“Ho aperto gli occhi nella luce del Mediterraneo, a Toulon, nel sud della Francia, dove, se lo guardi a lungo, il sole diventa un cerchio nero. Credo che il primo sguardo determini anche un destino: quasi sicuramente è grazie a questa luce che sono diventato fotografo”.

Con queste parole, quasi un’epigrafe, comincia il nuovo libro di Ivo Saglietti (Lo sguardo inquieto. Un fotografo in cammino, con una prefazione di Paolo Rumiz, Postcart, 2021).
Il destino e il cammino.
A ben guardare è intorno a questi due temi che si snoda l’intera vicenda umana e professionale dell’Autore.
Dai primi passi a Torino come cineoperatore, alle tante guerre e guerriglie centro e sudamericane, mediorientali e balcaniche, coperte in assignement per le più importanti testate internazionali. Poi la scelta di abbandonare quel percorso per soddisfare quella insopprimibile urgenza di esprimersi attraverso progetti a lungo termine, che lo portano ripercorrere la via degli schiavi (dal Benin ad Haiti), a raccontare le tre grandi malattie da infezione (malaria, tubercolosi, AIDS), ai reportage sul tema dei migranti e sul concetto di frontiera.
L’obiettivo di Saglietti si rivolge sempre verso l’uomo e il suo destino.

Sorretto da un’etica del proprio lavoro di fotografo che è oggi merce rara – travolti come siamo da immagini inutilmente violente, pornografiche, sbattute in faccia da ogni dove e con ogni mezzo – Saglietti non dimentica mai di fare trasparire quell’attimo di umanità, che come osservava Eugene Smith (non a caso tra i suoi dichiarati Maestri), deve sempre accompagnare una buona fotografia.

Non smette mai di interrogarsi Saglietti. Lo fa col mezzo fotografico, così come uno scrittore usa la parola. Non per niente il senso più profondo del suo lavoro lo si coglie non già dalla singola immagine (per quanto efficace possa essere), ma dal progetto nel suo complesso, editato secondo una logica narrativa in cui una fotografia segue la precedente e anticipa quella successiva. Progetti che spesso durano anni e che, in fondo, l’Autore non considera mai finiti; consapevole come è che l’esperienza umana è un cammino in continua trasformazione e che sarebbe velleitario pretendere di mettervi la parola fine.

Già, il cammino. Un cammino fisico anzitutto. Per fare buona fotografia occorre avere buone scarpe, ha affermato Koudelka rispondendo al quesito sulle qualità necessarie per fare il fotografo. Ivo Saglietti ha buone scarpe: solide, forti, essenziali, indossate anche quando la stagione invoca il sandalo aperto o l’infradito. Ma anche un cammino meditativo, lento, silenzioso, metafora di uno sguardo da cui scaturisce una fotografia necessaria e asciutta come il bianco e nero che ne scandisce le immagini. E qui il pensiero va al racconto della sua esperienza e della sua amicizia con Padre Paolo Dall’Oglio e la sua utopica ricerca del dialogo tra culture e religioni, da cui uno dei suoi lavori più sofferti ed insieme più amati (Sotto la tenda di Abramo), di cui nel testo si racconta la genesi e la realizzazione.

Ma il libro non è solo questo. E’ anche un memoir di avventure (corredato da una ricca selezione fotografica), di rischi corsi e di scampati pericoli. Una finestra sui continui colpi di stato, repressioni, guerriglie che hanno incendiato il centro e sud America negli anni ’80, pilotate dalla CIA, e che oggi nessuno ricorda più: i Sandinisti ed i Contras in Nicaragua; Somoza in Salvador; Noriega a Panama, in Colombia le FARC, l’M19, l’ELN, e i loro leggendari comandanti, con i cui Saglietti si è spesso trovato aggregato. E poi il Chile di Pinochet, la miseria senza speranza di Haiti, l’orgoglio cubano, la desolazione delle Ande peruviane.
Un racconto che si interseca con la letteratura di quei paesi e che di quei paesi parla: dal realismo magico di Manuel Scorza, a Mario Vargas Llosa, da Alejo Carpentier a Graham Greene. Per tacere dell’amato Camus, che dalla gioventù lo accompagna come un amico lontano ma sempre presente.
Mi piace concludere citando un altro suo caro amico, anche lui scrittore, ma questa volta reale: “Ivo solitario e triste, disarmato e buono, ricco di una pazienza e di una dolcezza
che traspare dalla fessura degli occhi umidi” (Paolo Rumiz, dall’introduzione al libro).
Federico Montaldo
Lo sguardo inquieto. Un fotografo in cammino.
A cura di Federico Montaldo
Prefazione di Paolo Rumiz
Haiku di Nazario Dal Poz
POSTCART, 2021
€ 25,00
Altri articoli di questo autore
Manuale di sopravvivenza per fotografi – Diritti, Obblighi, Privacy – di Federico Montaldo – II^ Edizione – Emuse
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Federico Montaldo da “The Americans” di Robert Frank a “Manuale di sopravvivenza per fotografi. Diritti, obblighi, privacy”
Federico Montaldo da “The Americans” di Robert Frank a “Manuale di sopravvivenza per fotografi”.

Federico Montaldo inizia a interessarsi alla fotografia sulla fine degli anni Ottanta. I temi di suo maggiore interesse sono legati al reportage a sfondo sociale e ai progetti di sociologia visuale.
È parte dell’Associazione fotografica 36° Fotogramma (Genova). Ha al suo attivo progetti fotografici, pubblicazioni e mostre, individuali e collettive, tra cui: L’Aquila ferita. Reportage dai luoghi del terremoto (2012); Il treno della memoria. Reportage da Auschwitz e Birkenau (2013); Donna Faber: lavori maschili, sessismo e altri stereotipi, progetto fotografico di 36° fotogramma in collaborazione con il Laboratorio di Sociologia visuale dell’Università di Genova (2013); Srebrenica (2015), in collaborazione con 36° fotogramma; Just walking (2017), portfolio selezionato per Circuito Off, Lucca, Photolux Festival (2016) e mostra presso PhotofactoryArt, Genova (2017); Gente di Bottega, portfolio selezionato per Circuito Fuori Festival, Lodi, Festival fotografia etica (2017). Unisce all’attività fotografica quella di curatore di mostre e progetti legati alla fotografia e promozione della cultura fotografica.
Vive e lavora Genova.
Con emuse ha pubblicato, con Giampiero Corbellini. Nuraxi Figus. Ultima miniera e Manuale di sopravvivenza per fotografi. Diritti, obblighi, privacy.
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