L’unico invito con questa immagine è di tenerla sul vostro schermo e guardarla a lungo poi iconizzarla e poi riprenderla e riguardarla e andare avanti così fino a quando riuscite a rispondere alla domanda non di cosa vedete ma di cosa sentite.
Cosa sentite? Un subbuglio immagino di sentimenti: tristezza, dolore, compassione Ma andiamo avanti: disperazione, affetto, ingiustizia, abbandono, inquietudine, solitudine.
La parola che raccoglie come un magazzino tutto quanto questa giovanissima è in grado di trasferirci è: commozione.
Ci commuove anche per la sua sorprendente bellezza come se proprio la bellezza non potesse mai venire inquinata dall’orrore. La fotografia è di Chloe Sharrock una giovane, graziosa fotoreporter francese che in questi ultimi anni è andata in Siria, in particolare a Raqqa campo di prigionia di Al-Hawl, nel nord della Siria, dove più di 60.000 persone, per la maggior parte affiliate allo Stato Islamico, sono richiuse in condizioni estreme: il 94% di queste è costituito proprio da donne e bambini.
La giovane paziente della fotografia, era stata vittima di un incendio sviluppatosi durante la notte, in seguito a un’esplosione, nel campo di Al-Hawl. I bambini, lasciati a se stessi tutto il giorno, sono spesso le prime vittime dei molti pericoli del campo: folgorazioni, violenze, malattie.
Sembra incredibile che il colpo di luce inviti a guardare l’ombra.
Là dove si nasconde lo sguardo perso nel nulla della ragazzina. I motivi del suo sguardo assente possiamo intuire siano diversi o anche uno solo: lo spavento dell’esplosione, l’intontimento da farmaci, la profonda tristezza della vita, la stanchezza, l’abbandono. Poco importa quale sia la causa poiché il risultato rimane invariato e il merito di questa riuscita è tutto della fotografa. L’immagine è semplicemente perfetta nella sua composizione con una uniformità di colore tendente allo scuro, con scarsa luminosità, tagliata a metà da un cono di luce solare che sembra tenere compagnia al bianco della benda sul braccio.
Caravaggio direi ha fatto scuola e senza ancora la scoperta della fotografia!
Vale la pena ricordare Il mestiere di Chloe, quello di essere fotoreporter. Ebbene sì ricordare a chi non ha confidenza con il fotoreportage, con la guerra, con la parte del mondo che vive senza globalizzazioni, senza pace, senza legalità. Perché Chloe Sharrock prima di portare a casa questa immagine è andata in Siria, poi fino a Rakka, poi ha cercato il campo profughi, poi ha usato il suo intuito, si è mossa come tanti altri fotoreporter cercando di bloccare in uno scatto un pezzo di realtà: quella vista da lei. Testimoni tenaci che, nonostante l’assuefazione paludosa della nostra civiltà, continuano a raccontare ciò di cui è capace l’uomo, a fare la Storia, la sconcertante Storia. Chloe testimone, vicina al dolore per portarci attimi così intensi da farci traballare. Ebbene sì! perché si vacilla di fronte ad immagini che racchiudono tutta la sofferenza che provoca una guerra. La Siria è stata oggetto di diverse testimonianze, proprio a causa di questa assurda guerra come assurde lo sono tutte le guerre. Dal 2011!! Il sentimento iniziale – adesso che sappiamo, dopo aver visto, che adesso conosciamo – si trasforma in rabbia, in disperazione per urlare più forte che si può: NON È GIUSTO!! NON È GIUSTO!!
Allora mi strappo i capelli, urlo ma …. la fotografia non sente e la fotoreporter è lontana.
A chi posso urlare la mia disperazione, la mia ribellione?
La fotografia diventa un carcere! L’immagine isola i sentimenti, li relega in disparte dopo averli sollecitati. Allora cosa dobbiamo a questa immagine come alle tante altre di Choe? La commozione non credo sia sufficiente o forse è così sufficiente a spingere a conoscere cosa succede nel mondo, a comprendere, a indagare? Oppure rimane lì sospesa tra le tante altre immagini che il mercato dell’informazione propone?
Domane inutili, parole inutili.
Si va avanti e poi si mettono insieme i tanti piccoli, piccolissimi pezzetti del puzzle degli “strappi” che l’uomo procura nel mondo. Forse allora la fotografia si trasforma nel cortile del carcere per iniziare a prendere aria, per acquisire un pò di lucidità, per riguardare l’immagine, per iniziare a cercare e guardare altre immagini sempre con lentezza.
