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La famiglia

di Tiziana Bonomo

Tina Barney. Family Ties

Mi sento un pò Henry Potter sotto il manto dell’invisibilità che scopro questa scena familiare. Forse non è vera ma costruita per la scena di un film. Le attrici in posa provano la loro parte. D’altronde sono all’interno di una composizione come se si fosse in attesa di un ciak!

Di un regista, di un fotografo? Guardando con attenzione sembra una generazione al femminile che attraverso gli sguardi fa scoprire le sue relazioni. La nonna dai bianchi capelli che parla con la nipotina rivolta verso di lei, forse annoiata. La figlia della nonna, leggermente mascolina, sembra assente ma tiene la bambina sulla gamba. La giovane sorridente in piedi, probabilmente sorella maggiore della bambina e figlia della signora dai corti capelli con la quale ha in comune la stessa stoffa: quadretti bianchi e neri. D’altronde madre, figlia e nipoti hanno in comune lo stesso colore rosso di capelli, la stessa linea del naso: diritto, elegante. In comune lo stesso charme, lo stesso stile. Una stanza e immagino una casa con un arredo ricercato: design con rimandi a porcellane del Giappone come il rosso lacca del mobile e le splendenti gocce di cristallo che si intravedono probabilmente di un lampadario di altrettanto ricercato design. Una casa borghese, aristocratica? Dettagli dell’abbigliamento come le magliette morbide, i colori sobri, le cinture chic, il collettone bianco da fine 800, semplice ma ricercato, tutto casual ma non troppo. Anni di educazione sono stati necessari per apparire sempre composte, senza esagerare con look troppo vistosi, anzi ben inserite nel loro ambiente che banalmente si definirebbe radical chic: appartengono tutte alla stessa famiglia alla stessa società!

Questa è una fotografia di Tina Barney che espone al Jeu de Paume a Parigi con la sua prima retrospettiva dal titolo: Tina Barney. Family Ties.

Ammetto che la prima sensazione, osservando la mostra, è stata di ansia. Sono tutte scene di vita tra persone che sembrano congelate all’interno di case ordinate, ricche di tanti dettagli. Componenti di famiglie – parenti, amici, conoscenti – come bloccati in un gesto in un sorriso in uno sguardo una lettura un brindisi.  Tutti svuotati di un’anima come se fossero già morti. Questa immagine forse è una delle poche che mi ha restituito, forse per il gioviale sorriso della giovane, meno inquietudine. Ho pensato che questo progetto fosse molto condizionato dal marketing dell’immagine americana: grandi formati, soggetti a grandezza ravvicinata quasi al naturale, scene costruite a tavolino. Cercavo l’anima disperatamente, cercavo il senso e non lo trovavo. Sono uscita convinta di dimenticare in fretta.

Poi molte scene di queste fotografie giganti, fluttuanti anche in mezzo alle sale mi si sono ripresentate con i loro colori accesi, con le loro scenografie ben studiate, con le tante figure immortalate all’interno della loro vita. Ho reagito sorridendo. Ho pensato alle cene nella mia famiglia, alle feste con amici e a quante volte avrei voluto bloccare la scena con un telecomando per riprendere con calma il rossetto della mia amica, lo sforzo dei bambini nel gioco, la noia di mia madre, il sorriso artificiale dell’amico dell’amica dell’altro amico, il riso demoniaco di chi si diverte ad osservare, le luci sulla cornice del quadro che mi piace tanto e tanti tanti altri dettagli.

Ho riletto quello che Tina Barney ha scritto sulla famiglia: “Probabilmente la gente pensa che io dedichi il mio lavoro all’alta società o ai ricchi, il che è l’esatto contrario di ciò che faccio. Queste fotografie riguardano la famiglia, le persone della stessa famiglia che di solito vivono insieme nella propria casa. Non so se il pubblico si rende conto che si tratta della mia famiglia.” Naturalmente non è sempre stato così. Ma l’artista ha sempre insistito sul fatto che il suo vero soggetto è la famiglia, vista come un complesso gioco di relazioni in continua evoluzione tra persone e generazioni: i ruoli sociali che i suoi membri sono portati a svolgere, le questioni di filiazione, fratellanza e sorellanza, autorità e trasmissione sono solo alcuni dei temi che affronta. Verrebbe da dire ‘’scene di famiglia in un interno.”

Dalla fine degli anni ’70 a quella degli anni ’90 Tina ha fotografato la sua famiglia, ogni estate, a New York o nella Nuova Inghilterra, fissando spesso anche sé stessa all’interno dell’immagine. La fotografa è sempre stata attenta a evitare qualsiasi dimensione esplicita di critica sociale nelle immagini delle persone a lei vicine. Pur riconoscendo l’emergere in queste immagini di una forma di tensione, squilibrio o freddezza, l’autrice sottolinea che il suo progetto era soprattutto intimo e testimoniale: si trattava di conservare una traccia. In seguito però sono state delle ricche famiglie europee a catturare la sua attenzione, un approccio che si traduce in immagini più formali e statiche rispetto ai suoi scatti americani.

E sempre lei dichiara: “Voglio che sia possibile avvicinarsi all’immagine. Voglio che sia possibile avvicinarsi all’immagine e che ogni oggetto sia il più chiaro e preciso possibile, in modo che lo spettatore possa esaminarlo e avere la sensazione di entrare nella stanza. Voglio che le mie immagini dicano: ‘Voi potete entrare qui. Non è un luogo proibito.’ Voglio che siate con noi e che condividiate questa vita con noi. Voglio che si veda ogni piccola cosa, che si veda la bellezza di tutto: le trame, i tessuti, i colori, le porcellane, i mobili, l’architettura”.

