Invisible Women : Le “donne invisibili” sono quelle donne per le quali moltissimi visitatori e turisti provenienti da tutto il mondo, hanno pagato un biglietto d’ingresso al Villaggio per vederle, ma di cui spesso ignorano le loro condizioni socio-politiche, la storia, se quello a cui sono spettatori è realmente etico e se i diritti di queste donne e delle relative famiglie, vengono rispettati.
Le donne Kayan sono note per l’usanza di indossare anelli di ottone intorno al collo, sin da quando sono bambine – intorno ai cinque anni di età – una tradizione culturale che ha radici profonde nella loro storia e identità.
Questi anelli creano l’illusione di un collo allungato – da qui il soprannome in Italia di “Donne Giraffa“.
In realtà però, sono le spalle a scendere a questa illusione ottima è causata dalle clavicole deformate, spinte verso il basso dal peso degli anelli, com la conseguente compressione della gabbia toracica. Alcune donne, oltre alle spirali al collo, ne portano anche alle gambe.
Ma facciamo un piccolo passo indietro:
Verso la fine degli anni ’80 molte tribù Kayan abbandonarono la Birmania (Myanmar) spesso spinte con la forza a causa del conflitto con il regime militare Birmano che affliggeva il paese, rifugiandosi nelle aree di confine nella vicina Thailandia, in campi profughi che davano loro asilo.
Da allora vivono con uno status legale incerto, in questi “villaggi” di confine, senza cittadinanza e senza quindi i diritti ad essa correlati.
Negli anni infatti, questa loro usanza ha attirato sempre più turisti e visitatori curiosi così il governo Thailandese è stato incentivato alla creazione di “villaggi turistici/esposizione” – sempre delimitati nella zona di confine – come una tappa da non perdere per chi viaggia in Thailandia, portando così nell’area un flusso monetario, i cui benefici però non è chiaro vengano sempre destinati alle famiglie del villaggio.
Non tutte le donne delle tribù rifugiatesi in Thailandia dalla Birmania però hanno la tradizione degli anelli, pertanto questa usanza non è presente in tutti i villaggi.
Le loro case sono capanne, dove nella parte frontale/centrale del villaggio le donne lavorano, davanti ad un pubblico di turisti, piccoli manufatti, tessono e filano sciarpe.
Ad oggi, le guide locali incentivano i turisti all’acquisto di questi souvenir motivando che i proventi aiutano il sostentamento delle famiglie dei villaggi.
Mentre nella parte posteriore, è dove vivono, dove crescono e accudiscono i loro figli. Quando “i riflettori” si spengono. I loro figli, bambini e soprattutto bambine, infine, negli ultimi anni sembra siano facilmente stati accettati dal governo a frequentare le scuole primarie, ma le circostanze non mi sono state ben chiare.
Credo che sia importante incentivare “l’informazione”, in modo che i turisti si informino e riflettano sulle implicazione etiche delle scelte di viaggio.
Io stessa, sono inciampata diverse volte in errori simili, esperienze a cui non avrei voluto partecipare se solo avessi avuto maggiore premura nell’informarmi più approfonditamente prima.
“Turismo responsabile” significa anche rispettare le persone, le culture e le comunità locali, cercando esperienze che non alimentino lo sfruttamento, animale o umano.

Personalmente passeggiare con la mia fotocamera al collo (una Nikon Z6II) fra i loro villaggi, ha suscitato in me diverse sensazioni contrastanti. Da un lato, non mi piaceva sentirmi una turista come molti, di passaggio, intenti meramente ad immortalare “fotografie ricordo”, alimentando ulteriormente quelle che erano le mie “perplessità etiche” già solo nel trovarmi lì. Dall’altro però, come spesso mi succede in situazioni “delicate” come questa, il desiderio di raccontare e riportare, attraverso dei reportage fotografici, delle storie e dei racconti che possano tornare utili a qualcun altro prima di intraprendere un viaggio simile.
Scatto spesso come un’osservatrice silenziosa ed appartata, cerco sempre di non essere invadente con il mio obbiettivo, talvolta sottolineo questa mia attitudine mettendo dei “sipari” contestuali nella fotografia. Mi piace perché sottolinea un momento osservato, quasi spiato, ed infine immortalato, così com’è, reale.
Solo di recente ho infranto queste abitudini. Laddove possibile, cerco un contatto diretto con il soggetto delle foto. Non ci sono “distrazioni contestuali”, lo spazio è completamente dedicato ed anche occupato dal soggetto, dalla sua espressione, la sua storia. Esiste.
In queste occasioni non si ha molto spazio (o tempo) per le condizioni della luce, di uno studio accurato di quello che si vorrebbe scattare. E’ una tipologia di “fotografia estemporanea”, bisogna cogliere il momento così com’è prima che svanisca senza indugiare troppo. Si è solo di passaggio. Come nella fotografia Naturalistica (mia grandissima passione).
Ci sono solo un paio di cose a cui cerco di porre attenzione il più possibile: la composizione. Che sia coerente poi, a dove vorrei che venisse posta l’attenzione dell’osservatore e/o alla lettura di alcuni dettagli che, ai fini della storia, ritengo siano utili da inserire. Raccontano e contestualizzano.
Ed infine, colori , ombre e contrasti molto accentuati. Se le circostanze lo consentono. Sottolineano una certa drammaticità.

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