In Siria a differenza che in altri paesi investiti dalla Primavera Araba, la sollevazione popolare ha incontrato la ferma reazione del dittatore Bashar al-Assad, trasformandosi in una vera e propria guerra civile. Tra i ribelli si sono infiltrati gruppi armati di stampo jihadista che in breve tempo ne hanno preso il controllo. Nel 2014 la città di Raqqa, che era stata una delle prime a essere liberate dall’Esercito Siriano Libero, è diventata la capitale del califfato dello Stato Islamico, e la popolazione, come in molte altre aree del paese, è stata costretta ad adeguarsi all’ideologia. Così nel 2019, quando il califfato è caduto, la Siria si è ritrovata a fare i conti con città ridotte in macerie e profonde ferite sociali. È in questa situazione che Chloe Sharrock ha iniziato a raccogliere le sue immagini, mossa da una personale sensibilità per i diritti delle donne. Nel villaggio di Al-Hol, adiacente all’omonimo campo, dove sono detenute migliaia di famiglie legate allo Stato Islamico, la sezione dei bambini del cimitero locale si sta espandendo a un ritmo allarmante. Figli e figlie di jihadisti, sia locali che stranieri, ora riposano sotto la cura di Ahmed Salem Shihab, un becchino lì da 25 anni. “Provo dolore per tutti loro”, dice. “E li seppellisco come se fossero i miei figli”. Il campo di detenzione gestito dai curdi ospita 62.000 individui di circa 60 nazionalità diverse, due terzi dei quali sono bambini che lottano per sopravvivere a causa delle malattie o della violenza e della mancanza di cure. Vi sono morti 371 minori nel 2019 e 157 nel 2020: una media di cinque morti a settimana. Mentre i sostenitori dei diritti umani sollecitano i governi stranieri a fare di più per rimpatriare i propri cittadini, secondo le nostre ricerche, almeno 11 bambini europei sono morti nei campi siriani, tra cui cinque belgi, 3 olandesi e un britannico.
Dopo queste notizie riguardiamo la fotografia e aggiungiamo un sentimento a ciò che proviamo: la vergogna. Vergogna per quello che noi riusciamo a creare, vergogna per quella bellezza smarrita, per quel braccio fasciato, per i segni di bruciature sul volto, per quelle tristi labbra da diva cinematografica, vergogna perché non riusciamo a fermare la violenza del potere e di quelli che la guerra la desiderano, la alimentano. Grazie Chloe e grazie a tutti i testimoni di guerra.
© Chloe Sharrock, Al-Hawl (Siria), marzo 2021. La foto è stata esposta nella mostra “STRAPPI Tra violenza e indifferenza” al Mastio della Cittadella a Torino nel 2019. STRAPPI: una mostra collettiva di nove fotoreporter, con dieci immagini per ognuno. In comune, oltre a significativi riconoscimenti, il lavoro in prima linea.
Biografia
Nata nel 1992, Chloe Sharrock, inserita presto in un ambiente artistico, ha sempre considerato le immagini un mezzo privilegiato per trasmettere le proprie emozioni e il proprio impegno. Ha studiato Storia dell’arte a Lione, con specializzazione nelle correnti artistiche dal XIV al XVII secolo (materia che influenza tuttora il suo lavoro), e Cinema a Parigi, focalizzandosi sull’estetica e sulla realizzazione di documentari. Nel 2017 il suo forte bisogno di testimoniare i tumulti del mondo l’ha portata a scegliere, tra tutti i mezzi possibili, la fotografia.
Dopo un anno trascorso in Libano tra donne libanesi, siriane e palestinesi, ha creato Alhawiat, un’associazione che si occupa di promuovere, attraverso conferenze e tavole rotonde in Francia, il ruolo delle donne nella ricostruzione delle società mediorientali sconvolte dai conflitti. Da allora continua a occuparsi di Medio Oriente e diritti delle donne, raccontando la violenza a tutti livelli.
Il suo impegno l’ha portata anche in India, dove nel 2019 ha realizzato Sugar Girls, un reportage sull’isterectomia forzata che l’anno successivo è stato esposto al festival Visa pour l’image e premiato da CNAP (Centre National des Arts Plastiques), La Scam (Société civile des auteurs multimedia) e dal Ministero della Cultura francese.
Dal 2021 è rappresentata dall’agenzia MYOP. I suoi lavori sono stati pubblicati da testate di tutto il mondo, come «Newsweek Japan», «The Washington Post», «Libération», «Le Temps», «Neue Zurcher Zeitung».
Dal 2015 mi dedico attivamente al progetto ArtPhotò con cui propongo, organizzo e curo eventi legati al mondo della fotografia intesa come linguaggio di comunicazione, espressione d’arte e occasione di dialogo e incontro. La passione verso la fotografia si unisce ad una ventennale esperienza, prima nel marketing L’Oreal e poi in Lavazza come responsabile della comunicazione, di grandi progetti internazionali: dalla nascita della campagna pubblicitaria Paradiso di Lavazza nel 1995 alla progettazione, gestione e divulgazione delle edizioni dei calendari in bianco e nero con i più autorevoli fotografi della scena mondiale fra cui Helmut Newton, Ferdinando Scianna, Albert Watson, Ellen von Hunwerth, Marino Parisotto, Elliott Erwitt e i più famosi fotografi dell’agenzia Magnum.
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