emozione indescrivibile che si prova quando fai una foto che nessun altro scatterà




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Francesca Cao

Francesca Cao è una fotografa Italiana che vive a Milano.
Francesca è specializzata in fotografia documentaria e fotogiornalismo, ma lavora anche in campo commerciale soprattutto nel reportage di Eventi e nel Food.
Dopo essersi laureata in Filosofia all’università degli studi di Milano, Francesca si trasferisce a New Yorkper frequentare l’International Center of photography. Dal 2007 lavora come fotografa free lance, ha lavorato con riviste e giornali come il New York Times, Il Corriere della sera, D la repubblica delle donne, Wired e Marie Claire.
Per I suoi lavori personali ha ricevuto diversi riconoscimenti come la Tierney fellowship, la selezione all’Inge Morath award e sono stati in mostra in Italia, Europa e Stati Uniti. Il suo ultimo progetto Temporary Life, che tratta della ricostruzione postsisma in Italia nei luoghi dove non è stata completata, è una mostra e un dummy book curato da Irene Alison (DER*LAB), che è stato esposto a Milano, Roma e nell’ambito del festival fotografico di Savignano. Il Dummy Book è arrivato in finale all’Unseen Dummy Award di Amsterdam e attualmente è un libro pubblicato da Postcart. Leggi tutto
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