Eppure…eppure…non c’è niente di scritto nell’aria, solo facce da guardare quando il tempo si chiude a petali sulle ansie di futuro. Ma vien voglia di entrare senza dir niente e andare a sedersi accanto a loro per ascoltare quanto quella perfezione sia sguarnita e povera.

Dall’inizio degli anni Ottanta, Tina utilizza un banco ottico da 20×25 cm montato su treppiede e preferisce un formato di 120×150 cm per le sue immagini: a suo avviso, queste dimensioni hanno il vantaggio di entrare nell’immagine e scoprire i numerosi dettagli che contiene. Per ogni sua fotografia, il grande formato diventa un modo di mostrare, enfatizzando l’aspetto descrittivo insito nella fotografia, che si inscrive senza selezione. Per quanto riguarda i suoi primi piani molto ravvicinati, spesso leggermente o totalmente sfocati, essi sembrano riprodurre la visione naturale, dando all’osservatore un’accentuata sensazione di essere all’interno dell’immagine. In effetti il sistema utilizzato da Tina Barney – un treppiede e luci artificiali – è simile a quello di un ritrattista in studio.

“Ho iniziato a interessarmi ai pittori italiani del Rinascimento e a quelli olandesi del XVII secolo perché la superficie piatta su cui vengono stampate le fotografie mi lasciava insoddisfatta: cercavo di creare spazio, leggevo testi sulla struttura dell’arte e sulla creazione dello spazio.”

Così, alla fine, sono stata rapita dalle sue immagini. Prima rifiutandole poi riscoprendole. Ritratti di famiglia che mi rimandano più che ai pittori del ‘700 proprio al conturbante film di Luchino Visconti Gruppo di famiglia in un interno. Anche nel film è stato ricostruito un intero appartamento con tanto di scalone e di ascensore, all’interno di un antico palazzo romano, con innumerevoli dettagli sull’arredamento, sugli abiti e le pose dei protagonisti. Nella conferenza stampa Luchino Visconti aveva brevemente ricordato la trama della vicenda mettendo l’accento anche sugli aspetti politici di Gruppo di famiglia in un interno. D’altronde il solo gusto per la vita quotidiana forse nasconde significati, voluti oppure no, più profondi di scelte private pubbliche politiche alcune volte leali altre discutibili o addirittura inaccettabili.  Ecco forse non sapere nulla delle famiglie di Tina inquieta per una patina che maschera con eleganza un mondo sempre composto perfetto anche nelle sue leggere imperfezioni. Chissà cosa ci riserva Tina Barney per il 2025 ….. purtroppo forse composizioni di famiglie crollate sotto bombe ultra chic.

 

BIOGRAFIA

Tina Barney  nasce a New York nel 1945. Fin dall’infanzia, Barney fu esposta alla pratica fotografica dal nonno materno: iniziò a sperimentare con la fotografia quando lei e la sua famiglia si trasferirono a Sun Valley, Idaho, nel 1973, dove visse fino al suo ritorno a New York City nel 1983. È nota per i suoi ritratti a colori su larga scala della sua famiglia “American Royalty” e degli amici più stretti. (il suo bisnonno era Emanuel Lehman, cofondatore della Lehman Brothers), quindi l’accesso al “who’s who” degli Illuminati della East Coast non è mai stato un problema. Detto questo, il suo lavoro è sempre stato, ed è, oltremodo fenomenale. Una cosa che Tina Barney non è… è una dilettante. Ha fatto la gavetta e ha studiato con i migliori.

Dal 1976 al 1979 frequenta i workshop del Sun Valley Center for Arts and Humanities in Idaho. Dapprima collezionista appassionata, diventa membro del Junior Council del Museum of Modern Art di New York e nel 1971 lavora esclusivamente nel dipartimento di fotografia. Quando finalmente si trasferisce a Sun Valley, studia con Frederick Sommer, Roger Mertin, Joyce Niemanas, Duane Michals, Nathan Lyons, John Pfahl e Robert Cumming.

Sebbene Tina Barney sia nota soprattutto per i suoi ritratti con fotocamera 4×5 della sua ricca famiglia e dei suoi amici, ha stupito tutti per la sua capacità di maneggiare una fotocamera di grande formato e di far apparire le immagini così candide. Come una macchina fotografica, ma più formale. La sua illuminazione, combinata con le location, era squisita e la natura realmente documentaristica di queste fotografie cementò il suo riconoscimento come fotografa.

Ha esposto al George Eastman House International Museum of Photography and Film di Rochester, New York; al Museum of Modern Art di New York; al Museum of Fine Arts di Houston, Texas; alla JPMorgan Chase Art Collection di New York; al Museum of Contemporary Photography, al Barbican Art Centre di Londra, al Museum Folkwang di Essen, al Museum der Art Moderne di Salisburgo e altri. Tina Barney ha girato un documentario sulla sua vita, diretto da Jaci Judelson. È stata inoltre insignita di una John Simon Guggenheim Memorial Fellowship nel 1991 e del Lucie Award for Achievement in Portraiture nel 2010. I suoi libri mostrano una bellezza dei dettagli e dell’ambiente che è possibile ottenere solo con il grande formato. Dopo aver provato una Nikon D800, ha abbracciato il digitale. Non ha alcuna spiegazione tecnica. E non le interessa. Avrà sempre un posto nel suo cuore per la “consistenza” della pellicola.

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