IDENTITA’ PERDUTE è un’idea partita nel 2015, ma abbandonata e ripresa più volte fino ad arrivare alla versione attuale: un progetto fotografico di 27 fotografie, un libro di 150 pagine con fotografie e testi, che mi hanno portato ad approfondire un argomento ancora pieno di tabù, leggendo libri di antropologia, filosofia, fotografia, romanzi, contattando persone conosciute e sconosciute per chiedere un loro contributo sul tema.
Frequento il cimitero del villaggio UNESCO di Crespi D’Adda www.visitcrespi.it per far visita ad una persona a me cara, visitandolo sono rimasto incuriosito di quelle centenarie lapidi tutte uguali, incrostate di muschi, consumate dal tempo e dalle intemperie.
Tutti uguali di fronte alla morte, come scrisse Totò in alcuni versi:
Ma chi te cride d’essere… nu ddio?
Ccà dinto,’o vvuò capì, ca simmo eguale?…
… Muorto si ’tu e muorto so’ pur’io;
ognuno comme a ‘n’ato è tale e qquale.
Ma chi ti credi d’essere… un dio?
Qua dentro, vuoi capirlo che siamo uguali? …
… Morto sei tu, e morto son pure io;
ognuno come a un altro è tale e quale.
Antonio De Curtis (’A livella, 1964)
Un giorno osservando, mi accorsi che molte persone sulle lapidi avevano perso la loro identità: volti senza nomi e nomi senza volto.
A chi appartengono quelle targhe? A un uomo, a una donna? Erano giovani, anziani? Da quanto tempo sono là? Avranno avuto una famiglia, dei figli?
Bianco, tutto bianco.
Su alcune targhe si intravedono dei segni in controluce, ma non sono più identificabili; anche gli ultimi indizi di una vita – il nome, l’alfa e l’omega – sono scomparsi.
Laddove l’identità è perduta del tutto, ogni ricordo è scomparso definitivamente.
I loro volti deformati dal tempo ci osservano. Spesso non più riconoscibili, assumono nuove fisionomie. Occhi neri ci chiedono di guardare e ricordare. E non dimenticare.
Nel cimitero, mentre qualcuno affretta il passo, il loro è un invito a rallentare e a osservare il luogo, con rispetto.
Trovo che ciò che sta alla base di questo progetto sia sintetizzato bene in una frase del filosofo e psicanalista statunitense James Hillman in un suo libro (Hillman-Ronchey, L’ultima immagine, 2021):
Questo è ciò che mi ha insegnato Bisanzio. Mi ha insegnato che c’è un’immagine più profonda dell’immagine visibile. Che sotto, anzi no, non sotto, dentro, all’interno di ciò che è in mostra, della presentazione dell’immagine, c’è l’immagine invisibile. Ed è l’immagine invisibile che ci guarda mentre guardiamo l’immagine visibile.
NOTE SULLE FOTOGRAFIE
La scelta del quadrato è voluta per problemi geometrici, le fotoceramiche sono tutte in una cornice a forma di elisse, il quadrato era l’unica forma per esaltare i volti e fare sparire la cornice.
BIO
Mi chiamo Davide Comotti, sono nato quasi 60 anni fa a Trezzo sull’Adda.
Da alcuni anni, dopo aver usato la pellicola in gioventù, mi è nata la passione per la fotografia, nella vita faccio tutt’altro, mi occupo di apparecchiature di alta tensione (dai 60.000 volt ai 550.000 volt), è stato il mio lavoro e la possibilità di vedere che il mondo è tondo a farmi tornare la voglia di fotografare.
Per questo motivo faccio fatica a considerarmi un fotografo. Sono solo un osservatore, che usa la macchina fotografica; mi riconosco nella frase di Dorothea Lange:
“A camera is a tool for learning how to see without a camera”
Fotografo spettacoli teatrali per compagnie del mio paese.
Lavoro ad altri progetti a lungo termine che saranno pronti nei prossimi anni.
No comment yet, add your voice below!