“Sì. Penso che, in un certo senso, una foto che mostri il vero volto della guerra sia una foto contro la guerra. Altrimenti credo che sia molto difficile muoversi contro i conflitti avendo visto, nella mia esperienza, come ridu- cono la gente e la società. Quindi, penso che le fotografie che mostrano il vero volto della guerra, in un certo senso, stanno mediando contro l’uso dei conflitti come mezzo per fare politica. Io penso che ci siano cose per cui vale la pena di lottare e che i popoli debbano difendersi. Ma penso anche che dovremmo essere consapevoli di dove porta la guerra, delle conseguenze in termini umani. E non le dobbiamo mai dimenticare”.
James Nachtwey
I. Sulla bassa criminalità della fotografia umanitaria
Prologo in forma di eresia. Il mondo è già stato tutto fotografato, si tratta ora di trasformarlo… occorre far brillare (come si dice delle mine) la fotografia e tutte le teorie sull’utilità e il danno della storia per la vita (Nietzsche) che contiene… una sorta di sovversione culturale della falsa coscienza del tem- po che dalle ceneri della fotografia rinasce come fotografia dell’autentico… non si porge l’altra guancia contro l’oppressione e la colonizzazione dei popoli impoveriti… si dovrebbe rispondere alla soffe- renza con una rivoluzione, in mancanza di questa basta un sorriso derisorio o espropriare lo spettacolo della sua rappresentazione (con qualsiasi mezzo). L’unica impresa veramente interessante è la liberazione della vita quotidiana… dare voce, volto, dignità a chi non ne ha mai avuta e aprire quel passag-gio a nord-ovest della vera vita1. Anche la fotografia è da distruggere!
Quando l’immaginario dal vero della fotografia è tradito o sconosciuto, le immagini si vuotano di senso… nel deserto creativo della fotografia mercatale o insegnata… la magnificità della fotografia del nulla è rivelata nell’oscenità dei premi, work-shop, port-foli, agenzie fotografiche, festival internazionali della fotografia con l’esibizione della starlette (stelletta), ma questo vale anche per le star (mito) di Magnum o chi altri, dove si parla di tutti i supplizi dei poveri più poveri della terra e in languidi intenerimenti d’occasione tutti, o quasi, si compiangano e si compiacciano che una tale macchina fotografica o una talaltra possa davvero servire a scopi umanitari e non a cercare un posto nella società spettacolare danzando sulle teste degli ultimi, degli sfruttati, degli oppressi. In questa filosofia della compiacenza i valori e le responsabilità si confondono, i delitti si equivalgono e l’innocenza finisce per perdere i propri diritti nella mostra (o proiezione) di un cretino/a che, come la politica o la religione, non crede a quel che dice ma lo dice perché gli altri possano crederci e magari camminare leggeri e sorridenti tra bambini che muoiono di fame e di sete allungando loro una caramella, dopo la fotografia, s’intende! Porca puttana! Cane di un diaccio! Bastardi al quadrato! Figli di troia! Tutte alle fogne da dove siete venuti! Foss’anche eredi di qualche castello mai dato alle fiam- me! Non c’è nobiltà intorno all’inganno e all’arrivismo, solo disgusto, disprezzo o il più spregevole sputo in faccia.
Un’annotazione a margine. Il fotografo non c’entra con la fotografia… non si sono mai visti che pochi fotografi in giro per la terra e molti che fanno fotografie accattivanti, stupide, ma accattivanti, che inculano ondate di imbecilli genuflessi al primo mercante, giornale, rivista o manager (sostantivo maschile e femminile) — tutta brava gente col senso dello Stato, della Fede e della Merce — e credono che la fotografia possa essere insegnata, copiata o soltanto fatta come gli storici, i critici, i galleristi dicono… non è così, almeno per noi — disadattati in ogni ordine del discorso —. Che la fotografia abbia una qualche ragione di sopravvivere alla propria demenza accettata (quella dei discorsi sull’ultima fotocamera, i pixel, l’apertura dell’obiettivo, la cromatura… senza parlare mai di fotografia, solo di mitologie quasi sempre ben orchestrare dall’industria del settore)… l’abbiamo scritto spesso, lo ripetiamo ancora, dietro un fotografo si cela spesso un cretino o un poeta e quando cade la sua maschera o c’è un po’ più male nel mondo o c’è un impeto di rivolta sociale.
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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